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Opinioni

Ciro Esposito e le due Napoli: quella che piange lacrime e quella che vomita odio

Due Napoli che spesso non si distinguono l’una dall’altra piangono il giovane tifoso che da oggi diventa un simbolo per gli ultras napoletani (e non solo). La proposta di una “partita della pace” tra Napoli e Roma è probabilmente impraticabile e sicuramente inutile. Una cosa è certa: la grande responsabilità della comunità sportiva italiana che non ha mai fatto nulla per scongiurare seriamente l’odio durante le partite.
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«Il suo nome è Robert Paulson e ha quarantotto anni. Il suo nome è Robert Paulson e Robert Paulson avrà quarantotto anni per sempre».
Fight Club

I riti piacolari in antropologia sono quelli che il "gruppo" inscena quando muore un suo membro. Nascono per rafforzarsi e per riequilibrarsi, per compensarsi della perdita. Sono plateali, eccessivi. La sociologia non ha mai aiutato nella descrizione di Napoli, anzi: guardare i partenopei col filtro antropologico ha spesso rafforzato gli stereotipi senza spiegare nulla di questa terra. Ma se abiti qui, se vivi al rione Sanità o a porta Capuana, ai Quartieri Spagnoli, ai Tribunali, al Pallonetto di Santa Lucia o in qualsiasi altro quartiere della città che non sia Scampia, periferia Nord, luogo di residenza – e di ritorno in una bara – di Ciro Esposito, ti rendi conto che quel rito c'è. Lo vedi. Si è messo in moto subito, quando il giovane tifoso del Calcio Napoli ha terminato la sua lunga agonia, qualche giorno fa. Un meccanismo che ha coinvolto gran parte della città, senza distinzione sociale, saldando persone con idee diversissime tra loro.

Scampia: sciarpe davanti all'autolavaggio in cui lavorava Ciro Esposito / FOTO LAPRESSE
Scampia: sciarpe davanti all'autolavaggio in cui lavorava Ciro Esposito / FOTO LAPRESSE

«In un mondo che / non ci vuole più / canterò di più»

Chi è andato allo stadio San Paolo di Napoli ha sicuramente ascoltato questo coro – il cui titolo è mutuato dal "Canto libero" di Lucio Battisti  – che nella Curva A viene urlato a ripetizione, ad ogni match. È un coro particolare:  non è di sostegno alla squadra bensì agli ultras. È dedicato ai  "non occasionali", ai "sempre presente" nelle trasferte, dal Cittadella ai tempi della serie C alla Champions League odierna. È dedicato a quelli dei Daspo, agli ultras dalle prese di posizione forti contro la Tessera del tifoso, contro le partite viste alla pay per view, contro il panino mangiato sulle gradinate anziché cantare. È dedicato a quelli  che indossano la maglia "Speziale Libero". Ai Gennaro De Tommaso, alias Genny ‘a carogna, il capotifoso dei Mastiffs diventato meme e bruciato sull'altare di quella maledetta finale di Coppa Italia. Di quel mondo e della notte del 3 maggio sappiamo oggi una cosa: il discutibilissimo Genny ‘a carogna quella sera fu solo la distorsione – soprattutto mediatica e politica – di una storia più complessa.  Fu la pratica, non fu il promotore. Ora lo vediamo chiaramente cosa c'era di  grosso, grave e irrecuperabile. Lo vediamo nell'epilogo. Nella morte di Ciro Esposito, ucciso dal tifoso della Roma e membro dell'ultradestra romana Daniele De Santis (anche in quest'ultimo caso l'appartenenza politica è stata una pratica, non un movente).

