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Opinioni

L’inferno in terra delle adolescenti afghane dopo la riconquista talebana

A Kabul le studentesse nascondono i documenti che provano la loro iscrizione in università. Bruciano i vestiti e svuotano le trousse con i loro trucchi. Chiudono i profili Instagram, si procurano dei chadari, i burqa afgani. Con la riconquista talebana saranno ancora le donne a pagare il prezzo più caro.
A cura di Jennifer Guerra
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Donne afghane col burqua (Foto di Paula Bronstein/Getty Images)
Donne afghane col burqua (Foto di Paula Bronstein/Getty Images)

A Kabul le studentesse nascondono i documenti che provano la loro iscrizione in università. Bruciano i vestiti e svuotano le trousse con i loro trucchi. Chiudono i profili Instagram, si procurano dei chadari, i burqa afgani. “La mia vita”, ha raccontato al Guardian una giornalista ventiduenne rimasta anonima per ovvie ragioni di sicurezza, “è stata cancellata in pochi giorni”. Leggendo e ascoltando i racconti di queste giovani donne in fuga, non si può che pensare a questa enorme operazione di obliterazione collettiva. Tutti in Afghanistan stanno distruggendo ciò che può compromettere la sicurezza personale: libri, vestiti, carte e fogli che provino un rapporto di qualsiasi tipo con gli Occidentali. La ong Pangea, dal 2002 impegnata nella lotta alla violenza di genere in Afghanistan, sta bruciano il proprio archivio per far sì che nessuno risalga all’identità delle donne aiutate nei loro progetti o a quella delle volontarie.

Mi colpisce soprattutto il destino delle mie coetanee. Nel 2001 avevo sei anni e l’11 settembre è uno dei miei primi ricordi legati alla consapevolezza dell’esistenza di un mondo esterno, al di fuori del mio quotidiano. Se dovessero chiedermi com’era la vita del mio Paese prima di quella data, non saprei cosa rispondere. Anche le ragazze afgane che hanno la mia età o sono più giovani di me non hanno memoria di come si vivesse sotto i talebani. La loro coscienza politica e sociale è maturata in un clima in cui i talebani – la cui minaccia era comunque sempre incombente – esistevano soprattutto nella concretezza dei ricordi dei loro genitori. Alcune raccontano di essersi fatte prestare i vecchi burqa che le madri indossavano prima del 2001 per portarli nei pochi giorni in cui potevano uscire prima che arrivassero i talebani. Ora sono arrivati e hanno cancellato le loro vite, spazzando via i loro studi, i loro lavori, i loro desideri e le loro istanze politiche.

Nel corso di questi vent’anni, le donne afghane non si erano di certo liberate. Non a caso, il Paese è ancora considerato il peggior posto in cui nascere se sei donna e secondo Human Rights Watch l’87% delle donne afgane ha subìto violenza fisica o sessuale almeno una volta nella vita. La legge sull’eliminazione della violenza contro le donne approvata nel 2009 non è mai stata davvero implementata: una donna che subisce una violenza sessuale in Afghanistan ha più probabilità di essere incriminata per aver fatto sesso fuori dal matrimonio che di vedere in carcere il suo stupratore. Le carenze, gli abusi e le violenze di genere sono forse la dimostrazione più palese che l’uguaglianza e la democrazia non si possono imporre dall’alto o esportare senza che insieme avvenga un cambiamento culturale che parta dal basso: ogni sforzo sarà inutile e potrebbe persino peggiorare le cose.

Con la ritirata degli eserciti statunitensi e alleati e l’avanzata sempre più ostile dei talebani, la situazione è precipitata in una maniera che sembra irreparabile e con una velocità impressionante, da un giorno all’altro. I video che circolano in queste ore mostrano ragazze e bambine rapite per strada, prelevate come trofei di una guerra che non è loro e non lo è mai stata. Come ha scritto una studentessa di 24 anni anche lei rimasta anonima, le donne si sentono le vittime politiche di una guerra che gli uomini hanno cominciato e che, come tutte le guerre, si consuma a scapito della loro integrità.

Foto: Paula Bronstein/Getty Images)
Foto: Paula Bronstein/Getty Images)

Così a queste ragazze e bambine non resta che cancellarsi, eliminando ogni traccia del loro corpo e della loro identità, diventando indistinguibili l’una dall’altra. A molte resterà solo la clandestinità, come quella portata avanti da Rawa, l'Associazione rivoluzionaria delle donne dell'Afghanistan, nata nel vicino Pakistan nel 1977, che in queste ore si sta organizzando per preparare la resistenza: “Troveremo il modo di proseguire la nostra lotta a seconda della situazione. È difficile dire come, ma sicuramente porteremo avanti le nostre attività clandestine come negli anni Novanta, durante il governo dei talebani. Certamente questo non sarà esente da rischi e pericoli, ma qualsiasi tipo di resistenza ha bisogno di sacrifici”, ha raccontato una portavoce dell’Associazione a Osservatorio Afghanistan. La missione di Rawa è innanzitutto politica e alla ricerca di una liberazione femminile autonoma e autentica che non dipenda dallo sguardo occidentale, che oggi è comunque rivolto da un’altra parte.

Molte donne definite “ad alto rischio” sono fuggite o stanno fuggendo da un Paese la cui rovina è anche responsabilità nostra. Molte altre resteranno e dovranno imparare da zero come si sopravvive in un regime fondamentalista e misogino. Avranno circa la mia età e desideri conquistati a fatica in questi anni non facili, schiacciati da un giorno all’altro dalla violenza patriarcale di chi considera le donne nient’altro che come beni di cui disporre. Avranno forse dovuto distruggere le prove di chi erano, di cosa facevano o di ciò che sognavano di essere un giorno, ma questo non significa che abbiano smesso di essere loro stesse o di lottare per riaffermarlo.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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