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Opinioni

E’ un illecito deontologico notificare il precetto senza informare la controparte: Cassazione Sezioni Unite del 1.08.2012 n.13797

Si aggrava la posizione della controparte con spese inutili (e scatta la sanzione disciplinare) se si notifica un precetto (e il titolo esecutivo) senza informare l’avvocato della controparte dell’intenzione di richiedere l’adempimento coattivo del titolo esecutivo, soprattutto quando il credito per cui si procedere è irrisorio e non c’è un espresso rifiuto del debitore ad adempiere (perchè, ad esempio, il legale del debitore potrebbe non sapere della pubblicazione della sentenza)
A cura di Paolo Giuliano
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Il presidente della repubblica Enrico De Nicola firma la costituzione italiana alla presenza di Alcide De Gasperi e Umberto Terracini

Nei testi e nei codici di procedura civile si insegna che per poter procedere al pignoramento (e prima dello stesso)  occorre avere un titolo esecutivo (di solito una sentenza su cui è apposta la formula esecutiva ex art. 474 c.p.c.), occorre notificare al debitore il titolo esecutivo, ed, infine, occorre redigere e notificare il precetto (cioè un atto con cui si intima al debitore di adempiere a quanto disposto nel titolo esecutivo entro 10 giorni, altrimenti, si procederà  all'esecuzione forzata).

Questa procedura potrebbe essere sufficiente solo ai fini della regolarità formale della procedura civile, ma attenersi solo a quanto disposto dal codice di procedura civile, potrebbe non essere sufficiente per porre l'Avvocato al riparo da sanzioni disciplinari.

Infatti, la Cassazione civile a Sezioni Unite del 1 agosto 2012 n. 13797  (confermando quanto già deciso dalla Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza del 23 dicembre 2009 n. 27214) integra la procedura indicata nel codice di rito con quanto disposto dal codice deontologico forense, di fatto, imponendo ulteriori adempimenti prima di poter ottenere l'adempimento coattivo del titolo esecutivo.

La Cassazione del 2012 partendo dal disposto dell'art. 49 (Pluralità di azioni nei confronti della controparte) del  codice deontologico forense (secondo il quale "L’avvocato non deve aggravare con onerose o plurime iniziative giudiziali la situazione debitoria della controparte quando ciò non corrisponda ad effettive ragioni di tutela della parte assistita") e dell'art. 22 (Rapporto di colleganza) del codice deontologico forense (il quale dispone che "L'avvocato deve mantenere sempre nei confronti dei colleghi un comportamento ispirato a correttezza e lealtà ") giungono ad affermare che non è possibile iniziare un'azione esecutiva (e non è possibile notificare il titolo esecutivo e il precetto) senza aver informato il legale della controparte, soprattutto se 1) il credito per cui si procede è di modesta entità e 2) soprattutto quando manca un rifiuto espresso diretto ad escludere la volontaria esecuzione del titolo esecutivo (poichè ad esempio non si è ancora a conoscenza della sentenza).

Quindi, solo dopo aver informato il legale del debitore (si presume con raccomandata con ricevuta di ritorno – al fine di avere una prova certa del proprio operato – e solo dopo che sia tornata la ricevuta della raccomandata) dell'intenzione di ottenere l'adempimento coattivo del titolo esecutivo, sarà possibile notificare il titolo esecutivo e il precetto per poter, poi, iniziare l'esecuzione forzata.

