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Caparezza: “Acufene e sordità hanno cambiato me e la mia musica. Oggi sono libero, non ho più nulla da perdere”

Caparezza ha pubblicato l’album-fumetto “Orbit orbit”, un ritorno non scontato a causa dell’acufene e dell’ipoacusia – sordità – di cui soffre da anni. Malanni che, però, gli hanno regalato una nuova libertà espressiva e aperto altre possibilità musicali. Abbiamo intervistato il rapper di Molfetta.
A cura di Francesco Raiola
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Caparezza
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Caparezza è un unicum nella storia della musica italiana. Un artista che non flirta con i social e con il gusto del pubblico, che non ha bisogno di essere sempre presente. Che in quell'assenza ha costruito – senza cercarlo – una sorta di mito. La sua onestà intellettuale e musicale lo hanno reso uno degli artisti più credibili della scena, senza contare il contributo che ha dato al rap italiano. Eppure in questi ultimi anni ha dovuto affrontare l'acufene – su cui ha anche scritto un album – e l'ipoacusia, ovvero la riduzione precoce dell'udito, che gli hanno completamente cambiato la vita. E la musica. Se prima non scendeva a compromessi artistici, oggi lo fa ancora meno, perché vive ogni album come se fosse l'ultimo e questo limite gli regala la possibilità di non dover rispondere ad alcuna aspettativa. Qualche settimana fa ha pubblicato "Orbit orbit", un concept album che è uscito insieme a un fumetto, sua grande passione. A Fanpage Caparezza – che sarà in tour nel 2026 – ha parlato della sua musica, di come è cambiata con la malattia, ma anche di libertà d'espressione, di come si sposa la sua riservatezza con la fama e degli anni di Mikimix.

Cominciamo subito: "Orbit Orbit" nasce — lo hai spiegato più volte — come racconto, non come semplice disco. Come lo hai definito esattamente?

È fondamentalmente un concept album basato sul fumetto. "Orbit Orbit" lo posso considerare un mio primo disco, perché mi sono preso libertà che prima non avevo: mi sono liberato di alcuni miei stilemi. L’impegno è stato enorme, come affrontare davvero un’opera prima. Il fumetto lo era, il disco no, perché era il nono, ma l’ho approcciato come se fosse il primo. Volevo fosse diverso da tutti gli altri, perché io mi sento diverso da tutti gli anni che ho passato — spero migliore, secondo il mio concetto di miglioramento. Volevo un’opera omogenea, non "schizoide" come i miei album precedenti, dove alternavo pezzi punk, rap, classici… Qui volevo un umore generale elettronico.

Perché l’elettronica?

Perché stavo facendo un viaggio di fantascienza che richiamava la mia infanzia, ciò che mi ha fatto innamorare di fumetti e musica. Mi sono liberato dai dischi precedenti e ho iniziato da zero musicalmente. Poi ho affrontato temi molto intimi, in alcuni casi esagerando nello scoprirmi, cosa che di solito evito. Il mio primo disco, "?!", che non so nominare, aveva in copertina un mondo circondato da aculei. Ho sempre protetto il mio mondo interiore dall'esterno. Questa volta ho tolto quella protezione e mi sono ritrovato nello spazio, nudo e con molte possibilità davanti. Questa nudità l’ho mantenuta: pezzi come “Pathosfera” o “Comic Books saved My Life”, mentre li scrivevo, mi davano quella frizione necessaria alla creatività. Non bisogna stare comodi, cullarsi sugli allori. Per questo considero “Orbit Orbit” un primo disco.

L’ennesimo primo disco, come si dice di te: hai vissuto varie vite artistiche. Mi piace che sia un disco poco appetibile per il mercato, eppure ha ottenuto risultati importanti. Quanto conta ormai il “marchio Caparezza”? Quanto conta aver insegnato al pubblico a fidarsi di te?

