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Opinioni

Unioni civili, tortura, clandestini: in Italia la vera battaglia è sui diritti

Per piccoli motivi elettorali l’Italia rimane ancora fanalino di coda in UE per i diritti.
A cura di Michele Azzu
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“Molti governi hanno sfacciatamente violato il diritto internazionale e stanno volutamente indebolendo le istituzioni che dovrebbero proteggere i diritti delle persone”, con queste parole Salil Shetty, segretario della ONG Amnesty International che si occupa di diritti umani, ha presentato le conclusioni del nuovo rapporto della organizzazione.

Il riferimento è principalmente all’Egitto, alla Cina, alla Siria, al’Arabia Saudita. Ma a leggere questo rapporto nei giorni del dibattito in aula sulle unioni gay, viene da pensare se non possa esserci un riferimento anche al nostro paese. E all’Unione Europea che ha fallito nell’accoglienza ai rifugiati, al Regno Unito che potrebbe lasciare l’UE mettendo a rischio il lavoro e il benestare di migliaia di persone.

L’agenda dei 10 punti redatta da Amnesty international sull’Italia risale al 2013. In quel testo si parlava di unioni civili, asilo per i rifugiati, carceri, reato di tortura e femminicidio. Il documento venne sottoscritto dai leader dei partiti che andavano alle elezioni, Pd compreso, e da 118 parlamentari che ancora oggi siedono in parlamento. Eppure, dei punti di quel documento si è fatto poco e nulla.

Per quale motivo? Sul reato di clandestinità, ad esempio, non si è voluti intervenire perché: “l’opinione pubblica non capirebbe”, come hanno affermato i ministri Boschi e Alfano sui clandestini. E le unioni civili per le coppie omosessuali? “Siamo contrari in generale alla funzione genitoriale omosessuale”, ha spiegato il senatore Sacconi, in merito alla propria opposizione al testo.

Insomma, se in tre anni dalla firma del documento di Amnesty sui diritti civili, in Italia, ancora non si riesce a andare avanti è per motivi piccoli, meschini, puramente elettorali. Una vera e propria vergogna, che ci rende fanalino di coda fra tutti i paesi dell’Unione Europea. Vediamo perché.

REATO DI CLANDESTINITÀ. Lo scorso gennaio il governo ha deciso di mantenere in vigore il reato penale di immigrazione clandestina, non esercitando la delega votata precedentemente nell’aprile 2014. I ministri Alfano e Boschi spiegarono in quell’occasione che depenalizzare l’immigrazione clandestina avrebbe “spaventato l’opinione pubblica”. Come dire, gli immigrati non votano ed è meglio tenere un reato inutile e dannoso per puri scopi elettorali.

Perché sia inutile e dannoso lo riporta Adriano Biondi su Fanpage: Resta in piedi un reato “inefficace, con una capacità limitata, se non nulla, di deterrenza” (parole e musica Andrea Orlando, ministro della Giustizia). Resta così com’è un reato che “intasa le Procure” (Pansa, capo della Polizia), che “non ha senso, non serve e intasa i tribunali” (Renzi, Presidente del Consiglio), che “costa un sacco di soldi” (Savio, associazione studi giuridici immigrazione), che “ostacola solo le indagini” (Roberti, procuratore nazionale antimafia).

REATO DI TORTURA E ABUSI IN DIVISA. La discussione del reato di tortura, in Italia, è ferma: iniziata il 22 luglio 2013 si è conclusa con un nulla di fatto. Nonostante le Nazioni Unite abbiano scritto una convenzione già nel 1984, ratificata in Italia nel 1988. Nonostante siano passati 15 anni dai terribili fatti del G8 di Genova, in cui “molti dei responsabili di gravi violazioni dei diritti umani sono sfuggiti alla giustizia”, riporta Amnesty. La questione del reato di tortura, infatti, è strettamente legata alle violenze delle forze dell’ordine, documentate in Italia dall’associazione ACAD.

Da segnalare anche l’istituzione in Italia del numero identificativo sulle divise delle forze dell’ordine, che permetterebbe di aiutare nell’individuazione di chi si macchia di violenze. Da quasi un anno, ormai, da marzo 2015, sono arrivati in senato tre diversi disegni di legge – l’803, il 1307 e 1412 scritti da membri di M5S, Sel e Pd – per l’adozione di questi numeri identificativi. Ma la discussione di questi ddl è stata bloccata dal governo e non c’è nessuna indicazione su quando se ne potrà ridiscutere.

