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Uccise la moglie a Sestri Levante, per i giudici Bregante “doveva andarsene da quell’inferno quotidiano”

Gian Paolo Bregante, ex comandante di navi, è stato condannato a 15 anni per l’omicidio della moglie Cristina Marini avvenuto nel settembre del 2024 a Sestri Levante, vicino Genova. Per i giudici non agì per provocazione ma per “peccato d’orgoglio”: logorato da una convivenza divenuta “inferno”, scelse di “‘mettere in salvo’ la donna dal naufragio del loro rapporto uccidendola, invece di consentirle di continuare a vivere senza di lui”.
A cura di Biagio Chiariello
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Gian Paolo Bregante
Gian Paolo Bregante

Lo scorso luglio la Corte d’Assise di Genova ha condannato Gian Paolo Bregante, ex comandante di navi di 72 anni, a 15 anni di reclusione per l’omicidio volontario della moglie, Cristina Marini, uccisa il 19 settembre 2024 nella loro casa di Sestri Levante. Nelle 72 pagine di motivazioni, i giudici – presieduti da Massimo Cusatti – ora hanno spiegato perché all’uomo non sia stata riconosciuta l’attenuante della provocazione: non agì spinto da un impulso improvviso, ma per “peccato d’orgoglio”, dopo anni di una convivenza diventata insostenibile.

Il contesto e la dinamica dell’omicidio di Sestri Levante

Secondo quanto ricostruito in aula, quel giorno l’ennesimo litigio tra i due coniugi, già logorati da anni di tensioni, sarebbe degenerato rapidamente. Le immagini della telecamera interna mostrano che la discussione era nata da un motivo banale – le scarpe sporche lasciate sul balcone – e che, contrariamente alla versione iniziale di Bregante, non era stata la moglie ad aggredirlo per prima.

Lei gli aveva bloccato il passaggio e lui l’aveva spinta via, ricevendo in risposta un morso al braccio che gli aveva provocato un’abbondante ferita. A quel punto, mentre la donna continuava a insultarlo dalla cucina, l’uomo aveva preso la pistola regolarmente detenuta e le aveva sparato un colpo alla testa. Poi aveva chiamato i carabinieri, confessando l’accaduto.

Un matrimonio trasformato in “un vero e proprio inferno”

Dalle motivazioni emerge la convinzione dei giudici che la coppia vivesse ormai in un clima di tensione cronica e reciproca intolleranza, aggravato dalla depressione della donna, che rifiutava di curarsi, e dal carattere rigido e autoritario dell’ex comandante. "Il limite dell’imputato – scrivono – è stato quello di presumere di riuscire a resistere ancora a quella convivenza forzata: ma questo peccato d’orgoglio pare il sintomo di una debolezza caratteriale mascherata da quella sicumera impostagli da anni di esercizio del suo ruolo professionale di “comando”".

Cristina Marini
Cristina Marini

Il giudice Cusatti definisce la loro casa “un vero e proprio inferno”, da cui l’uomo avrebbe dovuto andarsene invece di restare intrappolato in una guerra quotidiana. "Avrebbe dovuto liberarsi della pistola che teneva in casa – si legge –. Invece ha scelto di conservare una bomba innescata a pochi passi dalla sede di un incendio".

I due errori fatali di Bregante

Per la Corte, Bregante ha commesso due gravi errori di valutazione. Il primo è stato “sopravvalutare se stesso e la propria capacità di sopportazione” di fronte alle umiliazioni che la moglie gli riservava, comportamento esasperato dalla malattia e da un’ossessione crescente per la pulizia. «La moglie – si legge – ha manifestato un vero e proprio fastidio fisico e psichico per la presenza del marito, quasi ridotto al rango di mero produttore di biancheria sporca, rifiuti e sporco da rimuovere con fastidio».

Il secondo errore, altrettanto decisivo, è stato “sottovalutare la situazione e la propria capacità di stare al ponte di comando”: l’uomo, abituato a gestire l’equipaggio con fermezza, non ha saputo riconoscere la “valenza tossica e distruttiva di quella convivenza patologica” e non ha avuto la lucidità di allontanarsi né di disfarsi dell’arma che avrebbe poi usato.

Il gesto di un "uomo logorato e fiaccato nell’animo"

Secondo la Corte, l’omicidio è stato il gesto di un uomo logorato e fiaccato nell’animo, non spinto da un movente perverso ma dalla sua incapacità di accettare la sconfitta. "Bregante s’è determinato a uccidere non già per un qualche movente odioso, ma perché logorato dalla presa d’atto della propria impotenza di fronte alle condizioni realmente insopportabili in cui la malattia psichica aveva fatto precipitare sua moglie".

La sentenza descrive un gesto di “orgoglio distorto”: quello di un uomo convinto di dover restare “al comando” fino alla fine, come un capitano che non abbandona mai la nave. "Era forse troppo condizionato dal dovere ineludibile di lasciare il natante affidato alle sue cure soltanto dopo che anche l’ultimo passeggero l’avesse abbandonato", scrivono i giudici, aggiungendo che “il modo quasi istrionico che Bregante ha scelto per ‘mettere in salvo’ la moglie dal naufragio del loro rapporto è stato quello di ucciderla, invece di consentirle di continuare a vivere senza di lui”.

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