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Opinioni

Il dirigismo non ci tutela, però…

Meglio non cadere in tentazioni dirigistiche, ma per banche e assicurazioni se non si arriverà a una situazione di piena concorrenza per i consumatori saran dolori. Si può però cambiare innovando e puntando sui giovani.
A cura di Luca Spoldi
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Mario Monti in Corea del Sud

Il dirigismo in economia non è un bene. L’idea di fissare per legge il prezzo di un bene o servizio, o di regolare la presenza o meno di una componente di costo, non rappresenta un bene e certamente appare un retaggio del passato più che un illuminato sguardo verso il futuro. Ma al tempo, est modus in rebus. Certo, fissare un tetto massimo all’Rc Auto o vietare la presenza di questa o quella commissione bancaria, o stabilire che alcuni prodotti come i conti correnti vadano offerti gratuitamente ad alcune tipologie di utenti (come gli anziani), rischia di avere effetti distorsivi sulla concorrenza, portando le imprese migliori, che campano della vendita con profitto dei propri beni e servizi a ritirarsi dal mercato, lasciando magari spazio a gruppi che accettano di chiudere “un occhio” su una voce di costo sapendo di poter poi chiedere in cambio aiuti di stato più o meno diretti o occulti. Un do ut des che molto raramente serve al consumatore, il quale non solo non è messo in grado di selezionare l’offerta migliore, ma neppure se ne preoccupa più, dando per scontato che qualcun altro (lo stato) pagherà il conto al posto suo. Il ragionamento, che ho sentito tante volte in questi giorni, può non far piacere ma non fa una grinza, se non per un paio di punti troppo spesso sottaciuti.

Elasticità della domanda e concorrenza. Primo, beni e servizi non sono tutti uguali agli occhi dei consumatori ed anzi possono distinguersi a seconda dell’elasticità della domanda al prezzo. Detto in parole povere ci sono beni e servizi (la benzina tanto per fare un esempio) che solo a fronte di forti variazioni di prezzo registrano una sia pure modesta variazione dei volumi di vendita. Per questi beni il “libero mercato” rischia di non portare ad una situazione di efficienza ma favorire la nascita di cartelli oligopolistici (come l’Opec o come i vari accordi associativi tra banche e compagnie assicurative solo per fare un esempio) che hanno tutto il vantaggio a tenere i prezzi più alti possibili dato che i consumatori poco se ne curano (e che quindi non moltiplicherebbero i propri consumi neppure a fronte di un calo del prezzo di vendita di tali prodotti o servizi). Secondo, se in un mercato esistono barriere all’ingresso o all’uscita di attori competitivi (aziende o consumatori che siano), se esistono limiti alla mobilità dei fattori, se lo stato ci mette del suo a distorcere le cose con una pesante (op)pressione fiscale e burocratica, se le cricche e le lobbies di un paese hanno un peso predominante anche in Parlamento, un mercato non arriverà mai “naturalmente” ad adottare provvedimenti per una piena liberalizzazione, ma tenderà a conservare nel tempo strutture oligopolistiche o peggio monopolistiche. In questi casi con buona pace dei miei amici liberisti, sarebbe meglio prima rimuovere le barriere alla concorrenza, incentivando l’ingresso di nuove aziende nei vari mercati e settori e solo dopo rimuovere limiti e strumenti di determinazione del prezzo o delle componenti di costo da parte del legislatore. Se si fa il contrario si rischia solo di favorire i pochi grandi oligopolisti senza produrre alcun vantaggio per i consumatori/taxpayer.

