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Diario da Kabul/2 – Crimini di guerra, il boicottaggio delle Nazioni Unite

La seconda puntata del reportage da Kabul. Tra i mutilati dagli effetti di 35 anni di guerre e massacri. “Solo uno Stato civile e democratico potrebbe assisterli e integrarli, ma di questo non c’è neppure l’ombra”.
A cura di Enrico Campofreda
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AFGHANISTAN-UNREST

I più "fortunati" camminano su protesi, gli altri s’appoggiano a grucce o si trascinano su carrettini. Sostano agli incroci delle cinque grandi strade che portano in centro, sfiorando le auto con discrezione. Confidano nella pietà islamica che però deve fare i conti con la povertà diffusa. A Kabul i menomati e mutilati del conflitto infinito che affligge il Paese sono visibilissimi. Quanti siano è difficile dirlo, perché qui di certo non c’è neppure il numero degli abitanti. Hanno visto morire congiunti e amici perciò si ritengono miracolati sebbene quelle stampelle li costringeranno all’elemosina per il resto dei giorni. Solo uno Stato civile e democratico potrebbe assisterli e integrarli, ma di questo non c’è neppure l’ombra. Sono il volto dolente d’un crimine di guerra lungo trentacinque anni, di due occupazioni straniere (sovietica e quella Isaf in corso), delle bande paramilitari in lotta dal 1992 al 1996, del successivo potere Taliban.

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Il Social Association of Afghan Justice Seekers s’occupa dal 2007 delle vittime e dei lutti della guerra civile e del governo talebano. Weeda Ahamad è la responsabile della struttura e ha attorno uno staff non solo di giovani che stanno conoscendo le miserie della nuova occupazione e raccolgono le testimonianze delle violenze trascorse. "E’ un lavoro difficile – commenta Weeda – le persone che pure hanno subìto tanti soprusi cercano di rimuovere e dimenticare oppure non si fidano. Quando all’inizio bussavamo alle porte non ci aprivano perché pensavano fossimo agenti di Karzai. Molti non vogliono puntare il dito sugli assassini e continuano a temerli per il ruolo istituzionale che oggi ricoprono".

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Quattrocento atti d’accusa. Basta ascoltare il racconto di una di queste persone, il signor Esatollah, che a un certo punto ha iniziato a collaborare col Saajs. Conosciutissimo nel centro cittadino ha raccolto da solo 400 atti d’accusa che costituiscono quasi la metà del dossier dell’associazione. Durante il conflitto civile l’intera Kabul visse un assedio peggiore di quello che in contemporanea subiva Sarajevo. Lì morirono in 12.000 nella capitale afghana oltre 60.000 persone. La città bassa era continuamente battuta dall’artiglieria che vedeva contrapposte le truppe dell’unico Signore della guerra osannato come un eroe nazionale, Ahmad Massoud, disposte a ovest sull’Aasmaee Mountain e quelle guidate da Rasul Sayyaf schierate sull’altura opposta. Posizioni mantenute a lungo mietendo vittime e non erano gli unici comandanti a combattersi.

I ricordi di Esatollah. "Avevo saggiato la violenza già all’epoca dell’occupazione sovietica, dal 1992 la situazione è precipitata. Il gruppo Wahdat-i Islami piombò nel quartiere dove vivevo distruggendo negozi e botteghe. Seppi che la mia officina meccanica era stata devastata dai mercenari di Dostum. Non potevamo lavorare, trovare cibo era difficile, si rischiava la vita a ogni uscita ma noi uomini dovevamo nutrire le famiglie. Eravamo fra due fuochi, non si poteva nemmeno fuggire e poi per andar dove? Quando una granata colpì la mia casa e il solaio mi crollò addosso, ferito pensai al peggio che comunque arrivò perché mia figlia rimase sotto le macerie. Presi mia moglie e per un periodo tornai nella zona d’origine. Sono rimasto zoppo ma mi ritengo fortunato”.

Boicottaggio internazionale Un secondo progetto del Saajs si rivolge alla tortura. Racconta Ahmad: "L’argomento, tanto dibattuto dalla comunità internazionale, è scarsamente sostenuto nel nostro Paese. Ci troviamo davanti a un doppio ostacolo, quello interno di politici e intellettuali che non ci aiutano affatto, e quello di famose strutture. La delusione maggiore viene dall’Unama (United Nations Assistence Mission in Afghanistan) che dopo un’iniziale apertura ha mutato atteggiamento. Durante gli attuali incontri i funzionari ridacchiano, capiamo che puntano a perder tempo, a far cadere i progetti. Insomma praticano una sorta di boicottaggio. E’ la conseguenza delle scelte geopolitiche che vedono gli Stati Uniti accettare personaggi come Fahim nelle più alte cariche del Paese, e di posizioni accondiscendenti anche all’entrata talebana nell’establishment nazionale”.

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