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Opinioni
Cambiamenti climatici

Siamo come i tossici, dipendiamo dai combustibili fossili (ma possiamo uscirne)

Viviamo in un mondo in cui sembra impossibile fare a meno dei combustibili fossili, siamo come tossicodipendenti, ma possiamo ancora salvarci.
A cura di Fabio Deotto
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Foto di Sean Gallup/Getty Images
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In pubblico fanno grandi proclami, promettono di smettere, o di ridurne drasticamente l’uso, assicurano di avere un piano d’uscita, di voler pensare al futuro, addirittura promettono di contribuire a rendere il mondo un posto migliore, poi a riflettori spenti firmano licenze per nuove trivellazioni e riaprono centrali a carbone. È il tipo di comportamento che ci si aspetta da un tossicodipendente, non da qualcuno a cui è stato dato mandato di gestire una transizione ecologica. Eppure è questa la tendenza della politica europea e internazionale: slogan altisonanti e grandi promesse a microfoni accesi, ulteriori investimenti nei fossili a microfoni spenti.

Non è un caso che sempre più spesso, nell’affrontare l’incapacità della comunità internazionale di sganciare l’economia globale dai combustibili fossili, si parli di “sistema tossico”, se non di vera e propria “dipendenza”. A ormai tre mesi da quando le truppe di Putin hanno invaso l’Ucraina, le multinazionali del petrolio stanno registrando margini di profitto mai visti, si parla con sempre maggiore insistenza di rigassificazione, e in tutto questo l’Europa fatica a sganciarsi una volta per tutte dalle importazioni di gas russo. Ma la dipendenza nei confronti dei combustibili fossili non riguarda solo l’assetto geopolitico e il potere che i petrostati possono esercitare su di esso. Per due secoli abbiamo incardinato la nostra intera civiltà sulla possibilità di sfruttare carbone, gas e petrolio come carburanti magici capaci di velocizzare processi produttivi e moltiplicare ricchezze astratte, e per molto tempo l’abbiamo fatto senza doverci curare delle conseguenze che il loro consumo comportava per lo stato di salute del pianeta. Il risultato è che ora ci troviamo nella morsa di una sorta di tossicodipendenza per il petrolio. E per uscirne potremmo avere bisogno di una cura Ludovico di burgessiana memoria.

L’oppio degli stati-nazione

L’1 febbraio del 2006, sui quotidiani di mezzo mondo comparvero svariate versioni della stessa vignetta: un’immagine dello Zio Sam con la manica arrotolata sul braccio, un laccio emostatico trattenuto tra i denti e una siringa piena di petrolio ficcata in vena. Il giorno prima, l’allora Presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, durante il discorso sullo Stato dell’Unione, aveva dichiarato che uno dei maggiori problemi americani era la “dipendenza dal petrolio”.

Bush si riferiva alla necessità di trovare soluzioni alternative all’importazione di idrocarburi da “zone instabili del mondo”, ma senza volerlo aveva scoperchiato un tombino: i settimanali e i quotidiani continuarono a pubblicare variazioni della vignetta anche nei mesi a venire, e l’immagine di Zio Sam che si inietta petrolio nell’avambraccio è un simbolo utilizzato ancora oggi, e ancora rilevante per raccontare un sistema tossico.

Perché è vero, gli Stati Uniti, come buona parte del resto del mondo, sono dipendenti dai combustibili fossili, e lo sono da tempi relativamente recenti. Fino alla Rivoluzione Industriale, il petrolio veniva impiegato come medicinale, per ricavare bitume per le lampade, o occasionalmente per creare armi incendiarie; un discorso analogo valeva per il carbone, che veniva utilizzato quasi solo per accendere focolari e bracieri. Con il motore a vapore, e successivamente con il motore a scoppio, la situazione cambiò radicalmente: carbone e petrolio diventarono risorse strategiche, e nel giro di pochi decenni si imposero come fonte energetica irrinunciabile.

Avere a disposizione idrocarburi che bruciavano facilmente e potevano facilmente essere trasformati in energia e prodotti di vario tipo (come la plastica e l’asfalto, per dire), significava poter alimentare una crescita economica impareggiabile e dunque avere un vantaggio enorme nei confronti di chi non ne disponeva. E così, come un tossico mette al centro delle sue preoccupazioni procurarsi la roba, alcune nazioni fissarono come priorità il controllo delle riserve di idrocarburi.

Senza voler scomodare le pur convincenti teorie dell’imperialismo petrolifero, una cosa è certa: carbone, petrolio e gas hanno avuto – e mantengono – un ruolo cruciale nello sviluppo di molte economie nazionali, che non hanno esitato a bruciarne in grandi quantità in quella scellerata corsa alla crescita che tuttora caratterizza l’economia globale. In vista di una necessaria decarbonizzazione del settore energetico e produttivo, è ragionevole aspettarsi che il tentativo di sbarazzarci dei combustibili fossili sarà accompagnato dall’equivalente di una crisi di astinenza. E non vale soltanto, come prevedibile, per tutte le aziende, le banche e i petrostati che tuttora investono centinaia di miliardi di dollari ogni anno nei combustibili fossili, vale anche per chi è nato all’interno di un sistema fossile e ha coltivato in esso la sua idea di benessere.

