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Opinioni
Cambiamenti climatici

Per uscire dalla crisi climatica dobbiamo sbarazzarci del mito della crescita

Quello della crescita è un imperativo dell’economia moderna, ma questo mito è anche uno dei principali nemici della crisi climatica.
A cura di Fabio Deotto
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Una parte di fioresta Amazzonica bruciata (foto di Victor Moriyama/Getty Images)
Una parte di fioresta Amazzonica bruciata (foto di Victor Moriyama/Getty Images)
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Se anche il mondo sta provando a cambiare passo, riguardo la crisi climatica ed energetica in cui ci troviamo, la direzione continua a essere quella sbagliata. Per rendersene conto è sufficiente dare una scorsa alla proposta di bilancio per il 2023 presentata dal presidente statunitense Joe Biden a fine marzo, che con una mano stanzia fondi per preservare le foreste e facilitare l’adattamento agli eventi estremi mentre con l’altra ne investe molti di più per costruire nuove autostrade e finanziare nuove trivellazioni. Non che il nostro Paese stia facendo di meglio: lo scorso 11 aprile, Mario Draghi ha annunciato che l’Italia riceverà gas dall’Algeria e in cambio investirà nella transizione energetica del paese nordafricano.

Insomma, nonostante tutte le promesse avanzate in sede internazionale, continuiamo a pensare di risolvere la crisi climatica con gli stessi strumenti politici ed economici che l’hanno causata, come un sarto duro di comprendonio che si ostina a voler riparare uno strappo usando solo le forbici. Eppure, un dato incontrovertibile che emerge dall’ultimo rapporto delle Nazioni Unite sul clima, è che le forbici non possiamo più permetterci di usarle: “Per ottenere delle riduzioni significative delle emissioni industriali” si legge nel testo finale “occorre un riorientamento dal tradizionale focus su miglioramenti importanti ma incrementali a cambiamenti trasformativi, in particolare a livello di approvvigionamento energetico e dei materiali.”

Il rapporto, firmato da oltre 240 studiosi provenienti da ogni parte del mondo, contiene anche alcuni spiragli incoraggianti, ad esempio pone l’accento su come negli ultimi dieci anni il costo delle tecnologie rinnovabili sia crollato (nel caso del solare e delle batterie al litio si parla dell’85% in meno), e di come questo ne abbia accelerato l’implementazione in molte parti del mondo. Ma sono appunto spiragli: per scongiurare una crisi climatica catastrofica dobbiamo operare cambiamenti in ogni settore, e la finestra temporale che abbiamo per farlo è strettissima. Dal XX secolo a oggi le emissioni serra non hanno mai smesso di aumentare, ora c’è bisogno di invertire la curva entro il 2025; e non basta che le emissioni comincino a diminuire, devono calare in picchiata.

Cosa significa allora, in questo contesto, che non possiamo risolvere la crisi con gli stessi strumenti economici e politici che l’hanno causata? Significa che dobbiamo cominciare a prendere a martellate alcune colonne portanti di un’idea di mondo che si è ormai rivelata autodistruttiva. A partire dal concetto di "crescita".

La crescita verde non esiste

Nel 1972, un anno prima che i prezzi del petrolio venissero stravolti dalla prima crisi energetica globale, un gruppo di ricercatori del MIT capeggiati da Dennis Meadows sfruttò un modello informatico chiamato World3 per prevedere quanto il nostro sistema economico e produttivo fosse sostenibile. Il modello rivelò che, al ritmo di crescita calcolato, lo sfruttamento delle risorse energetiche e naturali avrebbe portato a un collasso industriale, alimentare, sanitario e demografico entro il 2050.

Poco prima che il mondo venisse effettivamente stravolto dalla pandemia di Covid-19, Gaya Herrington, all’epoca direttrice del settore Sustainability Services alla KPMG, ha condotto uno studio volto a confrontare le previsioni del modello World3 con i dati raccolti negli ultimi 50 anni. Al netto di alcune inevitabili differenze, la progressione calcolata da Meadows e colleghi si rivelava sostanzialmente corretta.

Negli ultimi dieci anni, un ampio ventaglio di organizzazioni, dalla Banca Mondiale all’UNEP, ha indicato come ricetta per mettersi al riparo da questo scenario la cosiddetta “crescita verde” (o “crescita sostenibile”, o “green economy” che dir si voglia), una locuzione che ha il pregio di far presa sia tra chi pone in cima alle priorità globali la crescita economica, sia tra chi antepone a essa la salvaguardia degli ecosistemi. Peccato solo che si tratti di un miraggio.