Il Fight club ultras e l'inutile partita della pace

Nelle regole dei Fight club dei tifosi non c'è la pistola: il momento in cui compare è l'attimo stesso in cui si ferma tutto, si stravolgono le regole del "gioco". E il processo è davvero identico a quello del libro di Palahniuk in cui la vittima diventa simbolo, il suo nome e il suo volto acquistano un'aura, un simbolismo che va ben oltre la storia che conosciamo. Ciro Esposito, vittima innocente in una notte di follia è il "Bob" Paulson della tifoseria napoletana stagione 2013/2014. «Ciro eroe civile in un mondo vile» recita uno striscione davanti all'autolavaggio in cui lavorava Espsosito. La famiglia dello sfortunato ragazzo, persone di straordinaria dignità e riserbo, ha responsabilmente , fin dall'inizio, invitato alla calma e al rispetto della memoria del figliolo. Avrà senso un invito del genere, non ora che il rito collettivo è ancora in corso, ma in seguito? Nel Risiko dei gemellaggi e delle trasferte cosa accadrà? Basterà lo spauracchio dei Daspo?
Di certo c'è che le domande sulla gestione dell'ordine pubblico di quella notte non sono  più soltanto polemiche giornalistiche, non valgono solo il tempo di un articolo. Le risposte non ci sono ancora. E su questa nuova consapevolezza si sta costruendo, in queste ore, una rabbia e una distanza ulteriore fra la galassia ultras – non solo quella napoletana – e il resto dell'Italia che segue il pallone.

Scampia, gli ultras "intitolano" la piazza a Ciro Esposito / FOTO VISCARDI
Scampia, gli ultras "intitolano" la piazza a Ciro Esposito / FOTO VISCARDI

Dopo il rito di separazione non c'è la pacificazione

Nei rituali di separazione si rafforza il legame di solidarietà. Si collega il presente al passato, il singolo alla collettività. E se il passato è un passato di battaglia sugli spalti, se è un passato – e un presente – di cori razzisti, se il singolo è un morto e la collettività nasce da regole-slogan come «coerenza e mentalità» allora la pacificazione è, al momento, l'ultima delle ipotesi possibili. Appare a tal proposito paradossale, ridicola, la proposta di Giuseppe Pecoraro, prefetto di Roma, uno dei protagonisti della notte nera dell'ordine pubblico prima della finale di Coppa Italia Fiorentina-Napoli a Roma, di organizzare «un'amichevole, una partita della pace tra Roma e Napoli per ristabilire regole di civiltà e non dimenticare quanto accaduto a Ciro Esposito».

A Scampia, terra di faide e camorra, un morto sparato non è una novità: la storia del quartiere è piena di camorristi trucidati e di vittime innocenti della furia malavitosa. Ma un giovane tifoso sparato a Roma durante una partita ha tutt'altro senso, stravolge anche il rito del dolore. Gli Esposito sono persone perbene e stanno facendo capire a tutti che non è la vendetta che restituirà un figlio, un amico, un fratello. Ma intorno a quest'orgogliosa e laboriosa famiglia proletaria c'è una rabbia che preme e supera perfino la cerchia degli ultras storici: è fatta di irresponsabili che lanciano parole come sassi, facendosi portavoce di un odio collettivo,  fasulli Atlante portatori di un "dolore da gradinata" buono a stento per un coro con la rima baciata ma che mal si concilia con la necessità di pace, di eventi sportivi non più simili a battaglie barbare, con la necessità di tifoserie non più infestate dall'odio razziale.

Individuo in questo scenario la gravissima responsabilità della comunità sportiva italiana, dalla Figc alla Lega Calcio, dai presidenti delle squadre di serie A a perfino molti calciatori e sicuramente tanti giornalisti e commentatori sportivi. Se l'odio sugli spalti è un fiore del male, per crescere così rigoglioso qualcuno, in questi anni, l'ha curato proprio bene.

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Giornalista professionista, capo cronaca Napoli a Fanpage.it. Insegna Etica e deontologia del giornalismo alla LUMSA. Ha una newsletter dal titolo "Saluti da Napoli". È co-autore dei libri "Il Casalese" (Edizioni Cento Autori, 2011); "Novantadue" (Castelvecchi, 2012); "Le mani nella città" e "L'Invisibile" (Round Robin, 2013-2014). Ha vinto il Premio giornalistico Giancarlo Siani nel 2007 e i premi Paolo Giuntella e Marcello Torre nel 2012.
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