Senza volerlo. Io non ho uno scopo didattico: faccio quello che mi viene in testa e mantengo il focus su questo. Potrei fare musica e non pubblicarla: a me piace la creatività. Quando decido di pubblicare, è perché l’opera è compiuta nella mia testa e voglio liberarmene. Quindi ogni disco, oltre a essere un primo disco, è anche l’ultimo: una morte da celebrare. Finalmente me ne sono liberato, ho tradotto la mia esigenza in qualcosa che continuerà a esistere. Questo è ciò che ho sempre fatto e continuo a fare, non come una missione, ma come il mio modo di essere. Non faccio musica per pagare il mutuo, né per farmi fotografare, né per essere adulato. Nessuna sovrastruttura. Faccio musica perché mi piace farla e mi piace l’idea che mi sopravviva.

Una cosa ti ha ripagato, alla fine.

Il vantaggio del fatto che questa cosa sia diventata il mio punto di forza — perché non sempre accade che l’onestà ripaghi — è che il pubblico non sa cosa aspettarsi da Caparezza, ed è proprio questo che gli piace di me. Per me è la più grande vittoria, perché non ho bisogno di compiacere nessuno. Mi sento veramente libero: libero di decidere quando uscire, cosa fare, senza alcuna costrizione in tutto ciò che ho creato.

Hai detto che era sul tavolo l’idea di smettere di fare musica. Quanto questo pensiero – che ogni cosa che arriva è qualcosa in più – ti ha liberato, ancora di più, da tutte le catene? 

Hai centrato il punto. È sempre stata una mia attitudine, ma è diventata una forza dopo ciò che mi è accaduto ciò di cui parlo spesso (l'acufene e l'ipoacusia, ndr). Nel fumetto lo dico: scopro, come cosmonauta, di non avere più una missione, che sono in balia degli eventi. Se quegli eventi mi portano davanti a delle tragicità, che mettono in discussione il mio ruolo o il mio futuro come cantante, allora la libertà con cui faccio il mio mestiere aumenta: non ho nulla da perdere. Ma comunque sono pronto a perdere tutti. E quindi rischio, ed è andata bene.

Molto bene…

Il rischio è un salto nel vuoto, ma nell’arte il rischio è il cuore dell’atto creativo. In "Io sono il viaggio" dico: "Imparo che non c’è disfatta se posso premiare lo sforzo". Per me è così: tutto è premiare lo sforzo. Il resto è in più, e non è una sconfitta nemmeno quando lo può sembrare.

In che modo acufene e ipoacusia hanno cambiato il tuo modo di creare musica? 

Hanno accelerato un processo che tutti dovremmo ambire a fare: migliorarsi. Non arriva per tutti questo pensiero, per quanto mi riguarda già l’avevo, ma me la prendevo comoda, invece acufene e ipoacusia hanno accelerato questo processo. Dal punto di vista stilistico, ci sono sempre meno chitarre elettriche e suoni spigolosi. Anche la mia voce che era spigolosa ora non lo è più. Questo perché ci sono frequenze che mi danno fastidio, quindi tendo ai suoni morbidi, elettronici, orchestrali. I miei malanni sono dei personal trainer esigenti, ma rendono il percorso vivace. Sono convinto che avrei stagnato artisticamente senza ciò che mi è accaduto.

Perché lo pensi? Sei un artista che ha sempre trovato nel cambiamento una chiave.

Con “Museica” credo di aver raggiunto il picco di quel tipo di approccio; forse il personaggio avrebbe potuto fagocitare la persona. Ora mi sento più vero. Mi piace dare a queste malattie una connotazione positiva, è il mio modo per accettarle.

In che modo queste malattie hanno cambiato il tuo modo di pensare al futuro e alla musica nel futuro?

Non penso più alla musica nel futuro, penso a prendermi cura di me. Se la musica o il fumetto sparisse dalla mia vita, non sarebbe un problema. Se sparissi io o chi ho accanto, sì. Questo ho imparato, anche se l'avevo già capito. La musica non va messa al primo posto, ma all’ultimo perché si nutre di tutto. Se togliamo tutto dalla musica, rimane un esercizio fine a se stesso.

