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Opinioni

Chi ha vinto alle elezioni Midterm (e soprattutto, perché ha perso Trump)

Le elezioni di Midterm hanno smentito il “tornado rosso” che il Partito Repubblicano si aspettava e hanno sottolineato le debolezze di Donald Trump, soprattutto in vista di una possibile ricandidatura nel 2024.
A cura di Daniele Angrisani
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Dopo una lunga notte di spoglio e di tensione, il primo risultato delle elezioni di metà mandato è paradossalmente che non sapremo chi ha vinto prima di qualche giorno. Tuttavia, un dato politico salta subito alla luce: i primi risultati parziali sembrano ben lontani da quello "tsunami rosso" sognato dai repubblicani fino a martedì mattina.

A testimoniarlo è un aneddoto che circola a Washington, DC: il leader della minoranza repubblicana della Camera Kevin McCarthy avrebbe dovuto salire sul palco della sua festa elettorale in un hotel di Washington già alle 22:00 di martedì ora locale per dichiarare la vittoria. Ma a mezzanotte, il piano principale del locale era ancora vuoto.

Solo all'1:59 di mercoledì mattina ora locale, McCarthy è salito sul palco con la scritta “TAKE BACK THE HOUSE" per dichiarare prematuramente: "È chiaro che ci riprenderemo la Camera”. Al momento che vi scriviamo, però, la Camera non è stata ancora assegnata da nessuno dei principali media americani.

Anzi, secondo l’ultima proiezione dei seggi di NBC News, i repubblicani potrebbero al massimo ottenere una maggioranza ristretta alla Camera con 221 seggi contro i 214 dei democratici. Con questi dati, bastano 4 elezioni speciali per cambiare chi controlla la Camera. I repubblicani speravano decisamente di meglio.

Ciò significa, dunque, che la grande ondata rossa che alcuni a destra avevano previsto e sognato – e che i sondaggi allineati al GOP indicavano sempre più spesso come possibile  – non si è affatto materializzata.

I democratici sono stati invece in grado di ottenere qualcosa che nessun altro era stato in grado di fare da decenni: buoni risultati con gli elettori che disapprovano il presidente loro espressione. Secondo gli exit poll, i democratici sono riusciti a vincere di 4 punti proprio in questo gruppo chiave di elettori. Ed è questo il segreto principale con cui i democratici sono riusciti ad ottenere un risultato a loro modo storico.

Va detto che in questa impresa sono stati aiutati da un alleato inatteso: gli elettori repubblicani. Una base elettorale ancora in preda all'entusiasmo per Donald J. Trump ha scelto candidati alle primarie da lui supportati che si sono dimostrati però incapaci di attrarre i voti degli indipendenti perché troppo estremi e/o poco convincenti.

Questo vale soprattutto per il Senato. I democratici hanno vinto la prima grande sfida nella prima mattinata di mercoledì, con il vicegovernatore democratico della Pennsylvania John Fetterman che ha sconfitto il repubblicano Mehmet Oz con un margine previsto di oltre 4 punti, decisamente migliore dello scarto con cui Biden ha vinto da queste parti nel 2020.

Oz è stato appoggiato da Trump alle primarie repubblicane, dove ha battuto di pochissimo il candidato centrista Dave McCormick, che veniva considerato dai sondaggi e dagli analisti come un candidato maggiormente adatto a vincere alle elezioni generali.

I repubblicani hanno perso anche la corsa al Senato del New Hampshire, dove la senatrice democratica uscente Maggie Hassan era considerata sempre più a rischio ed invece ha vinto contro Don Bolduc, un generale dell'esercito in pensione con posizioni di estrema destra.

Il Partito Repubblicano ha invece ottenuto la vittoria in Ohio, dove ha vinto J.D. Vance, e in North Carolina, dove ha vinto il deputato Ted Budd, entrambi candidati supportati da Trump.

Tolti gli Stati dove il risultato non era in discussione, sono rimaste così solo 3 sfide aperte per decidere la maggioranza – Arizona, Georgia e Nevada – e ciascuno dei due partiti deve ora vincerne 2 su 3 per raggiungere il risultato agognato, la maggioranza al Senato.

Al momento in cui scriviamo, i democratici sembrano essere in una situazione ragionevolmente buona in Arizona, mentre in Nevada è tutto ancora aperto e per la Georgia a decidere sarà il ballottaggio che si terrà il prossimo 6 dicembre tra il senatore democratico uscente Raphael Warnock ed il suo rivale repubblicano Herschel Walker.

