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Guerra in Ucraina

Chi è Medvedev, l’ex colomba del Cremlino che ora odia gli Occidentali e li minaccia di morte

Ombra di Putin, poi suo sostituto, poi leader amato dall’Occidente liberale, ora suo acerrimo nemico. Che gioco sta giocando Dimitri Medvedev, tra una guerra che sta cambiando tutti i rapporti e le strategie per succedere allo Zar.
A cura di Fulvio Scaglione
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Dmitrij Anatol’evic Medvedev, l’uomo che visse due volte, anzi tre, diciamo pure quattro. Nato nel 1965 a San Pietroburgo (allora Leningrado), la stessa città natale di Vladimir Putin, Medvedev vive la sua prima vita da bravo ragazzo, figlio di docenti universitari e lui stesso avviato a un’onesta carriera intellettuale. Si laurea in giurisprudenza nel 1987 e nel 1990 ottiene un dottorato in diritto privato. Occhio alle date: l’Unione Sovietica sta crollando e Dima (diminutivo di Dmitrij), come tanti altri rampolli della borghesia metropolitana russa, mostra un sano spirito riformatore. Si aggrega al gruppo di giovani che circonda il super-progressista Anatoly Sobciak, e lavora per la campagna elettorale che porta il politico (e futuro sindaco di San Pietroburgo, nonché mentore di Putin) a conquistare, contro ogni previsione, un seggio nel Parlamento dell’Urss. E con la politica, per Medvedev, pare finita qui, torna all’Università dove si era laureato e comincia a insegnare Diritto romano. Errore: pur continuando a insegnare, si lascia arruola re come “esperto” dalla Commissione per le relazioni esterne dell’amministrazione di San Pietroburgo, inizialmente presieduta da tal Vladimir Putin.

La seconda vita di Medvedev comincia alla fine del 1999, quando viene chiamato a Mosca. Putin lo ha preceduto nel 1996, e in poco tempo ha scalato tutte le graduatorie, fino a diventare primo ministro. È chiaro che non è finita lì, Boris Eltsin sta declinando in fretta (si dimetterà alla fine dell’anno) e il giovane Putin è in prima fila per succedergli. L’uomo che diventerà presidente nel marzo 2000 ha bisogno di gente fidata e convoca al Cremlino gli amici e colleghi degli anni di San Pietroburgo, quelli che ancora oggi troviamo ai vertici delle istituzioni e dei potentati economici della Russia. Medvedev è appunto uno di questi. Viene inserito nello staff dell’ormai uscente presidente Eltsin, ma si capisce che è solo una scusa per inserirlo a un certo livello. È il direttore della campagna di Putin per le presidenziali, e il successo dell’uno è la fortuna dell’altro. Medvedev viene nominato presidente del Consiglio di amministrazione di Gazprom, l’ente statale che ha il monopolio dell’esportazione del gas naturale, una delle cassaforti dello Stato russo, e nel 2005 entra al Governo con la carica di vice-primo ministro. Il premier, in quel periodo, è Viktor Zubkov, altro nativo di San Pietroburgo che, nel gioco delle sliding doors putiniane, diventa poi presidente di Gazprom. Una carriera rapidissima, quella di Medvedev, tutta compiuta nell’ombra di un Putin che mostra di fidarsi totalmente di lui. E non è finita qui. Scadono i primi due mandati presidenziali di Putin, la Costituzione gli impone di cedere ad altri il Cremlino. E a chi, se non al fido Medvedev, che viene nominato presidente del partito Russia unita, candidato alla presidenza e inevitabilmente eletto.

Comincia qui la terza vita del nostro. Da Presidente ovviamente nomina Putin alla carica di primo ministro, ma con lui concorda una lista di ministri in cui cala la quota dei siloviki (gli uomini espressi dalle forze armate o dai servizi segreti) e aumenta quella dei civili. Niente di rivoluzionario, ma comunque un segnale. Anche perché Medvedev presenta un programma di taglio liberale di privatizzazioni che avrebbe dovuto portare allo Stato 32 miliardi di dollari in tre anni, da spendere per modernizzare l’economia russa e farla uscire dalla stretta dipendenza da gas e petrolio. E lancia una campagna anti-corruzione (lui, che più tardi sarà accusato di aver accumulato fortune incredibili) dai toni quasi andropoviani.

Medvedev s’insedia il 7 maggio e tre mesi dopo affronta la sua prima grande prova: la guerra tra Russia e Georgia per l’Ossetia del Sud. È una guerra, non un gioco. Ma la Francia, che media infine una soluzione diplomatica mentre è Paese presidente del Consiglio dell’Unione Europea, e gli Usa (che sostenevano la Georgia) gli riconoscono una certa moderazione nel gestire la crisi.  E un giudizio positivo raccolse anche il pronto intervento del Governo nel finanziare banche e aziende russe di fronte alla crisi finanziaria globale. La popolarità di Medvedev crebbe rapidamente in Russia ma anche all’estero. Istinti liberali, moderazione, cultura e padronanza dell’inglese, una ricetta perfetta. Ed ecco Medvedev composto con la Merkel, sorridente con Obama, cerimonioso con il sudcoreano Lee Myung-bak, rilassato con Berlusconi, sicuro con Bashar al-Assad, aperto con il presidente del Consiglio europeo Van Rompuy, un po’ tronfio con Xi Jinping, contento con George Bush. Nel 2010 visita la sede di Twitter, negli Usa, e confessa di invidiare lo sviluppo tecnologico americano. Una fama che la firma del Trattato New Start per la riduzione delle armi nucleari, ancor nel 2010, parve confermare.

