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“Questa è la crisi della globalizzazione, del dollaro e dell’onnipotenza delle banche centrali”

A colloquio con l’economista Luca Fantacci dell’Università Statale di Milano: “Tutto è cominciato con lo strapotere delle banche centrali e finisce con la loro impotenza. La guerra in Ucraina? È il detonatore di una crisi che ha origini lontane”.
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Christine Lagarde, presidente della Banca Centrale Europea
Christine Lagarde, presidente della Banca Centrale Europea

“Non è la fine del mondo, ma la fine di un mondo”. Luca Fantacci è un’economista esperto di mercati finanziari e di criptovalute, che insegna storia economica e economia politica all'Università degli Studi di Milano, ed è condirettore dell'unità di ricerca sull'innovazione monetaria (MINTS) al Centro Baffi Carefin dell'Università Bocconi. E ha una visione molto radicale su quel che sta accadendo. In particolare sul fatto che quella che stiamo vivendo oggi, col prezzo delle materie prime che cresce, l'inflazione che si scarica sul potere d'acquisto di famiglie e imprese e la recessione che incombe in tutte le grandi economie del mondo, sia una crisi sistemica, che parte da molto più lontano del 24 febbraio 2022, giorno in cui la Russia di Putin ha invaso l'Ucraina, e arriverà molto lontano, andando a minare tutte i capisaldi della nostra economia, o quasi: “Dal mio punto di vista la cosa più appariscente riguarda il sistema monetario – spiega Fantacci a Fanpage.it – e in particolare il ruolo del dollaro, quello che le banche centrali hanno avuto dalla crisi finanziaria del 2008-2009, la loro onnipotenza, la loro idea di poter intervenire su tutto, di poter risolvere tutto”.

È finita l’epoca dei bazooka, dei quantitative easing e dei whatever it takes, mi sta dicendo…

Il vero dato da cui dobbiamo partire è che è tornata l’inflazione. E quindi dire piuttosto che è la fine della possibilità delle banche centrali di adottare politiche espansive senza provocare inflazione. Non è che la storia comincia col bazooka di Draghi del 2012. È da quarant’anni che va avanti, questa storia.

Lei pensa che quest’inflazione sia stata provocata più dall’aumento del prezzo delle materie prime o da quarant’anni di politiche di questo tipo?

Secondo me qua c’è una fortissima analogia con quel che è successo negli anni ’70. Anche allora si parlava di uno shock esogeno, e tuttora la si racconta così. Che c’è stata la guerra dello Yom Kippur, che i Paesi Opec hanno tagliato le esportazioni di petrolio e che questo ha provocato un aumento dei prezzi delle materie prime, e quindi dell’inflazione. Però non dobbiamo dimenticarci che prima c’è stato Nixon.

Cioè?

Nel 1971 c’è l’inaugurazione di un regime monetario senza precedenti, il cosiddetto “fiat money”. Di una moneta cartacea non convertibile su scala internazionale. Abbiamo inventato un mondo in cui il denaro si crea senza restrizioni, senza copertura, senza nessun tipo di ancoraggio, in cui è più facile produrre il denaro delle merci. Che possano esserci rischi di inflazione è il minimo che ti puoi aspettare. Che in questo contesto inflativo basti un innesco qualunque per far esplodere i prezzi è altrettanto facile avvenga.

Allora fu la guerra in Medio Oriente, oggi è la guerra in Ucraina…

Ma già prima della guerra. Stavolta abbiamo numerosi inneschi: la pandemia e la ripresa post pandemica, l’interruzione delle catene del valore. L’Ucraina è l’ultimo degli inneschi.