CAPORALATO. In tema di diritti civili è necessario includere il fenomeno del “caporalato”, esteso dalla Puglia fino al Piemonte, in cui circa 800mila persone – stando alle stime della Cgil – lavorano in condizioni di quasi schiavitù nella raccolta dei campi. Senza contratto, tutele per paghe da fame e vittime di violenze. Lo scorso novembre il governo Renzi ha approvato un disegno di legge contro il caporalato, in cui sono previsti una serie di interventi per ridurre il fenomeno.

Il problema, però, come già avvenne per la legge approvata nel 2011, è che ogni provvedimento contro il caporalato non serve finché rimane in piedi il reato di clandestinità. Il 23 febbraio, lo studio del think tank House Ambrosetti, riporta che ancora 400mila persone lavorano col caporalato, e guadagnano 25-30 euro in nero al giorno per dodici ore di lavoro. Alla presentazione il ministro Martina ha spiegato che il ddl contro il caporalato prevede: “indennizzi per le vittime”. Già, peccato che le vittime siano quasi tutti clandestini, e che in caso di denuncia verrebbero arrestate.

CARCERI. Continua la situazione di sovraffollamento delle carceri italiane. I dati forniti dal ministero della giustizia a gennaio, aggiornati al 31 dicembre 2015, confermano il disagio di chi si trova a vivere in carcere: 52.164 detenuti a fronte di 49.592 posti disponibili. Ma la distribuzione per regioni non funziona: solo 9 regioni su 20 il numero di detenuti è inferiore alla capienza di posti. Le situazioni peggiori si registrano in Puglia, Lombardia, Veneto e Liguria.

A pesare, secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone, sono l’alto numero di clandestini che finisce in carcere, che è un terzo della popolazione carceraria. Inoltre, sono troppi i carcerati per custodia cautelare: il 35% del totale, contro una media europea del 21%. L’associazione Antigone denuncia anche l’alto numero di suicidi in carcere: “Una delle principali patologie del sistema penitenziario italiano”.

DISPARITÀ DI GENERE E FEMMINICIDIO. Un altro punto dell’agenda italiana di Amnesty è costituito dalla condizione femminile: in Italia le donne sono pagate il 7% meno degli uomini, fenomeno presente in quasi tutta Europa e negli USA. In Italia, però, a differenza degli altri paesi, il gap nel salario si riflette anche sul futuro pensionistico. Secondo le simulazioni Inps, infatti, le donne italiane prenderanno 6mila euro meno degli uomini in pensione a causa delle interruzioni nel lavoro causate dalla gravidanza. Inoltre, nel nostro paese le donne scontano una disoccupazione maggiore, e una maggiore incidenza di contratti part-time.

L’ultimo anno l’Italia è migliorata in merito alla disparità di genere, passando nella classfica del World economic Forum dal 69esimo al 41esimo posto. Grazie, probabilmente, alle quote rosa nei cda approvata nel 2011. Per quanto riguarda le violenze, invece, nell’ottobre del 2013 il senato ha approvato la legge contro il femminicidio. Tuttavia, il terzo rapporto Eures, dello scorso novembre, segnala come i casi di donne uccise siano stati 152 nel 2014, di cui 117 in ambito familiare. È un numero quasi identico a quello dell’anno precedente.

UNIONI OMOSESSUALI E ADOZIONE. Da settimane si dibatte un altro grande punto dei diritti civili in italia: le unioni civili fra omosessuali. E da settimane non si riece ad andare avanti. In particolare sulla “stepchil adoption”, ovvero l’adozione del figlio biologico del partner omosessuale. Nelle trattative, la legge è andata tanto al ribasso da diventare una garanzia di discriminazione: i figli degli omosessuali per ottenere l’adozione dovranno rivolgersi a un giudice. Una legge, insomma, che più che dare diritti, li nega, mentre discrimina fra cittadini.

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Michele Azzu è un giornalista freelance che si occupa principalmente di lavoro, società e cultura. Scrive per L'Espresso e Fanpage.it. Ha collaborato per il Guardian. Nel 2010 ha fondato, assieme a Marco Nurra, il sito L'isola dei cassintegrati di cui è direttore. Nel 2011 ha vinto il premio di Google "Eretici Digitali" al Festival Internazionale del Giornalismo, nel 2012 il "Premio dello Zuccherificio" per il giornalismo d'inchiesta. Ha pubblicato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), scritto insieme a Marco Nurra.
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