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Opinioni

Un paese per vecchi, ideologi e nostalgici

La riforma del lavoro è frutto di un compromesso ideologico più che di una ricerca di sviluppo economico. L’Italia è sempre più un paese per vecchi, nostalgici e attaccati alle proprie idee, potrà cambiare?
A cura di Luca Spoldi
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Federazione Nazionale della Stampa Italiana FNSI - firma del protocollo Carta di Parita'

L'Italia è un paese per vecchi. “La vita è tutta un quiz” cantava Renzo Arbore nella sigla di “Indietro Tutta” (correva l’anno 1987 e il vostro analista finanziario preferito era al primo anno di Bocconi, godendosi ogni sera la trasmissione arboreana in un corridio del pensionato studentesco dell’università milanese insieme a una dozzina di colleghi che come me interrompevano lo studio per una mezzora di risate e chiacchiere in compagnia), l’importante è capire le domande giuste da fare e soprattutto le risposte corrette alle medesime. La mia domanda, che vado ripetendo da giorni anche su Twitter e altri social media, è come possa l’Italia chiudere il gap culturale, sociale ed economico che la separa non da Marte ma da paesi come l’Inghilterra, la Francia o la Germania (per non dire gli Stati Uniti o il Giappone). Non è facile, perché, ad esempio, molto resta da fare perché il credito giunga alle aziende migliori, non solamente attraverso il canale bancario, così da riavviare un ciclo economico e rinnovare il tessuto produttivo del paese. Che non sia operazione facile se ne rendono conto, oltre al premier Mario Monti e ai suoi ministri (che hanno toccato con mano quanto sia difficile liberalizzare professioni e settori economici e quanto sia vano tentare di mettere tutti d’accordo su una riforma del mercato del lavoro in grado di rilanciare il sistema introducendo un maggior grado di flessibilità e però garantendo diritti forse minori di un tempo ma a una platea più vasta di soggetti), numerosi economisti e investitori che hanno imparato a utilizzare le nuove arene mediatiche come luogo in cui scambiarsi opinioni e cercare di costruire un “comune sentire” che dia il là a questa trasformazione. L’impresa resta ardua almeno quanto sbloccare il credito per le imprese più virtuose e innovative, perché come commenta amaro Carlo Alberto Carnevale Maffè (docente di strategia della Sda Bocconi) l’Italia è ormai “un paese per vecchi” e a quell’imprenditore che commenta “per ora noi imprenditori cerchiamo solo di sopravvivere, se i professori e le banche ce lo permetteranno” ribatte: “alle banche servi vivo, per qualche professore sei invece sei fastidiosa anomalia in un elegante modello di società perfetta”.

Lavoro: la riforma peggiora il quadro preesistente. A Carnevale Maffè l’ipotesi di riforma del mercato del lavoro che va emergendo in queste ultime ore dopo accordi e compromessi tra governo, partiti di maggioranza e parti sociali non piace e non lo nasconde. “Neanche stavolta il Governo ha diffuso cifre sugli impatti previsti dalla riforma del lavoro” spiega, in questo modo “vince sempre l’ideologia” tanto più che “se il lavoro è completamente sottomesso al potere giudiziario, l’organizzazione diventa principio di giustizia, non di economicità” e il lavoro stesso resta “imprigionato in una giurisdizione”. La politica per Carnevale Maffè “non capisce che (il lavoro, ndr) non è un “posto”, ma un “ruolo”” e che l’economia è una “prassi aperta, non un ideale. Quando lo è diventato, ha compiuto mostruosi disastri” e su questo non posso che essere d’accordo pensato agli orrori che il dirigismo in tutte le epoche e sotto tutti i colori ha originato nel corso della storia, sebbene continui a pensare che in un sistema come quello italiano le aperture alla concorrenza o valgono per tutti o dovrebbero avvenire gradualmente tutelando i più deboli e non i più forti, come ho scritto in precedenza. Così come sono d’accordo che non ha molto senso che ancora nel 2012 la legislazione sul lavoro venga concepita come “mediazione d’ideologie”, invece che come “base empirica di sviluppo economico”, come sarebbe a mio avviso opportuno che fosse per cercare di ottenere il massimo dall’impiego delle risorse migliori e più sane del paese, risorse che troppo spesso vengono messe da parte o non entrano proprio in circolo a causa dell’arretratezza culturale delle elites dominanti e del loro esclusivo interesse a difendere quanto più a lungo possibile le proprie rendite di posizione. Purtroppo in questo gioco nostalgico (che tutela però interessi economici molto concreti) anche la stampa gioca un ruolo non sempre illuminato, non tutta per lo meno e di esempi ne potrei portare in abbondanza.

Il piccolo mondo antico piace, ai direttori di giornale. Quello più lampante è la continua richiesta che ricevo ogni giorno di commenti, analisi, approfondimenti e se possibile “retroscena” su vicende che ruotano invariabilmente attorno ai soliti pochi “grandi nomi” del capitalismo famigliare italiano. A chi interessa veramente sapere come finirà la battaglia per il controllo di Fondiaria-Sai e che destino attenda la famiglia Ligresti? Non sarebbe più saggio semmai chiedersi e spiegare ai propri lettori quanto possa valere Fondiaria-Sai, che errori manageriali siano stati commessi negli anni, quali prospettive di rilancio vi siano e che mosse strategiche debbano essere compiute? Andatelo a spiegare ai “direttori” e già che ci siete chiedete loro perché continuano a seguire con affetto quasi paterno le vicende di Fiat (un produttore automobilistico ormai marginale nel panorama mondiale del settore), scaldandosi per le ipotesi che ruotano attorno alla permanenza o meno dei siti produttivi italiani (ormai ridotti a poca cosa rispetto a 20 o 30 anni fa), senza però chiedersi mai come si sia arrivati allo stato attuale, se non si potevano prendere strade diverse, che futuro possa attendere sia il gruppo sia soprattutto l’economia delle regioni un tempo (o ancora) legate alle fabbriche della Fiat e del suo indotto. Le domande vanno fatte per tempo per immaginarsi le possibili risposte, che in campo economico significano possibilità di sviluppo (o meno) di aree e popolazioni. Ma ai “direttori” italiani piace piuttosto seguire la saga che vede Diego Della Valle, patron del gruppo d’abbigliamento/calzature Tod’s, sbattere la porta ai “grandi soci” riuniti nel patto di sindacato di Rcs Mediagroup, l’editore del Corriere della Sera. Capirai: anziché cercare di capire come Rcs Mediagroup si sia ridotta allo stato attuale rispetto alla potenza che rappresentava un tempo e senza indagare sull’evoluzione del settore editoriale, della professione di giornalista, dello stesso ciclo di vita della notizia e dei suoi modelli di diffusione e fruizione in rete i “direttori” sono convinti che al loro pubblico interessi sapere se domattina questo o quell’altro “grande socio” si vedranno a colazione e decideranno il nome del prossimo direttore del CorSera. O dell’amministratore delegato del gruppo. O il destino di qualche altra “firma” di prestigio. Sul calendario è segnato 2012, ma nei salotti buoni e in molte direzioni dei grandi media italiani il tempo sembra scorrere lentamente, più placido del Don. E’ un peccato, visto che il resto del mondo corre alla velocità della luce e continua a distanziarci sempre di più. Per fortuna c’è la rete, c’è Twitter, ci sono i giovani che non sono disposti a continuare coi riti e coi ritmi dei loro padri, zii e nonni, specie se questi non siedono ai vertici del sistema. Domani è un altro giorno, chissà se i “direttori” se ne accorgeranno.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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