È vero, il suo programma per la liberalizzazione dell’economia resta in gran parte sulla carta, ma non si poteva troppo criticarlo vista la turbolenza economica mondiale e la guerra in Georgia. È altrettanto vero che Medvedev nega qualunque similitudine tra comunismo sovietico e nazismo a proposito della Polonia, affermando quella che è poi diventata la linea ufficiale russa, e cioè che sia stata l’Urss di Stalin a salvare l’Europa da Hitler. È vero che minaccia di installare missili nucleare a Kaliningrad (adesso ci sono, e non solo loro) ma poi patteggia con Obama e ritira il proposito. Putin in ogni caso è contento di lui, tanto che nel 2012, quando si riprende il Cremlino, nomina Medvedev primo ministro e, anzi, lo manda a rappresentare al suo posto la Russia al G8 di Camp David, negli Usa. Fedele alla linea, Dima il liberale il 31 marzo 2014 visita la Crimea che la russi aveva riannesso il 18.

Nel 2020, quando Putin annuncia le riforme costituzionali che, se vorrà e potrà, gli consentiranno in pratica di restare al potere a vita, Medvedev si dimette con tutto il Governo e sembra avviarsi a una precoce (ha solo 55 anni) ma privilegiata pensione. Col suo curriculum, si ritrova nominato vice-segretario del Consiglio di Sicurezza, carica quasi ornamentale soprattutto perché a dirigere il Consiglio c’è Nikolay Patrushev, un duro uscito dai servizi segreti, proprio uno di quei siloviki che da presidente Medvedev si era proposto di ridimensionare. Ma un fedele, come si diceva, quindi obbedisce e tace. Quasi sparisce.

Quasi. Perché poi decide di vivere per la quarta volta, rinascendo con gli abiti del falco. La situazione internazionale si fa sempre più tesa e l’ex moderato e liberale Medvedev si dedica a buttare secchiate di benzina sul fuoco. È il primo a incitare Putin a mandare al diavolo Zelensky e l’Ucraina. È il primo, una volta partita l’invasione russa, a ipotizzare il ripristino della pena di morte per i traditori della patria. È il primo a parlare di impiego di armi nucleari in caso di attacco alla Russia. Quando il ministro francese per l’Economia, Bruno Le Maire, dice che lo scopo delle sanzioni è far crollare l’economia russa, lui ammonisce che “le guerre economiche spesso diventano guerre vere”, come a ipotizzare un conflitto con la Francia. E poi le sanzioni stesse sono “paragonabili ai metodi della ‘ndrangheta e di cosa Nostra italiane”. Il piano di pace dell’Italia? “Scritto da grafomani europei sulla base di giornali di provincia e fake news ucraine”. Fino all’ultima sortita: “Odio gli occidentali. Sono bastardi e fanatici e farò di tutto per farli sparire”.

A parte l’eccesso di ambizione nella scelta dell’obiettivo, sconvolge il tono da comiziante di quart’ordine adottato all’improvviso da un uomo che è stato al vertice della Russia e che, pur nella differenza, era stato ascoltato e apprezzato dai grandi del pianeta. A prima vista inspiegabile. Ma a un più attento esame forse spiegabilissimo. Il sistema di potere putiniano sembra reggere al costo umano, economico e politico di questa guerra insensata. Ma è chiaro che un certo dissenso cova sotto il velo dell’apparente coesione. Molti, inoltre, si aspettano che l’effetto delle sanzioni si faccia sentire nei prossimi mesi, quando l’interruzione dei rapporti con l’Occidente prosciugherà il sistema produttivo russo dei materiali e delle tecnologie che non sa produrre in proprio. In più, anche al netto delle voci che lo danno per malato, Putin “scadrà” come Presidente nel 2024, data che gli ultimi drammatici eventi hanno reso di colpo più prossima.

Il tono belligerante di Medvedev, dunque, potrebbe anche essere il segnale di una sua “campagna elettorale” per succedere al vecchio mentore sanpietroburghese. In fondo Dima ha tutto per insediarsi al vertice: è stato presidente di Gazprom, presidente della Federazione e primo ministro, sa tutto dei meccanismi dell’economia e dello Stato russi. È conosciuto all’estero ed è stato apprezzato in patria. Una cosa storicamente gli manca: un buon rapporto con i siloviki, gli uomini che controllano le forze armate e i servizi segreti. Senza di loro in Russia non si va da nessuna parte, come la storia recente dimostra: Mikhail Gorbaciov era il pupillo di Andropov, il capo del Kgb, e Putin addirittura veniva dal Kgb.

Vedremo, la partita è appena cominciata.

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