Perché i dem hanno ottenuto un risultato migliore del previsto

Nonostante ciò che affermano molti commentatori nostrani, il risultato delle elezioni di metà mandato non è stato per nulla influenzato da questioni esterne, che sono in fondo alla lista delle priorità degli elettori che si sono recati al voto.

(E questo nonostante il fatto che, palesemente, Putin abbia aspettato la fine delle elezioni per annunciare il ritiro russo da Kherson per non regalare una vittoria politica a Biden prima della chiusura delle urne).

Come hanno fatto, dunque, i democratici ad ottenere un risultato migliore del previsto che smentisce le principali della vigilia? Di seguito provo ad esporre quelle che ritengo essere le principali motivazioni, ovviamente tutte legate alla situazione interna americana.

Democratici in massa alle urne

Normalmente alle elezioni di metà mandato, dove l’affluenza è tipicamente più bassa di circa 20 punti percentuali rispetto ad un anno presidenziale, vince il partito che risulta essere più in grado di mobilitare il proprio elettorato.

Le due più grandi sconfitte recenti dei democratici alle elezioni di metà mandato (2010 e 2014 durante l’epoca Obama) sono state dovute in gran parte proprio al collasso dell’affluenza al voto dei democratici in questi anni elettorali ed alla grande mobilitazione tra i repubblicani.

Ma già nel 2018, quando gli elettori hanno ripudiato Trump e i democratici hanno riconquistato la Camera, l’affluenza ha superato qualsiasi record precedente da circa 100 anni, nonostante anche l’affluenza tra i repubblicani fosse più alta del solito.

Stando alle valutazioni della società di analisi dei dati democratica Catalist, anche il 2022 sarà alla fine molto più vicino al 2018 come affluenza che alle elezioni di medio termine degli anni precedenti.

Molti analisti ritengono ormai che gli Stati Uniti abbiano raggiunto un nuovo livello di partecipazione alle urne più alto che in passato, alimentato dall’altissima polarizzazione politica e dalla paura degli elettori di ciascun partito nei confronti dell'altra parte.

Questo potrebbe spiegare perché i sondaggi non sono riusciti a cogliere la sensazione di malessere diffusa tra i democratici, cresciuta dopo l'annullamento della sentenza Roe v. Wade da parte della Corte Suprema e le udienze della Commissione 6 gennaio, per il fatto che i loro diritti democratici fondamentali erano sempre più a rischio percepito.

La sentenza sull’aborto della Corte Suprema

Per gran parte del 2021 e della prima metà del 2022, i repubblicani sembravano pronti a conquistare facilmente la maggioranza al Congresso.

Poi è arrivata la decisione bomba della Corte Suprema nella causa Dobbs contro Jackson Women's Health Organization, che ha ribaltato un precedente di 50 anni che molti americani davano per scontato ed ha consentito di rendere illegale l’aborto (che prima era protetto a livello federale) in molti Stati a guida conservatrice.

La buona notizia per i democratici dagli exit poll di martedì sera è stata che molti elettori – quasi 3 su 10 – hanno dichiarato che il diritto all’aborto è stata per loro la questione più importante, una percentuale quasi pari a quella degli elettori che hanno nominato l'inflazione, che nei sondaggi preelettorali dominava invece da sola come preoccupazione principale.

Questo significa che i democratici hanno trovato, anche senza volerlo, un tema con cui coinvolgere la propria base elettorale e spingerla al voto in massa.

Governatori democratici come Gretchen Whitmer del Michigan si sono posizionati come baluardi dei diritti all'aborto, mentre i gruppi liberali hanno versato centinaia di milioni di dollari in pubblicità che evidenziavano le posizioni di estrema destra sull’aborto assunte da molti candidati repubblicani per vincere le primarie.

Che l’aborto sia stato molto rilevante lo hanno detto anche gli elettori con il proprio voto in diversi Stati: in California, Michigan e Vermont, ad esempio, gli elettori hanno approvato a netta maggioranza misure per aggiungere diritti costituzionali che garantiscano l'accesso alla procedura di aborto.

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Trump ha supportato candidati repubblicani deboli

In molti casi, i democratici hanno potuto sfidare gli avversari che desideravano, grazie alle scelte errate degli elettori repubblicani che alle primarie hanno quasi sempre votato a favore dei candidati supportati dall’ex presidente Donald J. Trump. E l’estabilishment repubblicano è stato spesso confuso e frustrato dalle scelte fatte dai suoi stessi elettori.

