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Conflitto Israelo-Palestinese

Perché l’annuncio dell’attacco a Rafah non fermerà i negoziati fra Israele e Hamas

L’annuncio israeliano di un imminente attacco a Rafah, dove vivono 1,4 milioni di palestinesi, è un modo per fare pressione su Hamas affinché accetti le proposte di Tel Aviv su un cessate il fuoco a Gaza.
Intervista a Lorenzo Trombetta
Analista di Limes, corrispondente Ansa e ricercatore con sede a Beirut.
A cura di Davide Falcioni
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Il leader di Hamas Yahya Sinwar e il premier israeliano Benjamin Netanyahu
Il leader di Hamas Yahya Sinwar e il premier israeliano Benjamin Netanyahu
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Dopo il fallimento degli ultimi negoziati per un cessate il fuoco a Gaza il governo israeliano ha approvato all'unanimità il lancio di un'offensiva militare su Rafah, nel sud della Striscia. L'operazione dovrebbe iniziare entro pochi giorni e per questa ragione nelle ultime ore, oltre ad aver condotto i primi bombardamenti, l'aviazione dello stato ebraico ha lanciato centinaia di migliaia di volantini sulla popolazione invitandola ad evacuare Rafah e mettersi in salvo, ben sapendo che si tratta di un'operazione impossibile da portare a termine in pochi giorni per oltre 1,4 milioni di uomini, donne e bambini in un territorio in cui, come ripetutamente dichiarato anche dall'ONU, non esistono zone sicure.

Per questo – come spiega a Fanpage.it Lorenzo Trombetta, analista di Limes, corrispondente Ansa e ricercatore con sede a Beirut – la minaccia di un attacco su larga scala a Rafah potrebbe essere interpretata come uno strumento di pressione verso Hamas, affinché accetti le proposte avanzate da Israele nei negoziati per una tregua.

Lorenzo Trombetta
Lorenzo Trombetta

Dopo aver annunciato un imminente attacco a Rafah l'esercito israeliano starebbe "incoraggiando" i palestinesi a lasciare la città nel sud di Gaza. Qui attualmente hanno trovato rifugio più di 1,4 milioni di persone. L’evacuazione di così tante donne, uomini e bambini è tecnicamente possibile in un arco di tempo di pochi giorni? 

Un'operazione del genere avrebbe senso se venisse condotta in maniera graduale e militarmente studiata, dividendo l'area da colpire in settori. Nei conflitti in contesti urbani le zone vengono solitamente divise in "quadrati" all'interno dei quali si opera, avendo cura di creare dei corridoi di fuga per i civili. Naturalmente un'operazione di questo tipo però non si organizza dall'oggi al domani ed è impossibile mettere in sicurezza un milione e mezzo di persone nel volgere di pochi giorni: servirebbero, piuttosto, delle settimane. E forse a questo punto è opportuno chiarire che quello di Israele non sarà verosimilmente un Blitzkrieg, una guerra lampo a Rafah: occorre dilatare i tempi, immaginare tappe che si susseguiranno fino all'estate inoltrata. E forse, letta in questa ottica, l'operazione di evacuazione della città del sud di Gaza potrebbe essere meno impossibile di quanto non ci appaia ora.

L’ordine di evacuazione di Rafah arriva all'indomani dello "stop" ai negoziati per un cessate il fuoco. Cosa potrebbe accadere ora sul fronte diplomatico? È possibile che dei colloqui tra le parti siano ancora in corso e che la minaccia di attacco a Rafah sia un modo, da parte di Israele, per mettere pressione ad Hamas?

Sebbene ci siano circostanze, come quella attuale, nelle quali le parti annunciano l'intento di ritirarsi dai negoziati i colloqui vanno avanti. Sono infatti diversi i tavoli nei quali si sta trattando: c'è quello a cui partecipano l'Egitto, il Qatar e di tanto in tanto William Joseph Burns, capo della CIA. E questo è il tavolo principale. Ma ce ne sono anche degli altri e lo stesso terreno in cui si combatte è uno di essi. Lanciare volantini sulla popolazione, annunciando al mondo intero l'intento di entrare a Rafah, è un modo per imporre una pressione negoziale, una pressione che però era già iniziata ieri chiudendo Al Jazeera, il più importante canale politico-mediatico del Qatar, il principale mediatore della trattativa in corso. Insomma: l'annuncio di un imminente attacco a Rafah, il lancio di volantini, l'invio di sms alla popolazione e i bombardamenti delle ultime ore vanno letti come strumenti di pressione su Hamas.