Cassazione Sez. Unite Civili del 1 agosto 2012 n. 13797

Svolgimento del processo

Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di —, a conclusione del procedimento disciplinare avviato a seguito di esposto dell’avv. M..G. a carico dell’avvocato M..V. , con provvedimento del 19.11-18.12.07, irrogò a quest’ultimo la sanzione disciplinare dell’avvertimento, “per aver violato il dovere di colleganza avendo in data 15 settembre 2003-19 settembre 2003 notificato alla società S.r.l. – difesa dall’Avv. M..G. – la sentenza del Giudice di Pace depositata l’1 settembre 2003, a cui in data 10 settembre 2003 aveva fatto apporre la formula esecutiva, senza che il dispositivo della sentenza fosse stato ancora comunicalo alle parti e senza curarsi di accertare se il legale di controparte avesse ricevuto notizia del dispositivo stesso, né rendendo la stessa edotta dell’intervenuto deposito di detta sentenza, né chiedendo all’Avv. G. quali fossero le intenzioni della sua cliente in ordine al pagamento della sentenza onde evitare alla società S.r.l. l’aggravio delle competenze di precetto: con ciò violando l’art. 38 L.P. in riferimento all’art. 49 ed all’art. 22 del Codice Deontologico Forense approvato dal C.N.F. nella seduta del 17.04.1997 e successive modifiche (omissis) “.

All’esito del ricorso dell’incolpato,  con decisione depositata il 18.5.09, il Consiglio Nazionale Forense accolse l’impugnazione ritenendo l’insussistenza di alcun obbligo deontologico nei sensi di cui alla riportata contestazione.

Ma a seguito del ricorso del C.O.A., questa Corte a Sezioni Unite, con sentenza n. 27214 pubblicata il 23.12.2009, in accoglimento del secondo motivo, cassò con rinvio la sentenza impugnata, affermando il seguente principio, “viola l’art. 22 del Codice deontologico Forense l’avvocato che sulla base di sentenza favorevole al proprio cliente, nonostante la modestia – in relazione alle condizioni economiche del debitore del credito accertato nella pronunzia giurisdizionale e pur in assenza di un rifiuto esplicito di dare spontanea esecuzione alla sentenza, notifichi al debitore atto di precetto (così aggravando la posizione debitoria di questo), senza previamente informare l’avvocato dell’avversario della propria intenzione di dare corso alla procedura esecutiva”.

Riassunto il processo dal C.O.A. di —- con ricorso depositato il 7.5.2010,  il Consiglio Nazionale Forense, con decisione dell’11.11.2010, depositata il 21.4.2011 confermava la responsabilità disciplinare ascritta all’incolpato e la conseguente sanzione dell’avvertimento.

Avverso tale decisione l’avvocato V. ha proposto tempestivo ricorso a queste Sezioni Unite,

Motivi della decisione

p.1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia “violazione dell’art. 360 n. 4 c.p.c. in relazione all’art. 64 R.D.22.1.1934 n. 37 e art. 132 c.p.c.”, deducendo la nullità della sentenza per mancanza della sottoscrizione del giudice relatore.

Il motivo non merita accoglimento, alla luce del principio già enunciato da queste Sezioni Unite, secondo cui “ai sensi di quanto disposto, in via generale, dall’art. 44 dei regio decreto 22 gennaio 1934 n. 3. sull’ordinamento della professione di avvocato e con riferimento alle deliberazioni in materia disciplinare, dagli artt. 51 e 64 dello stesso decreto, norme aventi carattere speciale rispetto alla disposizione dell’art. 132, ultimo comma cod.proc.civ., le deliberazioni del Consiglio nazionale forense sono sempre sottoscritte dal solo presidente e segretario, non anche del relatore, senza che ciò determini alcun contrasto con gli artt. 24 e 101 Cost.” (sent. n. 11750 del 24.6.2004). Da tale indirizzo il collegio non ravvisa motivi per doversi discostare, considerato che il proposto procedimento di applicazione analogica delle norme codicistiche, peraltro contrastante con il principio generale di tassatività delle nullità, presupporrebbe una lacuna normativa, nella specie insussistente, tenuto conto della presenza nella legge speciale delle citate norme ad hoc, che il legislatore ha ritenuto sufficienti a garantire sia mediante la sottoscrizione da parte del presidente, la conformità della decisione alla volontà del collegio, sia, mediante quella del segretario, la provenienza della stessa dall’organo decidente.

p.2. Con il secondo motivo si deduce “violazione dell’art. 360 nn. 4 e 5 c.p.c. in relazione all’art. 392 e 394 c.p.c. e art. 59 e 60 R.D. 37/1934 e art. 101 c.p.c.”, ribadendo l’eccezione di “inammissibilità e improcedibilità” del ricorso riassuntivo, in quanto notificato, in data 27.4.10, e successivamente depositato presso la sede del C.N.F., c non anche presentato presso gli uffici dell’Ordine locale.

