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Nino Buonocore: “Oggi siamo marionette nelle mani della tecnologia. Peppe Vessicchio? Ne abbiamo fatte di follie!”

Nino Buonocore racconta il nuovo album: contro omologazione e passività, difende amore, errore e musica suonata insieme come atto umano e politico. “L’uomo ha perso la sua centralità, non decide più nulla, siamo marionette in mano a poteri tecnologici ed economici” dice il cantautore.
A cura di Federico Pucci
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Nino Buonocore
Nino Buonocore

Quattro anni dopo un album live che rivisitava il suo repertorio in chiave jazz e dodici anni dopo l’ultimo lavoro in studio, "Segnali di umana presenza", Nino Buonocore è tornato con un disco che contiene una richiesta di fondo: riportare l’uomo al centro del mondo. "M.I.S.L.A." cioè "Mettiamo in salvo l’amore", già uscito in streaming a novembre e di recente pubblicato in vinile, vede il musicista e cantautore napoletano alle prese con una ricerca di autenticità e di responsabilità che non sta solo nei testi (scritti con il collaboratore di sempre Michele De Vitis), ma anche nella musica. Le dieci tracce, profondamente influenzate dal jazz nello stile, sono state registrate in modo tale da non essere replicabili, fotografie di un momento irripetibile al fianco della sua band, tutti in una stanza a condividere il momento dell’incisione senza grandi sovraincisioni e correzioni. Abbiamo parlato di questo approccio e di questo messaggio con Buonocore in una conversazione presentata qui di seguito in versione condensata.

"Mettiamo in salvo l’amore da questa finta vita", canta nella canzone che dà il titolo al suo album. Cos’è questa finzione?

Per me la finzione è prima di tutto l’appiattimento, l’omologazione. Stiamo assistendo all’uscita di scena dell’uomo, con tutte le sue prerogative. L’uomo ha perso la sua centralità, non decide più nulla, siamo marionette in mano a poteri tecnologici ed economici che conosciamo bene. L’amore è una delle poche risorse reali che abbiamo e forse ci può dare la forza e una ragione in più per uscire da questo stato di narcosi generale.

Di questo bisogno di smettere di essere passivi canti anche in "Vittime", una canzone d’amore.

Questo credo sia il tema dominante del disco. Io scrivo sempre quando sono arrabbiato, devo metabolizzare quello che vedo in giro. E vedo l’indolenza: la gente si è abituata allo stato delle cose e si lascia vivere. Ma noi avremmo delle energie importantissime. Non dimentichiamo cosa sono state le università, lo spirito ribelle dei popoli. Oggi le nostre coscienze si sono assopite, abituandosi a questi ritmi frenetici. Che ci vengono imposti proprio per renderci docili. Serve un rinascimento dell’uomo. L’intelligenza artificiale è un grosso obiettivo che abbiamo raggiunto, un segno di progresso e vedo uno sbocco pazzesco per la scienza e la medicina, ma non la vedo applicata al pensiero umano, non la vedo mai nostra complice nel migliorare la società, ma sempre a peggiorare e narcotizzare sempre più le nostre energie e la nostra capacità di reinventarsi.

Questo pensiero ha condizionato anche il modo in cui ha registrato il disco, con tutti i musicisti insieme in una stanza?

La mia vocazione è stata portare al centro l’essere umano. Noi abbiamo tenuto conto solo di una necessità: di non preoccuparci della diffusione del disco, stiamo facendo musica per noi e per poi suonarla eventualmente di fronte al pubblico. C’è stata pochissima post-produzione, tranne quella che si fa normalmente durante i missaggi, ma anche pochissima pre-produzione: ciascuno aveva la sua parte e poi si suonava insieme e si andava eventualmente a contribuire originalmente e correggere sul momento. Senza tagli, senza cialtronerie che a volte servono per coprire le magagne… Tutto insieme sul momento, al massimo con due o tre take per ogni canzone.

Sta qui la "non replicabilità" di cui parla?

Un disco è una natura morta: ferma un momento e poi il giorno dopo si è già diversi. Anche accettare questa possibilità che il mondo continua a cambiare ha inciso sulla proposta musicale che ho fatto. Ho registrato il disco pensando che fosse irreplicabile, con la mentalità di chi registra una cosa che poi cambierà: non lo voglio portare in giro come fosse una fotografia, ma solo un riferimento, che sarà la canzone ma non il modo in cui è stata proposta.