I fautori della crescita verde, di fatto, sostengono che sia possibile disaccoppiare la crescita economica dall’aumento delle emissioni, a patto di implementare una serie di tecnologie che consentano di decarbonizzare il sistema produttivo e misure che incentivino questa transizione. Diversi modelli, tuttavia, hanno dimostrato che, anche volendo essere ottimisti e immaginare una rapida transizione energetica, questo disaccoppiamento non sarà mai abbastanza veloce da ottenere le riduzioni di emissioni di cui abbiamo bisogno per non incorrere in un riscaldamento globale ingestibile. Ma c’è un problema di fondo ancora più importante, ed è che spesso tendiamo a vedere la crisi climatica come un problema energetico, quando l’energia è solo uno dei fattori coinvolti.

Non è solo una questione energetica

Lo scorso settembre, in un accorato appello sul Guardian, George Monbiot si concentrava su una questione che in apparenza non ha nulla a che fare con l’inconsistenza della crescita verde: il declino nella popolazione della balena franca nordatlantica. All’inizio del 1900 questo animale era sull’orlo dell’estinzione, da quando nel 1935 ne è stata proibita la pesca il numero di esemplari è tornato ad aumentare, da qualche anno però la situazione è di nuovo critica. Se oggi non si contano che poche centinaia di esemplari di balena franca nordatlantica non è perché siamo tornati a cacciarla, ma perché sempre più spesso questi animali rimangono impigliati in reti da pesca o urtati da imbarcazioni in transito. Questo accade perché la preda preferita di queste balene, un minuscolo crostaceo chiamato Calanus Finmarchicus, si sta spostando sempre di più a nord per via del riscaldamento delle acque, portando così le balene sulle rotte delle navi; a ciò si aggiunge il fatto che il Calanus viene sfruttato sempre di più per ottenere olio di plankton artico, un supplemento che viene spacciato per salutare quando di fatto non ha particolari proprietà benefiche. Non bastasse, queste balene si riproducono sempre di meno, probabilmente per colpa del fatto che i sonar e le imbarcazioni interferiscono con il loro sistema di comunicazione.

La storia della balena franca nordatlantica è utile per comprendere la portata e la varietà degli effetti della nostra economia sugli ecosistemi. Se l’attuale crescita economica non è sostenibile, infatti, non è solo per via delle emissioni che comporta, ma anche per il fatto che impone un consumo di risorse naturali non energetiche che è praticamente impossibile riconfigurare.

A fronte di un sempre più diffuso squillare di trombe sulla necessità di rincorrere una crescita verde, nel 2019 Jason Hickel e Giorgos Kallis hanno passato in rassegna più di 200 studi per capire se effettivamente sia possibile non solo disaccoppiare la crescita economica dalle emissioni di CO2 ma anche abbinarla a un consumo “sostenibile” di risorse non-energetiche. Ne emerge che, anche nell’eventualità di impegni virtuosi e rapidi, questo disaccoppiamento è irraggiungibile su scala globale. Può forse essere raggiunto da alcune nazioni ad alto reddito, ma solo a fronte di un’esternalizzazione del comparto produttivo in paesi più poveri.

“È più plausibile che riusciremo a ottenere la necessaria riduzione delle emissioni e dell’utilizzo di risorse senza una crescita economica – scrivono Hickel e Kallis -. Di fatto, non ci sono basi scientifiche per sostenere che la crescita non vada messa in discussione, se il nostro obiettivo è evitare una crisi climatica catastrofica e il collasso ecologico". Per avere un’idea di quanto le affermazioni dei due economisti siano tutt’altro che campate per aria, è sufficiente considerare che, anche se la crescita economica si fermasse ora, l’umanità comunque continuerebbe a consumare ogni 12 mesi il 175% delle risorse che il pianeta è in grado di rigenerare ogni anno. Il disaccoppiamento di cui abbiamo bisogno, dunque, è quello tra economia e crescita. Il che è assai più complicato di quanto si potrebbe pensare. E questo perché l’idea di crescita come obiettivo da rincorrere permea moltissimi aspetti della nostra vita su questo pianeta.