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L'annuncio di un'invasione a Rafah potrebbe quindi non costituire la fine del negoziato, bensì un modo per far accettare ad Hamas le proposte israeliane. Tuttavia il partito armato palestinese ha dichiarato che non si accontenta di una tregua temporanea ma pretende la fine della guerra. Come possono conciliarsi posizioni così differenti?

Le posizioni sono molto distanti e sembrano rimanere tali. Dopo il 7 ottobre Hamas si è ritirata in una posizione difensiva, a lei più congeniale: fino a quando i dirigenti del partito non arriveranno alla sconfitta politica e militare di Israele non accetteranno nessuna proposta intermedia, perché non hanno ormai niente da perdere. Bisogna infatti considerare che Hamas non può essere sconfitta militarmente neppure con una prolungata invasione di Rafah. Insomma, il partito palestinese non ha fretta. E non ce l'ha neppure il governo israeliano: affinché possa restare alla guida del Paese Benjamin Netanyahu ha bisogno che la guerra si protragga a lungo. È questa la ragione per cui mantiene una tensione costante tra una possibile tregua e un'invasione su larga scala a Rafah. Insomma: è vero che le posizioni di Hamas e Israele sono distanti, ma è altrettanto vero che entrambi vogliono la stessa cosa, cioè un conflitto lungo che consenta loro di rimanere ben saldi al potere.

Chi potrebbe aver fretta e necessita di una tregua invece è Joe Biden visto che tra sei mesi negli Stati Uniti si voterà e che nel frattempo stanno aumentando le proteste nelle principali università del Paese per il sostegno USA a Israele. Cosa può fare la Casa Bianca, arrivati a questo punto?

La guerra a Gaza ha fatto perdere a Biden molti punti di consenso perché ha messo allo scoperto alcune importanti criticità della politica estera americana, con effetti anche sulla politica interna. La verità, però, è che Washington non ha molte carte da giocare per fare pressione su Tel Aviv perché dal punto di vista strategico gli USA hanno una linea rossa invalicabile: il sostegno al progetto coloniale israeliano è infatti indiscutibile, a prescindere da chi siede alla Casa Bianca, che si tratti di Biden o Trump. Quel progetto fa parte della strategia mediorientale degli Stati Uniti, e li lega anche ad Arabia Saudita ed Egitto. Per questo gli USA potranno al massimo sospendere o ridurre gli aiuti militari ad Israele, ma continueranno ad assecondarne il progetto sionista.

Un'ultima domanda. Hamas ha annunciato che un eventuale attacco israeliano a Rafah avrà importanti conseguenze. Quali potrebbero essere? L’uccisione degli ostaggi?

Quella degli ostaggi è una questione centrale sebbene sembra se ne stiano dimenticando un po' tutti, a partire da Israele: in realtà la situazione a Gaza in questi sette mesi è deteriorata al punto che non è difficile immaginare che, oggi, quegli ostaggi siano ormai purtroppo morti. Questa è una considerazione semplicemente realistica, anche perché al momento non abbiamo informazioni serie ed affidabili sulle condizioni di quelle persone. Quante sono ancora vive? E quali sono le loro condizioni di salute? Chi può garantire che non siano stati uccisi anche loro, magari proprio dai raid israeliani? Questa incertezza è la ragione per cui il tema degli ostaggi resta sullo sfondo; e per questo non credo che la vita di quelle persone, oggi, possa essere un'arma negoziale nelle mani di Hamas. Probabilmente invece gli avvertimenti del partito palestinese potrebbero riferirsi alla sua capacità di riattivare gli alleati regionali: un assaggio di quello che potrebbe accadere se scoppiasse una guerra su larga scala in Medio Oriente l'abbiamo avuto poco meno di un mese fa, con gli atti dimostrativi – per quanto teatrali – dell'Iran e la risposta israeliana. Non è escluso che una grande offensiva su Rafah potrebbe indurre nuovamente Teheran e i suoi alleati ad alzare nuovamente il livello dello scontro con Tel Aviv.

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