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Opinioni

Perché per le mamme italiane non c’è nulla da festeggiare (soprattutto al Sud)

Essere madri non vuol dire solo mettere al mondo un figlio. Vuol dire, soprattutto in Italia, fare i conti con un sistema che è fatto per rendere loro la vita quasi impossibile. Ancora di più, se si parla di Mezzogiorno.
A cura di Maria Cafagna
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Quando si parla di maternità lo si fa quasi sempre in relazione all’aborto, alla contraccezione e alla gestazione come se l’essere madri o in generale essere genitori, si esaurisse col mettere al mondo una nuova vita. Peccato che è proprio a casa di ciò che avviene dopo che, specialmente al sud, stiamo assistendo a quello che in molti definiscono un inverno demografico. Se nel nostro paese nascono sempre meno bambini le cause non vanno ricercate tanto nella possibilità di interrompere la gravidanza – possibilità resa quasi impossibile visto il numero di obiettori di coscienza – ma nella mancanza di servizi per l’infanzia e di tutele per le donne lavoratrici.

Ogni anno Save the Children pubblica un rapporto che fotografa la situazione delle madri italiane prendendo in esame non solo l’andamento delle nascite ma anche quello dei servizi e della situazione lavorativa delle donne. Il rapporto di quest’anno si intitola Le Equilibriste.

Come ampiamente prevedibile, l’epidemia di COVID-19 ha aggravato il già disastroso numero delle nascite nel nostro Paese aumentando i numerosi divari di genere già esistenti tra uomo e donna con ripercussioni ancora più gravi per le madri.

Secondo il rapporto BES – Benessere equo e sostenibile – dell’Istat:“la presenza di figli, soprattutto se in età prescolare, ha un effetto non trascurabile sulla partecipazione della donna al mercato del lavoro […] Riuscire a conciliare lavoro e tempo di vita è un obiettivo fondamentale per il benessere sia degli uomini che delle donne, ma nel nostro Paese si fatica a trovare un equilibrio”(da qui il titolo del rapporto). Insomma, il carico del lavoro domestico e il lavoro di cura di bambini e anziani pesa ancora sulle donne costringendole così a fare i salti mortali per riuscire a conciliare lavoro e vita familiare, un problema che non si pone per gli uomini: secondo le prime stime Istat relative all’occupazione 2021, il tasso di occupazione maschile tra i 15 e i 64 anni si attesta al 67,1%, mentre per le donne scende al 49,4%. Questo significa che meno di una donna su due, in questa fascia d’età risulta occupata a fronte di due uomini su tre, e che il divario da colmare è di 17,7 punti nella media nazionale.

Ma per inquadrare meglio la disparità di genere tra uomini e donne bisogna scorporare il dato nazionale e guardare la differenza tra Nord e Sud: se infatti il divario tra occupazione maschile e femminile è di 14,2 punti al Nord e di 14,9 al centro, nel Mezzogiorno raggiunge i 23,8 punti percentuali. In pratica al Sud risulta occupata appena una donna su tre.

Nel rapporto di Save the Children si legge che secondo il CNEL la causa di questa situazione è riconducibile a:”ruoli sociali stereotipati, discriminazioni (coscienti o meno), segregazione professionale, che concentra le donne in determinati settori lavorativi – e che le donne nel mercato del lavoro sono – le ultime ad entrare, le prime ad uscire”.

Se in tutte le classi di età il tasso di disoccupazione femminile risulta più alto di quello maschile, ultimi tra gli ultimi sono sempre i giovani: nella fascia di età 15-24 anni si registrano i tassi di disoccupazione maggiori e nel nostro paese si registra il tasso di inattività più alto d’Europa.

Anche qui la percentuale di donne disoccupate e inattive è maggiore di quella degli uomini e se si guarda alle motivazioni di chi si trova in questa condizione, i motivi familiari vengono al primo posto per una donna su tre e solo per il 2,9% degli uomini.

Nel rapporto di Save the Children si legge che diversi studi confermano che se già prima di mettere su famiglia le donne guadagnano meno degli uomini a parità di mansioni, con l’arrivo di un figlio la situazione peggiora.

Nonostante si registri una leggera crescita generale dell’occupazione, le donne hanno per lo più contratti a tempo determinato, part-time o stagionali. Questo vuol dire che le donne sono più precarie, guadagnano meno e che in generale sono impiegate in mansioni di minor profilo, quindi con minori possibilità di specializzarsi e di fare carriera. Bisogna poi tenere conto che secondo gli studi raccolti da Save the Children, per circa sei donne su dieci il part time è una condizione subita e non una scelta.

C’è poi la questione delle dimissioni: si è molto discusso di quel fenomeno che ha visto sempre più persone lasciare il proprio posto di lavoro dopo la pandemia, ma anche qui il divario di genere si fa sentire. Se si va a guardare il biennio 2019-2020 le cessazioni dal rapporto di lavoro riguardano in prevalenza gli uomini, che sono il 54-55% del personale interessato, ma se guardiamo il dato  che riguarda le dimissioni di lavoratrici madri e lavoratori padri la proporzione si inverte: i provvedimenti di convalida interessano lavoratrici madri nel 72,9% dei casi nel 2019 e nel 77,4% dei casi nel 2020.

Sul complesso delle 50.616 motivazioni indicate dalle persone che hanno presentato le dimissioni, quella più frequente è la difficoltà di conciliazione della vita professionale con la cura dei figli, ma sulle oltre 19 mila segnalazioni di difficoltà di conciliare lavoro e famiglia ben il 98% proviene da donne mentre per gli uomini la motivazione di gran lunga prevalente è il passaggio a un’ altra azienda.

Nell’ultimo report della Commissione Europea (gennaio 2022) dedicato alla prima infanzia, si legge che: “la disponibilità di servizi socio-educativi per la prima infanzia favorisce l’occupazione delle madri e questo, a sua volta, riduce il gap salariale di genere” e per questo il governo si è impegnato a destinare buona parte del PNRR alla costruzione di nuovi asili nido. Purtroppo anche sulla spesa dei Comuni per bambino 0-2 anni il divario Nord-Sud si fa sentire: si passa infatti dai quasi 2000 euro pro-capite in EmiliaRomagna ai 149 euro della Calabria.

Come dimostrano questi dati il problema continua a essere prevalentemente culturale. In generale è la donna a doversi sobbarcare il lavoro domestico, la crescita dei figli e la cura delle persone anziani e anche laddove la collaborazione c’è, il carico di lavoro è ancora squilibrato ai danni delle donne. “Rinunciare alle competenze, al talento e alle energie delle donne e non sostenere la natalità sta bloccando la crescita di molti Paesi, tra cui l’Italia” si legge nel rapporto di Save the Children. A questo bisogna aggiungere che una donna più sola e più povera è più soggetta al ricatto di una relazione violenta o infelice, per questo è necessario lavorare in sinergia tra associazioni, scuola e istituzioni per consentire alle donne di avere tutti gli strumenti possibili per autodeterminarsi. E se questo vale in generale, se guardiamo ai dati del Sud il quadro prende i contorni dell’emergenza: occorre dunque agire e farlo subito, solo allora potremmo festeggiare davvero la festa della mamma.

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Maria Cafagna è nata in Argentina ed è cresciuta in Puglia. È stata redattrice per il Grande Fratello, FuoriRoma di Concita De Gregorio, Che ci faccio qui di Domenico Iannacone ed è stata analista di TvTalk su Rai Tre. Collabora con diverse testate, ha una newsletter in cui si occupa di tematiche di genere, lavora come consulente politica e autrice televisiva. -- Maria Cafagna   Skype maria_cafagna
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