Anche tale motivo va disatteso, alla luce di una precedente pronunzia di queste Sezioni Unite, che il collegio condivide ed alla quale intende dare continuità, secondo cui “la riassunzione del giudizio disciplinare davanti al Consiglio nazionale forense a seguito di sentenza di cassazione con rinvio deve essere compiuta secondo il disposto dell’art. 392 c.p.c….” (sent. n. 17938 del 1.7.2008). Tanto in considerazione dell’assenza, nell’ambito della legge speciale forense (in particolare nell’art. 56 u.c. del RDL. N. 157871933), di una specifica disposizione regolante le modalità di proposizione del giudizio di riassunzione, e della conseguente necessità, in virtù del principio, ripetutamente affermato da questa Corte, a termini del quale, nei procedimenti disciplinari in questione vanno osservate le norme particolari che per ogni singolo istituto sono dettate dalla legge professionale e, in mancanza, quelle del codice di procedura civile (v. tra le altre, 558/98). Nel caso di specie, dunque, le norme processuali di riferimento, in assenza di speciali disposizioni, erano quelle di cui agli artt. 392 c.p.c. e 125 delle disposizioni di attuazione dello stesso codice, secondo le quali la (re)instaurazione del contraddittorio in sede di giudizio di rinvio va compiuta nelle forme della vocatio in ius (tale dovendosi considerare anche un ricorso direttamente notificato all’incolpato e poi depositato presso il C.N.F., ove la notifica sia, come nella specie, tempestivamente intervenuta entro il termine previsto per la riassunzione), mentre non avrebbero dovuto applicarsi le altre particolari disposizioni, prevedenti il deposito dell’atto presso la segreteria del C.O.A., in quanto specifiche dell’originario giudizio impugnatorio ed assolventi ad esigenze (essenzialmente quelle di rendere noti gli atti su cui si basa l’impugnazione e consentire alla controparte di produrre, a sua volta, ulteriori atti o documenti), del tutto proprie di tale iniziale fase processuale, ed insussistenti nel giudizio “chiuso” di rinvio, nel quale non sono ammesse nuove conclusioni o produzioni, a meno che la relativa esigenza non sia sorta in conseguenza della sentenza rescindente.

p.3. Con il terzo motivo si deduce “violazione dell’art. 360 n. 4 c.p.c. in relazione all’art. 83 c.p.c. e 392 e 394 c.p.c.”, censurandosi la reiezione dell’eccezione con la quale era stata dedotta la carenza di legittimazione processuale del C.O.A., per non essere stata prodotta alcuna delibera autorizzativa alla riassunzione e nomina del difensore.

Anche tale motivo è privo di fondamento. Premesso che, come si è già precisatola riassunzione del procedimento disciplinare forense va compiuta, in assenza di norme specifiche contenute nella legge speciale, secondo le generali disposizioni contenute nel codice di procedura civile e nelle relative norme attuati ve (nella specie gli artt. 392 c.p.c e 125 disp. att.) e considerato che, come già più volte evidenziato da questa Corte al riguardo, “poiché il giudizio di rinvio costituisce la prosecuzione del giudizio di primo o di secondo grado conclusosi con la sentenza cassata la parte che riassume la causa davanti al giudice di rinvio non è tenuta a conferire una nuova procura al difensore che lo ha già assistito nel pregresso giudizio di merito” (Sent. 7983 del 1.4. 10. conf. n.n. 4663/01, 1217/89), è sufficiente osservare che, non essendo dalle citate norme richiesta una nuova procura difensiva, ma soltanto l’indicazione di quella precedente, in virtù della quale fu instaurato il giudizio impugnatorio, poco o punto rilevava, in un contesto nel quale la riassunzione era stata operata dal legale validamente nominato ab initio, la circostanza che al medesimo fosse stato rinnovato, con o senza ulteriore delibera autorizzativa del C.O.A il mandato, non essendo tale rinnovazione necessaria al fine suddetto.

