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Opinioni

L’Italia è un Paese che calpesta i sogni delle studentesse

In Italia continua a esserci un problema di genere per i laureati e le laureate con le donne che incontrano più difficoltà nella ricerca del lavoro e per quanto riguarda i contratti.
A cura di Jennifer Guerra
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Pochi giorni fa abbiamo celebrato la Giornata Internazionale per le donne e le ragazze nella scienza, istituita dall’Onu nel 2015 per ricordare tutte le scienziate del passato e del presente a cui dobbiamo grandi passi avanti nel progresso dell’umanità e per incentivare adolescenti e giovani donne a intraprendere carriere Stem (corsi di Laurea che rientrano nelle aree: Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica), considerati tradizionalmente maschili. Non è solo una questione di retorica o, men che meno, di “politicamente corretto”, ma si tratta di un problema reale e urgente: in un mondo in cui il futuro dipende in larga parte dallo sviluppo tecnologico e scientifico e in cui le nuove professioni si concentreranno in questi ambiti, metà della popolazione rischia di rimanere tagliata fuori dal mondo del lavoro.

Gli sforzi per abbattere lo stereotipo secondo cui le donne non sono portate a materie come la matematica, l’ingegneria e l’informatica sono stati numerosi negli ultimi anni, ma non sufficienti. Secondo il Rapporto tematico del consorzio interuniversitario AlmaLaurea, le differenze tra scelte formative ed esiti occupazionali di laureate e laureati sono ancora molto profonde. Il divario è evidente proprio per le materie scientifiche: le donne rappresentano quasi il 60% del totale dei laureati del 2020, ma solo il 14% degli iscritti nei gruppi informatica e tecnologie ICT e il 26% nell’ingegneria industriale e dell’informazione. Ovviamente, l’altro lato della medaglia è che gli uomini che si iscrivono a facoltà tradizionalmente considerate femminili sono pochissimi: solo il 7% nell’educazione e formazione, il 17% nelle lingue e il 20% in psicologia.

Oltre al gap nelle scienze, i dati di AlmaLaurea mostrano però una situazione di profonda ingiustizia, che non sembra premiare in alcun modo gli sforzi delle studentesse universitarie. Mentre i colleghi maschi tendono a “ereditare” lo stesso titolo di studio paterno, le donne provengono più frequentemente da situazioni familiari ed economiche svantaggiate e sono più spesso degli uomini le prime laureate in famiglia. Per quanto riguarda il percorso di studi, sono più inclini a laurearsi in corso e con un voto più alto (104 per le femmine, 102 per i maschi). Eppure, non appena mettono piede nel mondo del lavoro cominciano gli ostacoli. A cinque anni dal titolo il tasso di occupazione è pari all’86% per le donne e al 92% per gli uomini tra i laureati di primo livello e, rispettivamente, a 85% e 91% tra quelli di secondo livello. Non solo lavorano meno, ma sono anche meno tutelate a livello contrattuale e guadagnano circa il 20% in meno dei loro omologhi. Queste cifre si intrecciano, come si è detto, anche con le scelte formative, dal momento che i lavori nel settore culturale, dell’educazione e dei servizi sono più precari, oltre che meno remunerativi.

Nel 2007, Alice Eagly e Linda L. Carli coniarono sull’Harvard Business Review l’espressione “labirinto di cristallo”, ricalcata dal più famoso “soffitto di cristallo”. La metafora indicava le numerose difficoltà che le donne incontrano nelle proprie carriere, che più che somigliare a una scalata verso l’alto sembrano gli infiniti corridoi di un labirinto trasparente, la cui uscita sembra vicina eppure è lontana. Per descrivere la situazione italiana dell’occupazione femminile, sarebbe ancora più opportuno parlare di un muro che ti si para davanti non appena esci dall’università. E che spesso, più che di cristallo, è fatto di mattoni. Si comincia dalle offerte di lavoro che richiedono “bella presenza”, se non addirittura foto in costume da bagno, per passare poi alle domande inopportune (oltre che illegali) su matrimonio e figli durante i colloqui. E quando si ottiene faticosamente un posto si guadagna meno dei colleghi maschi, le opportunità di fare scatti di carriera sono minori, per non parlare del momento in cui si decide di mettere su famiglia. E così fino alla pensione.

È chiaro che cercare di spiegare questa situazione richiamandosi a predisposizioni biologiche o mancanza di “grinta” femminile è assurdo. Questi sono problemi strutturali che creano quei circoli viziosi da cui sembra difficile uscire, come quello delle Stem. Anzi, molti dei dati raccolti da AlmaLaurea dimostrano esattamente l’opposto: le giovani donne hanno una grande determinazione nel riscattarsi e nel conquistare la loro indipendenza. Non lo dicono soltanto i dati sul livello di istruzione dei genitori o sulla classe sociale di provenienza, ma anche quelli che riguardano il modo in cui gli studenti e le studentesse pensano al proprio futuro: nella ricerca del lavoro ideale, si legge nel documento, le donne “continuano a ricercare più frequentemente degli uomini la stabilità del posto di lavoro (+11,0 punti percentuali), l’utilità sociale (+10,4 punti percentuali), la coerenza con gli studi (+9,4 punti percentuali) e l’indipendenza o autonomia (+8,9 punti percentuali)”. Quest’ultimo dato è forse il più significativo. Quell’indipendenza tanto agognata attraverso lo studio non sembra essere solo quella dalla famiglia di origine, ma diventa un valore che per una donna è ancora da conquistarsi a fatica in un mondo che le è così ostile.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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