Ad esempio, i leader repubblicani hanno corteggiato aggressivamente governatori centristi come Doug Ducey dell'Arizona, Larry Hogan del Maryland e Chris Sununu del New Hampshire affinché si candidassero al Senato, ma con scarsi risultati.

Trump ha invece giocato a fare il kingmaker da Mar-a-Lago, dando il suo endorsement a quei candidati che dimostrassero fedeltà alle sue bugie sui brogli delle elezioni del 2020. Gli elettori repubblicani si sono schierati in modo schiacciante con Trump, portando Mitch McConnell, leader della minoranza del Senato, a preoccuparsi pubblicamente della "qualità" dei candidati del suo stesso partito.

In alcuni casi, sono stati gli stessi democratici a cercare di interferire nelle scelte degli elettori repubblicani e portarli a supportare i candidati più estremisti alleati con Trump, che negavano la legittimità della vittoria di Biden nel 2020.

Una volta che queste nomine sono state consolidate, i democratici hanno poi bombardato gli elettori con messaggi che ritraevano gli stessi candidati repubblicani come troppo estremisti su questioni come i diritti all'aborto o come oppositori della democrazia stessa.

In molti casi, il rischioso approccio da "terra bruciata" dei democratici ha funzionato. Ad esempio, Josh Shapiro, procuratore generale della Pennsylvania e candidato governatore, ha battuto in maniera schiacciante il suo rivale senatore statale Doug Mastriano proprio grazie a questo effetto.

Anche Don Bolduc, un candidato repubblicano che ha fatto leva sulle bugie di Trump sui brogli elettorali per vincere alle primarie, ha perso una corsa al Senato nel New Hampshire che i leader repubblicani nazionali pensavano di poter vincere agevolmente in caso contrario.

La bocciatura ai candidati Segretari di Stato negazionisti delle elezioni

Un secondo aspetto legato al punto precedente è stata la percezione da parte degli elettori di posizioni troppo estreme espresse da una serie di candidati ultra-trumpiani.

Ad esempio, l'America First Secretary of State Coalition è un gruppo che comprende una mezza decina di candidati che si sono spinti più in là degli altri nel rifiutare i risultati delle elezioni del 2020. E si temeva che, in caso di vittoria, potessero usare le posizioni di potere per ostacolare la futura gestione delle elezioni democratiche.

Ma praticamente in tutti gli Stati chiave in cui si sono presentati al voto, hanno ottenuto meno voti rispetto agli altri candidati repubblicani in lizza. È successo ad esempio con Audrey Trujillo del New Mexico, che ha perso, e con Kristina Karamo del Michigan, che sembra altresì destinata a perdere.

È successo anche al candidato governatore della Pennsylvania Doug Mastriano (che era nella coalizione perché avrebbe nominato il Segretario di Stato, che in Pennsylvania non viene eletto direttamente).

In Arizona e in Nevada le battaglie sono ancora aperte, ma Mark Finchem ed il leader della coalizione Jim Marchant, rispettivamente, sono entrambi posizionati peggio rispetto a tutti i loro compagni di lista. L’unico vincitore della coalizione finora? Diego Morales, dell'Indiana. Ma non si tratta di uno Stato in bilico.

Nella sua prima dichiarazione dopo il risultato delle elezioni, il Presidente Joe Biden ha ringraziato in primo luogo proprio i funzionari ed i volontari elettorali per l’impegno mostrato nel portare avanti il processo democratico nonostante le minacce ricevute, ed ha detto che la “democrazia non nasce fuori dal nulla” e che va sempre “difesa, rafforzata e rinnovata”.

È molto probabile dunque che, visti i risultati di queste elezioni, i democratici continueranno a puntare sulla minaccia antidemocratica dei repubblicani come arma elettorale per mobilitare il proprio elettorato a votare in massa anche in futuro.

Il Paese è più diviso che mai

La forza principale della politica americana rimane però la profonda divisione partitica. In generale i democratici hanno votato in massa per i candidati democratici ed i repubblicani hanno fatto lo stesso con i propri.

In anni passati, alle elezioni di metà mandato, il basso indice di gradimento di Biden e l'inflazione ai massimi da 40 anni avrebbero potuto far presagire una sconfitta durissima per il suo partito. Harry Truman perse 55 seggi alla Camera nelle sue prime elezioni di metà mandato; Bill Clinton ne perse 53; Barack Obama addirittura 63 nel 2010.