Nino Buonocore
Nino Buonocore

Anche Jovanotti di recente ha voluto registrare un disco così, con tutti i musicisti in studio insieme. Pensa che in qualche modo la sovrabbondanza di "finzione" nella musica popolare stia portando a una saturazione e al bisogno, anche popolare, di ritornare a qualcosa di più semplice e verace?

Sono convinto che seguendo i corsi e i ricorsi storici un ritorno dovrebbe esserci. Ma i tempi sono cambiati, e anche le mentalità. Le faccio un esempio. Nel ‘90 stavo registrando a New York il mio disco e vedevo che MTV pompava l’hip-hop tantissimo: ci dicevamo che sarebbe durato pochissimo, e invece è ancora qui. Probabilmente ci sono dei cambiamenti che non riusciamo a leggere, perché riguardano soprattutto le nuove generazioni. Magari a loro non interessa quanto ci stiamo dicendo, e non lo dico in chiave critica: magari gli interessa più il risultato che il processo. La mia mentalità sicuramente è rimasta agli anni ‘70, quando pensavamo che la musica potesse cambiare le nostre vite. E così fu, in effetti. Oggi non c’è quel bisogno di aggregazione che la musica rappresentava per noi, che ascoltavamo insieme, che ci passavamo i dischi tra amici, che avevamo tutte altre abitudini rispetto a quelle di oggi, dettate da tecnologie come, banalmente, le cuffiette attraverso cui si consuma la musica in grandissima parte.

La musica è un'esperienza più individuale, oggi, senza dubbio. Ma una canzone può ancora invitare a mettersi nei panni di qualcun altro e per conoscersi? Penso a un pezzo come "Nessuno", che parla di un amore omosessuale e lo fa in prima persona, con lei che canta come se la riguardasse direttamente.

Io penso di sì. Per esempio, sul palco tra le canzoni parlo molto perché ci tengo a introdurre i brani e fornire chiavi di lettura. Vero che le canzoni non si spiegano, come dice Francesco De Gregori, ma oggi siamo così omologati verso il non-pensare che se non invitiamo a riflettere la gente rischia di non farlo. Quindi cerco di recuperare la musica come comunicazione. "Nessuno" è una provocazione, che vuole far capire che certi temi non vanno trattati come argomenti sociologici, ma come fatto quotidiano. Con cui dobbiamo convivere bene, e non solo con la tolleranza ma con l’inclusione.

In "Logica biologica" invece tratta la misoginia e la persistenza di cliché sulle donne che tendono a oggettificarle.

Di quel pezzo avevo realizzato due versioni. Originariamente la cantavo in prima persona, sperando che si cogliesse l’ironia della lettura. Ma notavo che chi l’ascoltava non capiva, quindi bisogna tornare a un’abitudine degli anni ‘70: dire le cose con estrema chiarezza. Per smuovere le coscienze il contenuto deve essere universale e accessibile.

"Florinda" è una canzone che evoca esplicitamente l’adolescenza, parla delle turbe sessuali di un quindicenne. Quanto c’è di autobiografico?

Credo che sia molto autobiografico per qualunque maschio che ha attraversato l’adolescenza!

Che ragazzo era il giovane Nino?

Ero molto curioso, timido. Mi affascinava il fatto che avessi individuato già delle falle nella mia crescita, ad esempio che non ero capace di comunicare come gli altri ragazzi, e avevo bisogno di una mia via. E così mi sono inventato la musica.

"Florinda" mi ha ricordato "Palinuro Bar", dal suo primo disco del 1980. Anche lì si parlava di turbe sessuali con molta franchezza.

Lì c’era un ragazzo che pensava da adulto, ora ho fatto il contrario: ho scritto da adulto ripensandomi ragazzo.

Nello stesso disco, in "Acida", si parlava dell’oggettificazione delle ragazze. E ancora oggi, 45 anni dopo, si ritrova a scrivere di questo argomento. Siamo sempre fermi agli stessi stereotipi femminili?

Purtroppo sembra di sì. I testi di molte canzoni di ragazzi di oggi mi lasciano scioccato.

Le capita spesso di vedersi davanti agli occhi episodi della sua giovinezza e trarne ispirazione per le sue canzoni?

Non mi piace rivangare il passato, ma mi piace cogliere suggestioni che non avevo saputo cogliere mentre vivevo le situazioni. Anche in "Pane, Sale e Olio" c’è questo desiderio di scrivere un excursus dell’adolescenza e dei vari stadi della crescita. Ma la considerazione finale chiarisce il concetto: anche arrivato a 67 anni ben suonati mi rendo conto che non si è arrivati a granché, che c’è ancora molto da viaggiare e da capire.