Liberarsi dei combustibili fossili è come smettere di fumare, o quasi

Nel suo libro "I bugiardi del clima" (Laterza, 2021), la giornalista italiana Stella Levantesi fa emergere gli impressionanti parallelismi tra l’opera di disinformazione portata avanti dall’industria del tabacco negli anni ’50 e quella che l’industria fossile sta alimentando dagli anni ’80. Entrambe le lobby, del resto, avevano un obiettivo simile, ovvero continuare a vendere un prodotto estremamente nocivo, e per farlo avevano bisogno di disinnescare le verità scientifiche che collegavano il consumo di sigarette al cancro e quello di idrocarburi al riscaldamento globale. Per le industrie del petrolio quest’opera di disinformazione ricopre ancora oggi un ruolo cruciale: “Le cinque maggiori compagnie di petrolio e gas – scrive Levantesi – spendono quasi 200 milioni di dollari all’anno per esercitare pressioni al fine di ritardare, controllare o bloccare politiche climatiche.”

Ma c’è anche chi propone di partire da questo parallelismo per trovare una via d’uscita, o quanto meno intaccare la nostra trasversale dipendenza dai combustibili fossili. In un articolato pezzo su EnergyPost, ad esempio, Michael T. Klare suggerisce che dovremmo prendere spunto dalle campagne anti-fumo per combattere il sistema fossile dal basso. “Fu la comunità medica ad agire per prima contro il tabacco, proibendo le sigarette negli ospedali e nelle cliniche. Questi divieti vennero poi estesi alla quasi totalità degli ambienti pubblici e, insieme alle campagne informative, hanno contribuito a ridurre il consumo di tabacco in tutto il mondo" spiega Klare, per poi chiosare proponendo di incorporare ovunque vengano forniti combustibili fossili avvertimenti del tipo "Attenzione: il consumo di questo prodotto incrementa la probabilità di incorrere in ondate di caldo, innalzamento del livello degli oceani e altre minacce per la salute pubblica".

Naturalmente, risoluzioni di questo tipo serviranno a ben poco se non saranno accompagnate da iniziative volte a limitare l’influenza dell’industria fossile sulla politica statale e internazionale. Ma serviranno comunque a metterci di fronte alla realtà: siamo così dipendenti dai combustibili fossili che fatichiamo a immaginarci un mondo che non li preveda.

La pato-adolescenza di chi non accetta limiti

Nel tentativo di spiegare come l’essere umano abbia sviluppato una dipendenza nei confronti dei combustibili fossili (e in generale di qualsiasi tipo di ricchezza accumulabile), lo psicologo americano Bill Plotkin ha coniato il termine "pato-adolescenza", che indica "una patologia che comincia come avidità per poi trasformarsi in accumulo, dominio e violenza". Secondo Plotkin, in sostanza, nelle società occidentali molti individui tendono a raggiungere una maturità fisica senza mai raggiungere quella psicologica. Il risultato è una condizione di adolescenza prolungata, in cui tutte quelle distorsioni che dovrebbero essere transitorie, come il rifiuto della morte, la pretesa di avere tutto e subito, l’incapacità di rinunciare a privilegi dati per acquisiti, diventano costanti che possono durare un’intera vita. E se un individuo pato-adolescente è di fatto un egoista incapace di rapportarsi alle sfide dell’età adulta, una società pato-adolescente finisce per puntellare uno status quo ormai palesemente suicida, negando ostinatamente l’incombere della minaccia esistenziale.

Nel suo saggio "Pensare la fine" (uscito da poco per Meltemi), Marco Pacini dedica ampio spazio a decostruire la nostra incapacità di accettare il concetto di limite: "La stessa parola limite – scrive Pacini – "si presenta ai Moderni come qualcosa di inconcepibile. Non siamo forse figli di Colombo e Magellano, della Rivoluzione scientifica e poi dell’Illuminismo? Non siamo fratelli dell’esplorazione spaziale, della bio-ingegneria, dell’intelligenza artificiale beneficiaria di investimenti illimitati nonostante la non certezza di poterla confinare entro i limiti tracciati da chi la progetta? E in definitiva non siamo padri e figli insieme dei processi globalizzati che si presentano come la rappresentazione ‘plastica' dell’abbattimento dei limiti? […] Certo, lo siamo, tutti: apocalittici e integrati, accelerazionisti e ambientalisti, tecno-critici e tecno-entusiasti, adepti del Pil e predicatori della decrescita".

E allora diventa chiaro come la dipendenza dai combustibili fossili vada a braccetto con un’altra dipendenza, ancora più radicata e pervasiva, quella dal denaro inteso in senso lato (come ricchezza accumulabile e strumento di potere). Di fatto sono entrambe dipendenze strutturali e globali, e sarà impossibile liberarsi di una senza affrontare l’altra. Ma se un’alternativa energetica ai combustibili fossili esiste, ed è pronta a essere implementata, trovare un mezzo alternativo al denaro per regolare le nostre economie sarà assai più complesso. Non basterà trovare una cura Ludovico, insomma. Per superare questa tossicodipendenza, dovremo mettere in discussione un intero sistema.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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