Tutto ciò non è successo a Biden ed è raro che la politica americana funzioni così. Il punto è che ci sono sempre meno elettori indipendenti, ed allo stesso tempo un numero sempre minore di sfide che possono davvero essere influenzate.

Ad esempio, alla Camera, grazie ad un gerrymandering sempre più estremo, la maggior parte dei 435 seggi in ballo era già decisa in precedenza, ed il cambio di battaglia era ristretto a pochi distretti chiave. Allo stesso modo meno di un terzo delle sfide al Senato di quest'anno sono state competitive.

Il candidato democratico Tim Ryan non è riuscito a sfuggire alla marcia a destra dell'Ohio, nonostante una campagna che i democratici hanno definito come "fenomenale"; né i repubblicani moderati come Joe O'Dea e Tiffany Smiley sono riusciti a ottenere risultati positivi in Colorado e nello Stato di Washington, nonostante le speranze repubblicane degli ultimi giorni.

Gli elettori hanno inoltre rieletto governatori repubblicani in Florida, Georgia e Texas. Hanno riportato o riconfermato i democratici al potere in Maryland, Massachusetts, Michigan, Minnesota, New York, Pennsylvania e Wisconsin.

E nonostante tutte le somme da record spese per campagne e spot televisivi nelle elezioni di metà mandato del 2022 – 16,7 miliardi di dollari, secondo una stima attendibile- il Paese si è svegliato il 9 novembre più o meno come l'8: diviso praticamente in due.

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Ron DeSantis vs Donald J. Trump

Tra i repubblicani, è subito iniziato lo scaricabarile per un risultato considerato decisamente peggiore del previsto. Al centro delle critiche c’è l’ex presidente Donald J. Trump che in molti definiscono “il grande perdente” di queste elezioni.

In particolare, viene addebitato a Trump il fatto di aver voluto personalizzare a tutti i costi queste elezioni, parlando sempre più spesso di recente della sua ventura nuova discesa in campo per la Casa Bianca, così come di aver fatto scegliere ai propri sostenitori candidati che non si sono dimostrati in grado di vincere alle elezioni generali.

Il comizio programmato da Trump a Mar-a-Lago per martedì 15 novembre in cui intende annunciare ufficialmente la sua ricandidatura alla presidenza non avverrà così più dopo quella che, lui ed i suoi consiglieri, speravano essere una grande vittoria repubblicana.

Al contrario, arriva dopo una elezione in cui i democratici hanno ancora una solida possibilità di mantenere il controllo al Senato e dove i repubblicani sono andati molto peggio del previsto alla Camera.

Per di più, a peggiorare le cose c’è il fatto che Trump non ha aiutato il proprio partito a creare una coalizione di elettori vincente negli Stati in cui si è presentato in prima persona per supportare i candidati repubblicani.

Ad esempio in Pennsylvania, a pochi giorni di distanza dalla visita di Trump a favore di Oz, il candidato democratico John Fetterman ha conquistato agevolmente il 57% dei voti degli indipendenti, il 67% degli ispanici ed il 57% delle donne, secondo gli exit poll. Sono tutti gruppi demografici in cui anche Trump ha avuto parecchi problemi nel 2020.

A prescindere dalla realtà degli elettori delle primarie del Partito Repubblicano, le élite repubblicane – e altri esponenti repubblicani anti-Trump – percepiscono per questo motivo ora in maniera sempre più chiara la debolezza di Trump. Tutto questo aumenta le probabilità di una battaglia per le primarie 2024 più rumorosa ed affollata di quanto si potesse immaginare in precedenza.

Di conseguenza, anche le possibilità che Trump riesca a spuntarla senza rivali sono nettamente diminuite. Di converso, la clamorosa rielezione del governatore della Florida Ron DeSantis ha rappresentato uno dei pochi punti positivi per i repubblicani in queste elezioni, e questo non potrà che avere pesanti effetti in vista del 2024.

La vittoria schiacciante di 20 punti di DeSantis – che ha conquistato alcune grandi contee in gran parte ispaniche, tra cui Miami-Dade e Osceola – gli fornirà ulteriore motivazione per una possibile campagna presidenziale.

Secondo quanto riporta Axios, DeSantis vuole infatti candidarsi a tutti i costi e sosterrà di avere posizioni politiche simili a quelle di Trump, ma in grado di poter ottenere vittorie molto più grandi e ampie.