Effetti della deforestazione in Indonesia (foto: Ulet Ifansasti/Getty Images)
Effetti della deforestazione in Indonesia (foto: Ulet Ifansasti/Getty Images)

Non si vive di solo PIL

Che la crescita verde sia un miraggio non è una scoperta recente, gli economisti ambientali insistono su questo punto da decenni, eppure ancora oggi è la crescita economica a dettare le priorità della politica e dei governi. Il metro con cui la qualità complessiva di un’economia viene valutata, solitamente, è il Prodotto Interno Lordo, un indice che per le sfide che già oggi ci troviamo ad affrontare risulta non solo inadeguato, ma persino controproducente.

Bisogna infatti tenere conto del fatto che il PIL fornisce una misura della cosiddetta “economia formale”, ignorando di fatto le componenti naturali, sociali e umane dell’economia di un paese, per non parlare di tutto il sommerso e a quei lavori “informali” che non vengono intercettati dalle misurazioni tradizionali (da quello casalingo alla sharing economy). Ma il problema del PIL non è solo che non tenga conto di aspetti fondamentali della complessa rete di interazioni umane su cui un’economia nazionale pur si basa, ma che finisca in molti casi per incoraggiare approcci e iniziative che sul lungo termine finisco per rivelarsi dannosi per l’economia stessa. Un esempio concreto: in termini di PIL, tagliare un’intera foresta per ottenere legname abbia valore maggiore di tutti i servizi ecologici che quella foresta era in grado di fornire gratuitamente (dal sequestro di carbonio dall’atmosfera, al miglioramento della qualità delle acque, alla protezione in caso di inondazioni, alla tutela della biodiversità di un habitat). Un altro esempio concreto riguarda l’obsolescenza programmata: la realizzazione di prodotti progettati per dover essere sostituiti nel giro di poco tempo ha un effetto sul PIL maggiore di quanto non lo abbia la realizzazione di prodotti progettati per durare.

Negli anni in molti hanno provato a proporre un indice alternativo, che consenta di misurare il progresso in termini più complessi (chi volesse approfondire ne trova un vasto elenco nello studio della Boston University Beyond GDP: The Need for New Measures of Progress). In ogni caso, per affrontare seriamente la questione molto probabilmente non sarà sufficiente trovare un sostituto del PIL, c’è bisogno di mettere in discussione il nostro stesso sistema monetario e l’economia di mercato nel suo complesso.

Come ha bene illustrato sempre Jason Hickel nel libro "Siamo ancora in tempo!", da quanto è stato introdotto lo strumento della riserva frazionaria, il denaro che utilizziamo ogni giorno per le nostre transazioni ci condanna a un’inaggirabile crescita, essendo esso stesso una forma di debito: “Le banche tengono in riserva solo il 10% del denaro che prestano. Questo significa che il 90% del denaro che circola nella nostra economia in questo momento è creato dalle banche commerciali in forma di prestito. In altre parole, quasi ogni dollaro che ci passa per le mani rappresenta un debito. E poiché ogni debito deve essere pagato con interessi, porta in sé un imperativo di crescita".

Di cosa parliamo quando parliamo di sostenibilità

Attenzione, però: la crescita non va demonizzata a prescindere, ma solo in quanto punto di fuga e parametro di valutazione fuorviante e tossico. Per oltre due secoli abbiamo bruciato combustibili fossili senza remore, e questo non ha prodotto solo una ricchezza monetaria, ha anche consentito enormi progressi in campi fondamentali della vita umana. Da più di 50 anni, però, sappiamo che bruciare combustibili fossili comporta un costo ambientale insostenibile, e che l’unico modo per mantenere questo mondo vivibile è lasciarli sottoterra. Le tecnologie rinnovabili hanno compiuto passi da gigante negli ultimi vent’anni, e già oggi sono sufficienti a scongiurare il collasso della nostra civiltà; il problema, per alcuni, è che non sono sufficienti a rendere sostenibile un modello economico incardinato alla crescita.

E allora, oltre a smantellare il mito della crescita, dobbiamo riconfigurare il concetto di “sostenibilità”. Se fino ad oggi gli sforzi si sono mossi nella direzione di rendere sostenibile un modello produttivo e consumistico per sua stessa natura insostenibile, ora è necessario dirigerli verso la creazione di un modello di produzione e di consumo che sia genuinamente sostenibile, e possibilmente anche sganciato dal profitto fine a se stesso. Negli anni ’60, l’economista Kenneth E. Boulding scrisse che “chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un folle, oppure un economista“. All’epoca si poteva ancora fare confusione tra le due categorie, ora la follia è manifesta.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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