Arbasino diceva: "In Italia c'è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di bella promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l'età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro". Mi pare che tu abbia saltato il "solito stronzo" e sia approdato direttamente al "venerato maestro".

Sempre allievo, mai maestro. Stimato forse, venerato no. E nel rap ci sono troppe sfumature: io sono sempre stato nel calderone del “conscious rap”, con Rancore, MezzoSangue, Murubutu. Il rap oggi è tutto e niente. Se consideriamo anche l'evoluzione del rap, da come è partito a cosa è arrivato, abbiamo praticamente uno spettro enorme. Mi sento stimato soprattutto dai ragazzi che amano l’arte in generale: ai firmacopie mi portano quadri, disegni, diorami, poesie ispirate ai miei pezzi… Mi sento stimato da chi ha questo tipo di anima, forse non da chi è innamorato del linguaggio di strada, che non è il mio. Stimano che sappia rimare a tempo, ma non l'immaginario.

"Ho un carattere inadatto al mestiere che ho scelto. Preferisco l'assenza al clamore" canti. Come si conciliano la tua riservatezza con Mikimix, Sanremo, la popolarità?

Mikimix è stato il momento in cui volevo vivere facendo cose creative, musica nel caso specifico.

Un compromesso, quindi?

Certo, ma anche ingenuità. Mi dicevo: "Ho questa attitudine, perché non farla diventare un mestiere?". Avrebbe potuto essere anche un lavoro impiegatizio: studiavo per diventare pubblicitario.

Ah, come Jake La Furia, quindi?

Abbiamo fatto la stessa scuola, solo che lui è arrivato dopo di me. Solo che non era la mia tazza di tè, quella. Cantavo, scrivevo pezzi in continuazione e ho provato a mettermi in gioco. Ma non avevo ancora quel fuoco che è arrivato dopo. E aggiungo una postilla: ho capito, anche grazie all'incontro con i ragazzi, che sono spesso i più timidi a esprimersi con più forza nei linguaggi creativi, ma sono anche i più vulnerabili. Sono coloro che mollano perché non riescono a sopportare il giudizio e lo stress emotivo di esporsi. È un peccato, perché così perdiamo persone che avrebbero molto da dare.

Questa tua timidezza la racconti spesso, sei passato da Nessie (sinonimo di "mostro" come canta ne "La mia parte intollerante") a Caparezza. Come quegli anni difficili e di bullismo hanno segnato la tua vita artistica?

Sono rimasto Nessie dentro. E questo si concretizza nel non riuscire a stare nei gruppi: a scuola, non essere riconosciuto dalla scena hip hop… Ma non mi è mai interessato fare parte dei gruppi. Sono un solitario, e probabilmente, negli anni, questo essere "fuori" è stato la mia forza. Ora ho 52 anni e faccio bilanci: quel “Nessie” è ancora con me.

A 24 anni i rapper di oggi comprano case e barche; tu lottavi per Sanremo e vivevi la fama in Francia. Cosa ha significato per te conquistare stabilità?

Vivere facendo ciò che mi piace. Non ho mai pensato di fare questo mestiere per diventare ricco. Sono uno che si accontenta, non sogno macchine, non conosco la moda, non so distinguere uno vestito bene da uno vestito male.

Caparezza – ph Alberto D’Andrea
Caparezza – ph Alberto D’Andrea

Quali sfizi ti sei tolto?

Ho comprato sintetizzatori, action figure… Il vero lusso che mi sono tolto è stato vivere di ciò che amo e sapere di poter aiutare chi ho vicino. È un fatto generazionale: noi, nati negli anni ’70, non pensavamo, romanticamente, alla musica come fonte di ricchezza. Anche perché non era detto lo diventasse, avevamo pochissimi esempi.

Ti hanno mai chiesto in Francia "che fine ha fatto Mikimix?".

Ci ho pensato, tipo quella trasmissione italiana che si chiamava "Meteore". Non è mai successo dalla Francia. E comunque, se mi invitassero, non ci andrei (ride, ndr). Sono belle queste storie di passaggi da una storia a un'altra. Io ho nel cuore i Krisma. Il loro cantante proveniva da un background piuttosto classico, negli anni Sessanta, e poi sono diventati uno dei gruppi di musica elettronica più interessanti.