Un problema di logica. Il problema di cui sopra appare chiarissimo in questi giorni in cui si parla di rimodulazione delle commissioni bancarie: non sarà un caso se come ricorda Carlo Milaninegli ultimi mesi il 75% delle Pmi italiane ha registrato un incremento dei tassi d’interesse, mentre per quasi il 65% sono aumentate le commissioni bancarie applicate sui finanziamenti”, con costi, dai mutui al credito al consumo, che “crescono più in Italia che negli altri paesi europei” senza peraltro che si partisse da una situazione particolarmente favorevole ai consumatori italiani né che le banche (ma un discorso simile potrebbe farsi per le compagnie assicurative visto che in questi ultimi anni a crescere costantemente sono stati solo i premi per l’RC Auto obbligatoria, mentre per quasi tutte le società sono calati i premi dei rami Vita e degli altri rami Danni) abbiano introdotto particolari novità tali da giustificare margini reddituali più elevati. La verità pare essere che in Italia anche i provvedimenti a parole più condivisi (come quelli sulle liberalizzazioni) incontrano forti resistenze e giungono spesso con ritardo rispetto alla “concessione” delle puntuali “compensazioni” che vengono concesse, col risultato che il cittadino italiano medio si sente preso sempre più spesso in giro perché quello che potrebbe un domani portargli un vantaggio economico (e di qualità dei servizi) gli comporta da subito un incremento di costi. Se avete l’impressione di aver sentito un ragionamento simile in altri settori, dalle concessioni autostradali alla riforma del mercato del lavoro (dove a fronte di un incremento delle tutele in fase di assunzione, dunque di maggiori costi per le aziende, e di minori limiti in fase di esplusione di mano d’opera, il rischio è che le aziende prima licenzino, poi eventualmente valutino nuove assunzioni e non l’opposto né in contemporanea). Insomma, una logica non proprio aristotelica e a volte capovolta sembra guidare con mano sicura la mano, debole per non dire debolissima, del nostro legislatore, così attento a non scontentare nessuno da limitarsi a tentare di conservare lo status quo.

Non ce l’ha prescritto un medico. Non è però una situazione cui l’Italia sia destinata a rimanere in eterno, questo stato di cose l’abbiamo voluto e tollerato tutti noi per troppi decenni per sperare che possa cambiare in pochi mesi come spesso ricorda il premier Mario Monti (che intanto dall'Asia, dove è impegnato in un tour per promuovere nuovi investimenti nel nostro paese, manda a dire che se il paese  non intendesse cambiare, lui potrebbe farsi da parte), ma nessun medico ci ha mai prescritto che lo si debba ancora accettare supinamente senza chiedere un cambiamento. Anche perché, come ben sanno tutti coloro che analizzano e seguono le vicende economiche del pianeta al di fuori di questo piccolo acquario che è l’Italia contemporanea, le aziende che hanno saputo muoversi per tempo stanno già accumulando cassa con cui potrebbero far ripartire di qui a qualche mese investimenti in innovazione o impianti e attrezzature per  non dire in acquisizioni, approfittando della lentezza con cui si muovono i concorrenti. Sicché la fatica con cui l’Italia tenta di scrollarsi da un sonno durato decenni rischia di far finire in mani estere molte aziende e marchi tricolori. Sempre che poi sia un male e non una semplice nostalgia per un “piccolo mondo antico” pensare ancora in termini nazionali, quando ormai il capitale che governa le imprese è apolide e si sposta là dove ha maggiore convenienza. Il problema è creare condizioni il più possibile durature perché questa convenienza si ritrovi nel Belpaese, trovando il coraggio di innovare costantemente la nostra struttura produttiva (e la legislazione che la governa) e nei giovani.

Investire nei giovani. Con alcuni giovani studenti parlo ergolarmente su Twitter e mi rendo conto che molti, anche in procinto di una laurea prestigiosa, sono come fuscelli in una tempesta. A loro, prima oltre che andare all’estero (consiglio che reputo valido, ma che non può essere l’unica prospettiva per mancanza dei alternative) suggerisco: ovunque capitiate fate tesoro dei vostri studi, ma cercate di imparare rapidamente le “regole del gioco” delle aziende in cui inizierete la vostra vita lavorativa. Ma non abbiate paura a cambiare e provate sempre a fare ciò che vi piace e per il quale vi sentite portati, perché senza passione nessun lavoro può essere fatto bene per lungo tempo (e visto che se non lo farete bene la lista di vostri possibili sostituti è lunga…). Investire nei giovani potrebbe e dovrebbe consentire alle aziende di recuperare efficienza e margini reddituali, magari spendibili per non disperdere le competenze accumulate dai lavoratori più anziani anziché per accrescere ulteriormente la sproporzione tra i guadagni dei pochi fortunati ai vertici di banche e imprese e la pletora di peones che ogni giorno mandano avanti la baracca senza ottenere soddisfazioni e rischiando il posto ad ogni venticello di crisi.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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