p.5. Con il quinto motivo si deduce “violazione dell’art. 360 n. 4 e 5 c.p.c. in relazione all’art. 392 e 394 c.p.c.”, censurandosi, in quanto non esaustività motivazione posta a base della conferma della responsabilità disciplinare dell’incolpato, secondo cui il principio affermato nella sentenza di legittimità avrebbe comportato, a guisa di giudicato interno, l’impossibilità di rivalutare i fatti oggetto del procedimento disciplinare, in contrario obiettandosi che nella decisione di legittimità vi era stata una valutazione, ai fini della configurabilità dell’illecito di cui all’art. 22 del Codice Deontologico forense, solo quale astratta ipotesi di condotta “contestata”, non anche concretamente “tenuta” dall’avv. V. ed in quella sede “discussa”. Conseguentemente, pur essendo vincolato dall’enunciato principio di diritto, il giudice disciplinare cui il giudizio era stato rinviato per nuovo esame nel merito, in quanto esclusivamente competente all’apprezzamento della rilevanza dei fatti rispetto alla incolpazione”

Il motivo non merita accoglimento. Il C.N.F., nel confermare l’affermazione di colpevolezza relativamente al secondo segmento della condotta ascritta all’avv. V. , quello di aver notificato direttamente alla controparte soccombente la sentenza in forma esecutiva ed il precetto, senza aver previamente interpellato la collega che l’aveva difesa, era vincolato non solo dalla regula iuris enunciata da queste Sezioni Unite, con la quale era stata affermata, cassandosi in parte de qua la precedente decisione assolutoria, la rilevanza disciplinare dell’addebito ma anche dall’accertamento dei fatti che ne costituivano il presupposto (in tal senso, v, tra le altre Cass. nn. 17352/10, 26241/09, 616/98), che erano incontroversi, in quanto documentalmente provati. In siffatto contesto processuale, nessuno spazio residuava al giudice del rinvio, non solo in ordine alla valutazione, sotto il profilo deontologico, della condotta in questione, compiuta da questa Corte e parzialmente confermativa di quella in precedenza operata dal C.O.A. in sede amministrativa, ma anche con riferimento alla concreta sussistenza della stessa, costituente un pacifico presupposto di fatto, sulla base del quale era stato formulato, quel giudizio. Poco o punto rilevava, pertanto, l’evidenziata correzione contenuta nella sentenza rese indente, tanto più ove si consideri che il ricorrente neppure in questa sede nega di aver commesso i fatti ascrittigli, limitandosi a ribadire quelle stesse doglianze con le quali aveva tentato di sminuirne il disvalore deontologico, così finendo con il rimettere, inammissibilmente (v., tra le altre e più recenti, Cass. n. 3458/12) in discussione il principio di diritto in questa sede enunciato e, nel sostenere che al solo giudice di merito sarebbe spettato il relativo apprezzamento della condotta sotto il profilo disciplinare, e la stessa funzione nomofilattica spettante a questa Corte.

Il ricorso va, conclusivamente, respinto.

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Avvocato, Foro di Napoli, specializzazione Sspl conseguita presso l'Università “Federico II”; Mediatore professionista; Autore di numerose pubblicazioni in materia di diritti reali, obbligazioni, contratti, successioni. E' possibile contattarlo scrivendo a diritto@fanpage.it.
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