Li hai ascoltati molto?

Non molto, moltissimo: ho consumato l'album "Cathode mamma" fino allo sfinimento durante la composizione di questo disco, insieme a tanti altri album di musica elettronica di fine anni Settanta e inizio anni Ottanta. Però vedi, è un percorso: un percorso come il nostro. Noi non ci somigliamo sempre e probabilmente siamo anche in conflitto con i nostri “io” delle varie fasi. Musicalmente può accadere la stessa cosa, credo sia abbastanza naturale. Poi ci sono alcuni rapper giovani che invidio.

Cosa gli invidi?

Che in molti casi scrivono bene. Questa cosa gliela invidio. Mi sono chiesto cosa ascolterei oggi se avessi 16 anni, e credo che cercherei lo stesso approccio che ho amato con Frankie hi-nrg. Probabilmente cercherei ancora quello.

Sei parte della prima generazione di rapper cinquantenni: come immaginavi questo momento e com’è davvero?

Forse sto traghettando il rap verso il cantautorato, una categoria che può permettersi di scrivere a tutte le età. Però la grammatica rimane quella delle rime. In questo disco mi sono spogliato dei giochi di parole funambolici per andare al cuore delle cose: è un approccio più cantautorale. Mi piace anche lo spoken word. Amo gli Sleaford Mods, ho ascoltato molto "Megaton". In Italia abbiamo avuto grandi esempi, dagli Offlaga Disco Pax ai Uochi Toki – mio gruppo feticcio da sempre – ma anche alcuni pezzi di Jay Z o di Kendrick Lamar. È un mondo che mi piace perché basato sulla parola. La mia versione del "rap anziano" è questa: raccontarsi parlando, senza preoccuparsi troppo delle rime.

Visto che hai parlato spesso di attualità: che ne pensi del caso "Più libri più liberi"?

Ho seguito e ho firmato l’appello. Il punto è distinguere tra cosa è nazismo e cosa è fascismo, oggi. Una cosa è scrivere un saggio storico, un altro è la propaganda. La propaganda fascista o nazista è l’anti-democrazia. La vera contrapposizione non è fascismo contro comunismo, ma dittatura contro democrazia. Non ho mai avuto problemi a espormi.

Certo, lo hai fatto anche su Gaza.

Certo, su Gaza, su tutto. Non ho nulla da perdere. Sono disposto a perdere ogni singola persona che mi ascolta, ma non a perdere la libertà di dire ciò che penso.

A proposito di appeal, fai una cover, Il banditore, di Enzo del Re, che se non sbaglio nasce da un pezzo di Matteo Salvatore. Due artisti incredibili che non hanno proprio l’appeal che una discografica cerca oggi.

Nel disco c’entra specificamente con il fumetto. E poi, per un pugliese, Enzo del Re non è affatto sconosciuto. La sua performance del Primo Maggio, da solo con la sedia a dominare la piazza, è uno dei picchi creativi della storia del concerto. Enzo del Re è una figura che ogni volta che approfondisci apre nuove strade. Quando ascoltai quel pezzo, mi si aprì un mondo. Era perfetto per ciò che volevo raccontare: surreale, futurista, dadaista, pieno di immaginazione. Anche se non è elettronico, quei rumori mi sembravano elettronici.

Una folgorazione.

Sì, è stata una folgorazione. Ho voluto omaggiarlo. Coverizzarlo è difficilissimo: lui è minimalismo puro. Ogni tentativo di avvicinarmi al suo sentiero risultava inferiore. Allora sono andato all’opposto: un viaggio alla Hans Zimmer. Molto divertente.

Direi anche un invito alla ricerca, come per i Uochi Toki: andatevi a cercare queste cose.

Esatto. Abbiamo lo streaming: non va subito, va cercato.

Michele, grazie. Speriamo di non dover aspettare altri quattro anni per riascoltarti.

Perché no? Non diamoci fretta.

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