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Nadia Toffa: i malati non sono tutti guerrieri

La morte di Nadia Toffa ha riportato alla ribalta l’uso nei mass media e nei social di metafore guerresche per parlare di chi è affetto da una malattia o di chi comunque è in bilico fra la vita e la morte. Vengono chiamati “guerrieri”. Ma perché? Che effetto ha? E perché non richiamare metafore di pace?
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A cura di Giorgio Moretti
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La lingua ci tocca

L'avevamo visto anche il mese scorso coi cuginetti investiti e uccisi a Vittoria, quando sembrava che per uno dei due ci fosse la speranza almeno della sopravvivenza, lo vediamo oggi con la morte della giornalista e conduttrice televisiva Nadia Toffa. Ogni volta che incidenti gravi o malattie potenzialmente letali colpiscono qualcuno, la metafora a cui in modo unanime corre la mente, e che viene richiamata in modo martellante nelle esternazioni pubbliche della cronaca e dei social, è quella del guerriero. Il luogo comune è che lo stato di pericolo di vita sia una guerra.

C'è qualcosa di funzionale, in questa metafora. Dà la carica. Attinge a un immaginario millenario che va da Achille a Sylvester Stallone, tutta gente che non ti puoi nemmeno far venire in mente di picchiare. Però è anche un'immagine vecchiotta, il ‘guerriero' propriamente detto non esiste più in modo rilevante, esiste solo il ‘soldato', che però non andrebbe bene per la nostra metafora, poiché è ubbidiente ed eterodiretto. Il vantaggio del guerriero è che è indipendente ed epico come un eroe omerico. Se tu prendi un tumore, che a vederlo è un pezzo di carne matta, e dall'altra parte ci metti un guerriero, la scena possibile è solo quella del guerriero che lo spappola sotto il calcagno: vittoria. E se per caso qualcuno ferisce anche gravemente il guerriero, come siamo stati abituati a immaginare egli si rialza sempre e guarisce, figuriamoci, per lui il colpo peggiore è una carezza, lo squarcio più profondo è un graffio.

Ma c'è anche qualcosa di disfunzionale, in questa metafora. Il guerriero è un ideale di coraggio e forza, e qui diventa un ideale modello su come affrontare la malattia e il trauma mortali. Se guerriero, allora eroe, se non guerriero, allora non eroe. Incensare il guerriero, se fa lucrare a qualcuno un possibile vantaggio di aggressività sulla malattia, isola chi cerca pace. Non rappresenta chi cerca pace, e di fronte al dolore è ciò che molte persone cercano, anche fra quelle che erano partite guerreggiando.

Forse è la figura del pacificatore che dovremmo incensare come metafora per il malato; una persona che non aggredisce la vita cercando di strappare quello che gli resta mentre scalcia furiosamente contro la morte nel duello finale. Ma una persona che si allarga su ciò che vale con una lucidità nuova, che stacca i conflitti, e che col bene della medicina e del proprio corpo continua la sua vita; anche perché la malattia e la ferita, col progresso, si fa sempre meno mortale, sempre meno improvvisa, sempre più qualcosa con cui convivere. Ed è meglio convivere in pace. Non pantera, ma quercia.

Poi darsi la carica serve sempre, e se uno si vuole immaginare come Orlando anche quando si rompe una gamba, fa bene a farlo, se lo aiuta; ma si deve fare attenzione alle metafore, perché sono potenti, e il loro uso comune può finire per schiacciare anche chi non vi rientra. Probabilmente ci sono tanti modi di essere entusiasti e di sentire un'energia indomabile che ci scorre in corpo, oltre all'adrenalina; se non abbiamo un altro modo accessibile di darci la carica se non quello di immaginarci come guerrieri, forse questo scopre una radice profonda della nostra cultura.

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Nato nel 1989, fiorentino. Giurista e scrittore gioviale. Co-fondatore del sito “Una parola al giorno”, dal 2010 faccio divulgazione linguistica online. Con Edoardo Lombardi Vallauri ho pubblicato il libro “Parole di giornata” (Il Mulino, 2015).
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