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Opinioni

Perché la guerra di Erdogan ai diritti delle donne riguarda tutte noi

“Incita al divorzio e indebolisce la famiglia”. Così il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha giustificato la decisione della Turchia di uscire definitivamente dalla Convenzione di Istanbul, trattato contro la violenza sulle donne e la violenza domestica. Da oggi il paese non farà più ufficialmente parte del trattato, mentre in tutto il mondo sono state organizzate manifestazioni di protesta contro la deriva patriarcale della Turchia, in atto ormai da un decennio.
A cura di Natascia Grbic
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Da oggi, giovedì primo luglio, la Turchia esce definitivamente dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. Nonostante le proteste di milioni di donne in tutta la Turchia, il 14 marzo il presidente Recep Tayyip Erdogan ha apposto la sua firma dichiarando che il governo è “già impegnato” nel contrasto alla violenza di genere. Eppure, secondo il report di ‘We Will Stop Femicides’, i dati numerici sono agghiaccianti: solo nel 2020 ci sono stati 300 femminicidi accertati e 131 morti sospette di donne, mentre nei primi tre mesi del 2021 le donne uccise sono state 79, con 45 morti sospette. Con la pandemia da coronavirus sono aumentati drasticamente i casi di violenza, con le donne costrette a stare in casa con i loro aguzzini. Molte di loro hanno inoltre denunciato di aver trovato difficoltà a chiedere aiuto alla polizia e di essere state impossibilitate a sporgere querela a causa dell’opposizione manifestata da parte degli agenti. La situazione, che negli ultimi anni si è ulteriormente aggravata, rischia di diventare ancora più insostenibile con l’uscita della Turchia dalla Convenzione di Istanbul.

Nel 2011 la Turchia è stato il primo paese a porre la sua firma sulla Convenzione. All’epoca le associazioni per i diritti civili e le organizzazioni femministe avevano ancora una possibilità (seppur limitata) di avere una qualche voce all’interno di tavoli e negoziati. E il movimento femminista è riuscito dopo anni di battaglie a far sì che il trattato internazionale sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica diventasse realtà. Entrata in vigore nel 2014, la Convenzione di Istanbul non è mai stata applicata e nel corso degli anni è stata svuotata di significato.

Basti pensare che nel 2012 il Ministero delle donne e della famiglia venne trasformato nel Ministero della famiglia e delle politiche sociali, suscitando proteste in tutto il paese che però vennero ignorate – se non duramente represse – dai vertici governativi. Fu il primo segnale che le donne non erano più viste come individualità, ma solo come soggetti facenti parte della famiglia. Non a caso è stato sempre Erdogan a dire che “rifiutare la maternità significa rifiutare l’umanità”, raccomandando alle donne di avere almeno tre figli. Diversi furono inoltre i tentativi di rendere l’aborto illegale: alla fine il governo di Erdogan non riuscì ad abolire la legge, ma rimane comunque molto difficile per una donna accedere all’interruzione di gravidanza. Nel 2015 il presidente turco disse di voler istituire una Commissione per individuare "le cause dei divorzi e trovare le misure per prevenirli". Questo anche se il motivo della fine di una relazione è la violenza domestica. L’importante, per Erdogan, era ridurre il tasso dei divorzi, che nel 2014 erano aumentati del 4,5%. E non è un caso che una delle motivazioni addotte dal presidente turco per uscire dalla Convenzione di Istanbul sia che “incita al divorzio e indebolisce la famiglia”.

Il 19 giugno a Istanbul si è tenuta una manifestazione che ha visto migliaia di donne scendere in piazza contro la decisione di Erdogan di abbandonare la Convenzione. E anche oggi, giovedì primo luglio, milioni di donne manifesteranno in tutto il mondo contro la deriva patriarcale della Turchia al grido di ‘Istanbul Convention Saves Lives!’. Sia per solidarietà, sia per chiedere che la Convenzione venga realmente applicata anche nei paesi dove è ancora in vigore. La lotta delle donne in Turchia, infatti, è una battaglia che riguarda tutte. In Bulgaria, Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia, Grecia, Francia, Germania, Regno Unito e Argentina ci saranno mobilitazioni anche per denunciare le situazioni locali. Se infatti i partiti ultraconservatori, soprattutto dell’Est Europa, hanno annunciato di voler aderire a una non meglio precisata ‘Convenzione sui diritti della famiglia’, molti dei paesi che non mettono in discussione la loro adesione al trattato stanno facendo poco o nulla per concretizzarlo. Se alcuni passi in avanti sono stati fatti sulla legislazione, con l'introduzione dei reati di stalking, atti persecutori, revenge porn, troppo c'è ancora da fare sul fronte dei percorsi di fuoriuscita dalla violenza. Secondo il rapporto del GREVIO sull'applicazione in Italia della Convenzione di Istanbul, sono troppi i casi in cui le donne che denunciano dopo anni i compagni sono sminuite o non ritenute credibili dai giudici. A volte si arriva addirittura a levare loro l'affidamento dei figli, ritenendole non in grado di prendersene cura. Così come la scarsa applicazione e il rispetto degli ordini di protezione, che non sempre riescono a tutelare chi decide di denunciare. Mancano anche gli spazi, i luoghi fisici, dove poter ospitare le donne che si allontanano dal nucleo familiare e i loro figli. Tanto che spesso, uno dei motivi per cui non possono allontanarsi dalla casa condivisa con il maltrattante, è proprio questo: banalmente non sanno dove andare.

Erdogan esce dalla Convenzione di Istanbul e dichiara guerra ai diritti delle donne: ma nei paesi in cui questa è ancora in vigore, non vuol dire che la situazione sia rosea. Perché se un paese candidato all'Unione Europea può prendere una decisione di questo tipo nel silenzio degli Stati membri, vuol dire che il problema non riguarda solo la Turchia, ma anche noi.

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Giornalista dal 2013, redattrice alla cronaca di Roma di Fanpage dal 2019. Ho lavorato come freelance e copywriter per diversi anni, collaborando con vari siti, agenzie di comunicazione e riviste. Laureata in Scienze politiche all'Università la Sapienza, ho frequentato nel 2014 la Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso.
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