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Opinioni

Addio al 2020: l’anno in cui la cultura finì

Non solo per la crisi sanitaria e per le vittime dovute al Coronavirus. Il 2020 potrebbe diventare l’anno in cui tutto ciò che tradizionalmente chiamiamo cultura, dal teatro ai musei, passando per il cinema e le librerie fisiche, uscì dal nostro orizzonte di cittadini. Ma la pandemia potrebbe soltanto aver accelerato un processo già in atto.
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L'anno in cui la cultura diventò inutile. E in cui chiudemmo per sempre cinema, teatri, musei. Potrebbe passare alla storia per questo cambio di paradigma epocale il 2020 agli sgoccioli. La pandemia ha colpito tutta la società nel suo complesso, innanzitutto il sistema sanitario e le vittime a cui dobbiamo sempre il nostro rispetto. Eppure è impossibile non notare come quell'ampia porzione di vita culturale che costituisce non solo la sostanza della vita sociale di ciascuno, ma anche il nostro modo di essere individui all'interno di una comunità con una sua storia, e che ricomprende più o meno un arco di attività che vanno da una serata a teatro a una gita al museo, passando per la fiera di un libro o una serata al cinema, è stata tra le più penalizzate in assoluto. Per certi versi questo 2020 ha reso più rapido un lavoro di distruzione di ciò che chiamiamo "cultura" già in atto.

Certo, perlopiù parliamo di settori che già facevano fatica prima. Decenni di ottuse narrazioni volte a sostenere che alcune forme culturali potevano stare in piedi da sole, di poter competere sul mercato semplicemente dandosi una ripulita e rendendosi più attraenti agli occhi di un pubblico sempre più attratto da altre forme di intrattenimento, aveva già compiuto un danno irreparabile.

Abbiamo iniziato anni fa con la retorica delle librerie che dovevano diventare caffè, poi dei caffè che dovevano vendere tazze per i caffè, gadget e via dicendo, per arrivare a trasformare l'esperienza culturale in puro intrattenimento, svuotata di ogni senso valoriale, politico, umano, riducendo la persona che si nutre di cultura a un consumatore. Così i lettori sono diventati consumatori di libri, gli appassionati d'arte si sono trasformati in turisti, mentre cinefili, melomani e pubblico del teatro invecchiavano sempre più, senza ricevere un ricambio generazionale. La colpa?

Non della televisione o di internet, certamente, come i meno acuti moralizzatori del terzo millennio vogliono farci credere, trovando in questo modo consolazione nella "nicchia", che è solo una brutta parola che sta indicare il luogo dove le élite di un tempo hanno trovato degna sepoltura. Forse in buona parte della scuola, ma la colpa è stata ed è, innanzitutto, della stessa cultura. O meglio, di quell'apparato culturale abitato da troppo tempo ormai da zombie del potere, cariatidi incontentabili e affamate, burocrati e malfattori senza scrupoli che potrebbero gestire una sala teatrale da cento posti o le iscrizioni di un neonato partito nazionalsocialista allo stesso identico modo. Che sia una pièce di Beckett o merda pura, l'importante è che produca soldi succhiati dalla mammella degli aiuti statali o fregando qualche ricco privato che vuol farsi bello con un po' di mecenatismo.

Se così stanno le cose, meglio non incolpare la pandemia per come si sono messe le cose. Sarebbe mille volte più opportuno approfittare dell'inevitabile cesura che il Coronavirus porterà col suo cambio di paradigma per rimboccarsi le maniche e ricominciare daccapo. Ricominciandosi a chiedere cosa è cultura e chi la fa davvero.

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Scrittore, sceneggiatore, giornalista. Nato a Napoli nel 1979. Il suo ultimo romanzo è "Le creature" (Rizzoli). Collabora con diverse riviste e quotidiani, è redattore della trasmissione Zazà su Rai Radio 3.
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