Il bello è che l’abbiamo cercata per anni l’inflazione, e non è mai arrivata. E ora che arriva, è un problema. Suona strano…

Perché sono due inflazioni diverse. C’è un’inflazione benefica e perseguita come obiettivo di politica monetaria. Noi abbiamo delle banche centrali che producono denaro con il compito  di creare inflazione. L’obiettivo del 2% ti dice esattamente questo: che c’è un’inflazione benefica. Perché agevola la generazione di profitti per le imprese – se oggi sostengo i costi e i prezzi aumentano domani, io guadagno di più. E perché alleggerisce il valore reale dei debiti. Fintanto che rimane attorno al 2%, la banca centrale non ha necessità di far costare di più il costo del denaro, e i debiti, pubblici e privati, si riducono di anno in anno.

Il problema è che oggi l’inflazione è sopra il 2% e le banche centrali stanno alzando i tassi d’interesse per abbattere l’inflazione…

Esatto. Senza sapere se ci riusciranno, peraltro. Ma con la certezza che così facendo ridurranno la crescita economica.

E allora perché lo fanno?

Perché quando l’inflazione non è più moderata gli effetti benefici svaniscono e arrivano i problemi.

Tipo?

Arriva una sperequazione enorme. Ad esempio, il prezzo dell’energia aumenta, il costo del lavoro molto meno. Chi ha reddito fisso si impoverisce, chi può riversare ad altri gli aumenti dei propri costi molto meno. Per questo le banche centrali devono contrastare l’aumento di questo tipo di inflazione alzando i tassi d’interesse. Cosa che fa aumentare a sua volta il costo dell’indebitamento, dei mutui, e pure lo spread tra i debiti pubblici.

Luca Fantacci, economista
Luca Fantacci, economista

Le Borse come stanno reagendo a questa situazione?

Si stanno risvegliando da anni di sonnambulismo.

Si spieghi meglio…

Beh, faccio fatica a dirla altrimenti. In questi anni hanno continuato a macinare record nonostante tutto: la pandemia, la recessione…

Come mai?

Perché a sostenerle c’erano i soldi creati dalle banche centrali. Le borse vivono di aspettative. E qualunque cosa potesse incrinare le aspettative è stata curata con questo profondo analgesico, come lo chiamava Keynes, che è la liquidità. Sei preoccupato? Ti do qualcosa che non ti fa sentire il dolore, che cura la depressione, e passa tutto. Le borse, negli ultimi dieci anni almeno, hanno vissuto di questo. Oggi non soffrono del fatto che sia successo qualcosa di diverso da prima: molto più banalmente, gli hai tolto l’analgesico. E quindi tutta la fiducia nel futuro.

Buona parte della liquidità è finita nel mercato delle criptovalute, che pure sembra in grande difficoltà. Qualcuno parla già di una bolla che sta scoppiando e che rischia di trascinare giù tutto…

Io non ho esitazione a parlare di bolle, nel caso del mercato delle criptovalute. E vedo pure io un rischio, per i prossimi mesi. Questo non vuol dire che tutto ciò che ruota attorno alla blockchain sia un fenomeno speculativo. Al contrario. Che però ci sia stato, in questo contesto di politiche monetarie ultra lassiste, una confluenza di denaro sul mercato delle cripovalute, fino a gonfiare a dismisura le valutazione sino a farle crollare, questo è nei dati. Quando Elon Musk a gennaio 2021 fece la famosa dichiarazione che aveva investito 150 miliardi su una criptovaluta, da quel momento in poi il Bitcoin ha triplicato il suo valore e poi l’ha perso tutto. Questo è il tipico andamento di una bolla.

Diceva anche che vede un potenziale rischio sistemico…

Potenzialmente si. Il mercato dei cripto assets – questo lo diceva Fabio Panetta Membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea, non più di qualche settimana fa – era più capitalizzato di quello dei mutui subprime alla vigilia della crisi del 2009. Sono fenomeni paragonabili, diciamo. Finora, però, il mercato dei cripto asset è stato più isolato, mentre nei mutui cartolarizzati investivano tutte le grandi banche americane ed europee, i fondi d’investimento, i fondi pensione.

Chi investe sulle cripto, invece?