È questa la filosofia con cui ha realizzato anche "Lasciati andare", la canzone che apre il disco con un invito testuale e musicale a non ritenersi mai completamente finiti ma ripensarsi come "quando c’era tutto da inventare"?

Certamente, per questo l’ho messa all’inizio del disco. In linea teorica parla della relazione tra due persone, ma per me è la prefazione del disco. È vero che viviamo in un momento difficile, in cui siamo inermi di fronte alla piattezza. Ma bisogna lasciarsi andare per sbagliare. E quando si sbaglia si crea. Tutto proviene dall’incidenza di un errore, che ci cambia la vita.

Che poi è lo stesso spirito per cui si sceglie di registrare suonando tutti insieme, senza cedere alla tentazione di correggere in un secondo momento.

Esattamente. Questo è un disco molto duro, anche abbastanza diretti. Ma nella musica ho messo il divertimento e la gioia, il fascino della musica suonata insomma: in quel brano, ad esempio, c’è l’influenza brasiliana sulla musica americana West Coast.

Nel disco live di 4 anni fa mise in copertina un camaleonte, e in effetti lei ha attraversato fasi diverse. Ma di riprendere i primi dischi più rock degli anni ‘80 ci ha mai pensato?

Intanto devo dire che più che un camaleonte io mi ritengo semplicemente un musicista che è cresciuto. Negli anni ‘80 per me il rock era un megafono. Sembrava quasi che l’altra musica fosse per lenire e addormentare, mentre il rock poteva svegliare. Ma è chiaro che con l’avanzare dell’età si cambia, ma si rimane rock, perché quella è una filosofia non un genere musicale. Però trovi formule diverse, perché hai più conoscenze e cerchi la formula adatta per veicolare gli stessi messaggi. E poi, per fare rock, ci vuole anche energia: magari a 67 anni ho un po’ di energia in meno, ma qualche neurone in più!

Comunque ci vorrebbe una bella ristampa!

Magari, ma non dipende da me. Mi farebbe piacere anche perché nella mia collezione di 6mila dischi alcuni dei miei vecchi album sono ridotti un po’ male, ma sono diventati molto difficili da ritrovare…

A proposito di collezioni, quali sono stati tra i suoi primi dischi importanti per la sua successiva formazione musicale da compositore e artista?

Io ho ascoltato veramente tutto, anche l’inascoltabile, per capire come funzionava questa meravigliosa forma d’arte. Sicuramente potrei citare "Can’t Buy a Thrill" degli Steely Dan e anche i primi dischi dei Police. Mi manca l’epoca in cui uscivano ogni settimana dischi molto diversi tra loro. Oggi questo capita molto più raramente, gli album popolari si assomigliano tutti.

Facciamo un piccolo salto indietro. In "Una città tra le mani" lavorò con Chet Baker, uno degli ultimi se non proprio l’ultimo disco inciso da questa leggenda del jazz e della canzone. C’è qualche insegnamento che ancora si porta dietro da quell’esperienza?

Quando l’ho conosciuto naturalmente ero affascinato dal fatto che potesse suonare in un mio disco. Ero gasatissimo, ma dato che non avevo studiato al conservatorio spesi una notte intera a scrivere tutto quello che potevo, per fargli avere su pentagramma le sue parti. Non sapevo che lui non era capace di leggere la musica! Mi chiese di fargli sentire le sue parti con la voce, e lì ho capito la saggezza dei grandi che sta nella loro umanità.

Quel disco del 1988 fu anche realizzato con la collaborazione di Peppe Vessicchio agli arrangiamenti. Come fu lavorare con lui in quel caso?

Con Peppe mi conoscevo ancora da prima: era un amico con il quale ho condiviso un pezzetto del mio passato precedente alla carriera artistica. Peppe era un po’ come me: aveva capito che nella musica bisogna scrivere nel cuore più che nel pentagramma. Era intrigato dal mio modo di concepire la musica. Mi diceva: "Nino, noi facciamo tutto quello che hai in testa tu, anche fosse una follia, e noi al massimo ci mettiamo un po’ del nostro mestiere". E infatti ne abbiamo fatte di follie. Per esempio, avevamo in mente di non includere l’elettronica ma in un brano la parte di batteria sarebbe stata impossibile da suonare se non da un batterista di primissima fascia. E allora abbiamo usato una drum machine, e lui lo trovò ancora più bello. Lì capii che era uno che andava dritto all’essenza delle cose anziché all’estetica.

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