Dalla sua, DeSantis ha il fatto di aver costruito la sua vittoria in Florida conquistando quasi tutti i gruppi più ostili a Trump nel 2020: secondo gli exit poll ha ottenuto il 57% tra gli elettori ispanici, il 52% tra le donne, il 58% tra gli elettori dei sobborghi ed il 52% tra gli elettori indipendenti.

Tra gli elettori ispanici, la quota di elettori di DeSantis tra i portoricani è passata dal 34% del 2018 al 55% del 2022. Soprattutto, la vittoria di DeSantis è stata alimentata dal miglior risultato del Partito Repubblicano nella contea di Miami-Dade in due decenni, ovvero dalla rielezione di Jeb Bush nel 2002.

Nel 2018, DeSantis aveva perso la contea di Miami-Dade di 20 punti e la contea di Palm Beach, un'altra roccaforte democratica, di 17 punti. Con il 95% dei voti scrutinati martedì sera, DeSantis era in testa a Miami-Dade di 11 punti e a Palm Beach di 3.

"Abbiamo riscritto la mappa politica", si è vantato DeSantis nel suo discorso di vittoria. "Grazie per averci onorato con una vittoria epocale". Questa grande e ampia vittoria rappresenta però anche una minaccia pericolosissima per le speranze di ricandidatura dell'ex presidente Trump.

Lo dimostrano titoli come quelli del New York Post che ha definito De Santis come “DeFuture” dei repubblicani o quello di un editoriale su Fox News a firma di Liz Peek che apertamente definisce Ron DeSantis come nuovo leader indiscusso del Partito Repubblicano, con toni durissimi verso Trump, impensabili fino a martedì mattina.

"Il più grande perdente? Donald Trump, i cui candidati lealisti scelti a mano in una serie di gare hanno faticato a battere i democratici più vulnerabili. Ancora una volta, l'ex presidente potrebbe essere costato ai repubblicani il controllo del Senato, in un anno in cui erano loro a perdere", afferma. "Molti concluderanno, sulla base dei risultati delle elezioni di metà mandato del 2022, che il Partito Repubblicano è pronto ad andare avanti, senza più Donald Trump come leader", continua Peek.

"Fin dai primi giorni delle elezioni di midterm, i critici di Trump hanno accusato l'ex presidente di aver manipolato le competizioni con l'obiettivo di valorizzare il proprio marchio invece di dare priorità alla conquista di seggi per il Partito Repubblicano. Ha appoggiato candidati che gli erano personalmente fedeli e che sostenevano la sua affermazione che l'elezione di Joe Biden era illegittima".

“Speriamo che i milioni di americani che hanno supportato Trump nel 2016 e di nuovo nel 2020 inizino a vedere che il suo tempo è passato. Se a loro piacciono le politiche di Trump, devono spostarsi su DeSantis che non ha mai perso una campagna elettorale e che è emerso grande vincitore di queste elezioni”, conclude Peek.

In questo contesto, i due esponenti repubblicani sono sempre più in rotta di collisione tra loro. Due volte nell'ultima settimana Trump ha preso di mira il governatore della Florida, chiamandolo tra l'altro Ron "DeSanctimonious" durante un comizio in Pennsylvania sabato scorso.

"Penso che se si candidasse, potrebbe farsi molto male. Credo davvero che potrebbe farsi molto male", ha successivamente minacciato Trump a Fox News mentre le elezioni di metà mandato erano in corso nella giornata di martedì. "Vi potrei dire cose su di lui che non sarebbero molto lusinghiere – so più cose su di lui di chiunque altro – a parte, forse, sua moglie che gestisce la sua campagna elettorale".

Ma a parte le minacce, il dato di fatto è che la promozione da parte di Trump di candidati al di fuori del mainstream politico — o di celebrità senza esperienza politica  — si è rivelata molto costosa per i repubblicani alle elezioni di martedì.

Il modello di DeSantis in Florida offre invece loro un percorso alternativo per la vittoria anche passando attraverso gruppi demografici che finora sono stati molto ostici se non del tutto fuori portata per i repubblicani alle elezioni presidenziali più recenti.

Qualsiasi cosa succeda, comunque, una cosa è certa: Trump non lascerà che il partito vada avanti senza di lui, senza prima combattere strenuamente. Si preannuncia dunque un duro scontro che potrebbe lasciare il Partito Repubblicano spaccato a metà a tutto vantaggio dei democratici in vista del 2024.

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Daniele Angrisani, 43 anni. Appassionato da sempre di politica internazionale, soprattutto Stati Uniti e Russia. 
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