Tutti. Più del 10% dei risparmiatori europei e americani dichiarano di aver fatto investimenti in cripto negli ultimi mesi. La percentuale si alzano enormemente se si guardano gli investitori istituzionali come family office, headge fund, che muovono grandi soldi e che muovono percentuali in Europa pari all’80%.

Il rischio contagio esiste, quindi…

Un attimo. Io ho detto che ci ha investito l’80% degli investitori istituzionali, ma la domanda ulteriore da fare è quanto ci hanno investito. E lì per fortuna sono ancora quote limitate di portafoglio. Peraltro la capitalizzazione delle cripto, che era salita a 3mila miliardi ora è tornata a mille. Quindi diciamo che la bolla è già esplosa, nei fatti. Per parlarci chiaro: non vedo nelle cripto l’innesco di una crisi finanziaria globale. Mentre vedo, in realtà, l’ennesimo sintomo della stessa malattia.

Quale?

Del fatto che la sovrabbondanza di liquidità aveva indotto tutti gli investitori a cercare investimenti più proficui a fronte del fatto che i titoli di stato fossero a rendimento negativo, le obbligazioni avevano rendimenti molto bassi, e tutti quei soldi dovevi trovare il modo di farli fruttare.

Quindi non vede le avvisaglie di una nuovo grande crollo dei mercati finanziari, come quello del 1929 o del 2009?

La cosa che vedo è che le quotazioni in borsa sono state gonfiate da politiche monetarie espansive che si sono invertite e che promettono di mantenere per i prossimi mesi alti tassi d’interesse e basse iniezioni di liquidità. Siccome ci sono margini di ulteriori disinvestimenti, io credo che le borse andranno ancora al ribasso per un po’. Cosa può succedere dopo? Dipende da un’altra variabile.

Sarebbe?

Dipende da quanto verranno colpiti i bilanci pubblici. E da come la politica deciderà di reagire a questa situazione.

È preoccupato del fatto che ci possa essere una nuova tempesta dello spread sui conti pubblici Italiani?

Io sono preoccupato da dichiarazioni come quelle di  Francesco Giavazzi, consigliere economico del presidente del consiglio italiano Mario Draghi, che ha dichiarato al Financial Times che il debito pubblico cadrà come una roccia e che non c’è nulla di cui preoccuparsi. E non perché io sia pessimista, ma perché il mio ottimismo è legato al fatto che dobbiamo accorgerci del problema e risolverlo, non sperare che il problema si risolva da solo. E che le ricette siano sempre quelle del passato, e che oggi non funzionano più. Banalmente: dieci anni fa di fronte a una situazione tale e quale, potevi immettere liquidità nel sistema perché non c’era inflazione. Oggi c’è e non puoi più farlo.

E allora come te la cavi se lo spread sui titoli di Stato italiano comincia a salire?

È un bel problema. Perché ormai è opinione comune che tocchi alla Banca Centrale Europea di assorbire gli spread dei Paesi più indebitati come l’Italia, se nessuno vuole quei titoli sul mercato. Lagarde ha provato a dirlo nel suo discorso inaugurale: non sono qui per assorbire gli spread, e l’hanno fulminata. Perché è vero, non si può dire. Ma ha ragione, almeno in parte: perché mantenere in vita l’unione monetaria non spetta alla Banca Centrale. Ma nello stesso tempo abbiamo sappiamo che non si può più tornare all’ortodossia del patto di stabilità.

Adesso però voglio capire dove sta il suo ottimismo, se queste sono le premesse…

Perché ci sono novità molto interessanti.

Immagino stia parlando del piano Next Generation Eu, da cui si origina il nostro Pnrr…

Non tanto quello, ma il modo in cui è stato finanziato. Perché in questo strumento c’è l’embrione degli Eurobond, dei titoli di debito europei. Una soluzione a questo problema è il debito comune europeo. È una soluzione istantanea agli spread. Se l’Europa si dota di una struttura finanziaria analoga a quella degli Stati Uniti, dotata di un debito comune, hai lo scudo anti spread migliore possibile.

