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Opinioni

Concorrenza? Soltanto in casa d’altri!

Le liberalizzazioni varate dal governo Monti hanno finora deluso, ma difficilmente ci si poteva attendere molto di più in un paese che ancora non sembra capire i vantaggi di una maggiore apertura alla concorrenza.
A cura di Luca Spoldi
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Mario Monti

Concorrenza, ma che scherziamo? Liberalizzazioni? Vanno benissimo in casa d’altri ma per favore no troppo vicino a casa mia e ai miei interessi. La sindrome di Nimby (dall’idioma inglese “Not in my back yard”, non nel giardino dietro casa mia) in Italia non colpisce solo la Val Susa quando si tratta di Tav (perché rischiare ipotetici danni all’ambiente proprio da noi, si chiedono giustamente gli abitanti, infischiandosene della risposta “per evitare danni all’ambiente qui e altrove legati all’ulteriore incremento del traffico su gomma”) o qualsiasi comune italiano in cui si proponga di aprire una discarica (inquina! Meglio sparse per la via?), un impianto di compostaggio (puzza! Di nuovo, le spargiamo sui campi?), un generatore eolico (fa rumore! In cima a un pizzo di montagna?) o quasi qualsiasi altro “intervento antropico” sull’ambiente.

No, agli Italiani la sindrome di Nimby è congenita anche e soprattutto quando si parla di misure per liberalizzare l’economia. Così una manovra modesta, modestissima, e che purtroppo continua a vedere figli e figliastri, i primi da tutelare i secondi da “regolare”, come quella appena varata dal governo Monti è inevitabilmente destinata a suscitare ulteriori ondate di protesta. E non importa che in molti casi, come con taxisti, “forconi”” e Tir chi organizza la protesta è una formazione estremista (di destra nel caso specifico, ma è del tutto incidentale visto che in passato analoghe manifestazioni sono state organizzate da partiti e sindacati di sinistra), non importa se la protesta non propone nulla se non la difesa di rendite di posizione che finiamo col pagare tutti sotto forma di costi maggiori, arretratezza infrastrutturale e culturale, crescente gap col resto de mondo (non solo con paesi “virtuosi” come Francia, Germania, Inghilterra o Stati Uniti, anche con India, Cina o Albania, si badi).

Tutto questo Mario Monti lo sa perfettamente e mentre l’altro Mario (Draghi) gli da una mano impegnandosi a tenere i tassi vicino a zero per i prossimi anni (così da evitare il collasso del sistema bancario europeo e limitando quanto possibile il “credit crunch” alle imprese), lui prova a far ripartire l’economia italiana con caute, cautissime, liberalizzazioni. Molto sbilenche e assolutamente perfettibili visto che ai notai restano troppe attività riservate per legge (riducendo le quali si sarebbe introdotta una maggiore concorrenza con altri professionisti e forse ridotti i costi per le tasche degli italiani), alle farmacie resta l’esclusiva sulla vendita dei farmaci di fascia C (che avrebbero invece potuto essere venduti nei supermercati magari da personale specializzato, creando così maggiori opportunità di lavoro per i giovani) a Trenitalia resta la proprietà della rete ferroviaria (che avrebbe invece potuto essere separata così come avvenuto con le reti elettriche e del gas).

Ma le misure varate da Monti debbono anzitutto riuscire a compiere una rivoluzione culturale che finora è mancata in Italia a favore della libera concorrenza e secondariamente reintrodurre il principio che “pacta servanda sunt” e quindi debbono valere per il futuro e non retroattivamente (altrimenti perderemmo rapidamente quel poco di fiducia che l’operato dei due Mario, Monti e Draghi, è riuscita a far recuperare all’Italia in queste settimane, dopo il patrimonio di credito dilapidato in 20 anni di “non governo” dai precedenti esecutivi italiani). Sembra quasi superfluo ricordare nel 2012 quello che è in fondo l’ABC di qualsiasi manuale di economia: che in concorrenza perfetta i consumatori (ma alla lunga anche le imprese perché imparano a competere al massimo delle proprie possibilità) ottengono più vantaggi che in mercati dominati da pochi oligopolisti (o peggio ancora da un solo monopolista, non importa se pubblico o privato).

Eppure dopo un primo articolo sul tema qualcuno mi ha accusato di fomentare “l’anarchia selvaggia delle liberalizzazioni, il mercato da Far West, la macellazione sociale, l’impoverimento e la concorrenza spietata da legge della giungla e senza regole, dove sopravvive solo il più forte, nel nostro caso il più corrotto, il più colluso, chi riesce a scavalcare meglio leggi, normative, chi riesce a praticare la migliore concorrenza sleale”. Allora debbo ribadire meglio: la concorrenza non vuol dire assenza di leggi, il libero mercato va ovviamente inquadrato in regole generali che ne garantiscano il corretto funzionamento  e puniscano adeguatamente chi le regole le infrange per proprio personale profitto, però mi si permetta una puntualizzazione: le leggi debbono valere realmente per tutti.

Negli Stati Uniti “liberisti selvaggi” un truffatore come Bernard Madoff (fino a pochi anni prima presidente del Nasdaq, il mercato tecnologico dove sono quotati titoli come Intel, Microsoft o Google) è stato imprigionato e condannato a 180 anni di carcere per i danni causati ai suoi clienti in 10 anni di raggiri finanziari e non vi sono dubbi che sconterà la sentenza, in Italia i responsabili di truffe e fallimenti ai danni dei risparmiatori con molta difficoltà hanno scontato più di qualche anno di prigione, quando non sono rimasti semplicemente al proprio posto in attesa di sentenza definitiva (vi dicono nulla nomi come Parmalat, Cirio, Bnl, Bagaglino, Giacomelli Sport, Finmatica, Freedomaland?… e potrei continuare ancora a lungo).  Nel Belpaese per aprire un bar viene chiesta una licenza da alimentarista ottenibile dopo corsi e certificazioni varie, peccato che L'Espresso abbia scoperto (ma no?) che molti esercizi cinesi (ma i titolari potrebbero essere egiziani, congolesi o italianissimi e non cambierebbe nulla) pagando somme pari mediamente ai 1200 euro corrompevano i funzionari pubblici addetti ai controlli e ottenevano la licenza senza neppure fare un giorno di corso e "magari" facevano concorrenza questa sì sleale ai loro concorrenti italiani che sempre più spesso, in tutti i settori, falliscono. Insomma: non è solo con le barriere, gli albi, le normative che si tutela pienamente il diritto dei consumatori ad accedere in modo equo a beni e servizi di massa, bensì con una vera concorrenza e col rispetto delle regole e delle leggi.

Dirà qualcuno: ci sono e ci saranno sempre dei campi come l’istruzione, la sanità, la difesa, le grandi infrastrutture, i servizi “di pubblica utilità” dove la presenza di imprese pubbliche può garantire un servizio migliore, esteso anche a fasce di popolazione che altrimenti non verrebbero servite o verrebbero servite a costi elevati. Verissimo e son contento che sia così, ma per dirla tutta si potrebbe ottenere lo stesso effetto facendo rispettare rigorosi requisiti a ogni concessionario di pubblico servizio o impresa privata intenzionata a operare nel settore specifico. Senza arrivare, come troppo spesso capita in Italia, a farsi “ricattare” dalle minacce di chiusura degli impianti e licenziamento in massa dei dipendenti da parte di imprese che fossero scoperte non aver rispettato gli impegni. Pacta servanda sunt da entrambe le parti, ma la concorrenza resta un elemento essenziale per far ripartire questo paese sempre più arteriosclerotico e chiuso, in tutti i sensi, all’innovazione.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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