I tedeschi e i Paesi del nord si darebbero alle fiamme piuttosto di concedere gli Eurobond ai Italia, Grecia, Spagna e Portogallo…

È sicuramente molto complicato. Però intanto il Next Generation Eu è stato fatto, e questo è un dato politico che non si può eludere. Anche se è stato fatto con Paesi che hanno detto che sarebbe stata la prima e l’ultima volta. E in questo caso, temo che l’eccezione davvero sia difficile diventi regola. Ma c’è un alternativa.

Cioè?

Quella che in più sedi hanno proposto i miei colleghi Massimo Amato, Carlo Favero e Francesco Saraceno, di un’Agenzia del Debito Europea. Mi spiego: visto che quel compito non lo puoi lasciare alla Banca Centrale Europea e non lo puoi affidare a un tesoro europeo, puoi riformare l’attuale Meccanismo Europeo di Stabilità, facendo in modo che ti permetta di emettere debito comune senza avere un tesoro comune. Senza condizionalità, cioè senza imporre riforme a nessuno. E senza mutualizzazione, nel senso che emetto un debito comune e lo faccio pagare a ciascun Paese sulla base dei suoi rischi fondamentali. Mi spiego: io non faccio pagare lo stesso debito a Germania e Grecia. Ma non lascio che sia il mercato a decidere quale sia il differenziale. Perché abbiamo capito che non è capace di deciderlo.

Un’ultima domanda: il mercato saprà decidere quale sarà il destino della globalizzazione? Molti analisti sostengono sia finita qua…

Stiamo andando verso una frammentazione, una divisione in blocchi. In parte verso la nascita di blocchi valutari. Noi, negli ultimi settant’anni abbiamo conosciuto solamente un’economia unificata dal dollaro. Un’economia di cui stiamo vedendo contemporaneamente la forza e la debolezza.

Qual è la forza?

Beh, noi – noi della Nato, intendo – stiamo combattendo una guerra usando il dollaro come arma: con il blocco dei sistemi di pagamenti, con il blocco dell’accesso Swift, con il blocco delle riserve valutarie delle banche centrali.

Qual è la debolezza?

La debolezza risiede nel fatto che stiamo dando il chiaro segnale che il dollaro non è più una moneta universale, che costituisce una riserva valutaria su cui puoi fare affidamento in qualunque circostanza. Perché nel momento del bisogno ti potrebbe essere tolto, come è stato tolto alla Russia. E questo porta tutti i paesi a riconsiderare quali debbano essere le loro riserve.

Cosa produce tutto questo?

Io qui noto una cosa interessante, che da sola meriterebbe un’intervista a parte. Che c’è una serie di Paesi – dal Venezuela all’Iran, dalla Russia alla Cina – che sta cominciando a diversificare e a portare le proprie riserve in altre aree valutarie. Ma in particolare da parte della Cina c’è la tendenza a spostare le proprie riserve da attività finanziarie ad attività reali.

Una su tutte?

L’energia: tutto il gas che la Russia non sta vendendo a noi, lo sta vendendo alla Cina. Che, a sua volta, lo sta immagazzinando. E che sta trasformando le sue riserve in dollaro, in riserve di petrolio e gas e altre materie prime. Con un’idea che faremmo bene a sposare: che la garanzia ultima del nostro denaro non sono i debiti pubblici, ma i beni primari, le materie prime. È così che la Cina sta costruendo il suo potere nel mondo, il suo blocco. Un blocco che è evidentemente geografico – fatto di riserve di valore, di mercati di approvvigionamento e di sbocco – che la Cina ha già creato con progetti tipo la cosiddetta “Nuova vita della seta”, ma che non è solo geografico, ed è la cosa che ci dovrebbe preoccupare di più.

Cioè?

È una divisione tra sfere dell’economia. Col dollaro che diventa la moneta dei mercati finanziari. E lo Yuan che diventa la moneta dell’economia reale, delle materie prime e della manifattura. Una divisione di questo tipo ci esporrebbe a dei rischi che, forse, sarebbe meglio evitare.

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