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Orfani di femminicidio, come cambia la vita dei figli e perché è necessario dire la verità ai bambini

Il 25 novembre è il giorno dedicato all’eliminazione della violenza sulle donne. Per ogni donna che viene uccisa, spesso restano dei bambini che perdono la madre e a volte anche il padre. Cosa succede dopo il dramma e chi si prende cura delle loro vite stravolte? Fanpage.it ne parla con il responsabile del progetto Respiro.
Intervista a Fedele Salvatore
Responsabile progetto Respiro (Rete di sostegno per percorsi di inclusione e resilienza con gli orfani speciali)
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Immagine di repertorio
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Quando sentiamo di famiglie spezzate, donne ammazzate, spesso uccise dall'ira insensata di un marito o compagno, è inevitabile pensare a chi resta. Gli orfani di femminicidio sono i migliaia di bambini, adolescenti che da un momento all'altro si ritrovano soli, negati dell'affetto della propria madre se non di entrambe le figure di riferimento.

Spenti i riflettori sulla cronaca, cosa succede nelle loro vite stravolte? Chi si prende cura dei propri traumi? Ma soprattutto, come gli verrà spiegato, ammesso che ci sia un modo meno doloroso per farlo, il perché di così tanta sofferenza?

In Italia non esistono elenchi precisi dei numeri ufficiali di queste vittime speciali, secondo alcune stime fornite dai quattro progetti nazionali finanziati da "Con i bambini", associazione che si occupa di contrastare la povertà educativa minorile, sono 157 gli orfani presi in carico in tutto il Paese.

La percentuale più alta si concentra al Sud, qui fa capo il progetto Respiro, acronimo di Rete di sostegno per percorsi di inclusione e resilienza con gli orfani speciali, attivo nel meridione e nelle isole, che si dedica ai figli delle vittime di femminicidio e a quelle di crimini domestici, offrendo un percorso di sostegno.

Dall'inizio dell'anno sono state uccise 105 donne e tanti sono i figli rimasti senza madre e padre. Nella giornata dedicata all'eliminazione della violenza contro le donne, Fanpage.it ha affrontato la questione con il responsabile del progetto nazionale, Fedele Salvatore.

Fedele Salvatore, responsabile del progetto Respiro
Fedele Salvatore, responsabile del progetto Respiro

Due anni fa partiva il progetto, di quanti bambini vi siete occupati fino ad oggi?

In Italia meridionale abbiamo censito circa 305 orfani e l'abbiamo fatto attraverso il modo più banale ma allo stesso tempo anche più utile e cioè osservando la cronaca degli ultimi quindici anni. In questo modo siamo riusciti ad identificare bambini e ragazzi under 21, di questi un'ottantina è rimasta solo identificata in quanto ne si sono perse le tracce ma anche perché spesso servizi sociali e famiglie hanno scelto di non usufruire del nostro sostegno. In linea generale, possiamo dire che il progetto si è incaricato effettivamente di un centinaio di orfani.

Cosa succede una volta identificati i figli delle vittime? Che tipo di percorso inizia per loro?

Il percorso ha la durata di quattro anni e consiste in diverse azioni e possibilità: innanzitutto, la presa in carico dal punto di vista clinico e terapeutico sia dei bambini che dei loro caregiver, che spesso sono i propri nonni. In questi due anni abbiamo messo su una sorta di equipe di emergenza, la quale interviene nei primissimi momenti dopo il dramma, talvolta arrivando sul posto per occuparsi nell'immediato dei bambini.

Ciò che preoccupa è il fatto che spesso gli orfani rischiano di essere solo un effetto collaterale dei femminicidi, in quanto l'attenzione, come è ovvio che sia, è concentrata sull'evento delittuoso, sulle indagini, sul dolore della famiglia che perde una figlia, finendo per trascurare il ruolo dei bambini che proprio in quei giorni necessitano di un'attenzione specifica.

Il progetto dunque offre un modello di intervento costituito da una serie di figure tutte altamente specializzate sul lavoro sul trauma, come psicologi, psicoterapeuti, assistenti sociali, educatori, tutor di resilienza. Persone che li seguono passo passo attraverso una serie di incontri e che si occupano anche di aspetti meno intuibili come ad esempio il rientro a scuola dopo la tragedia, il dover affrontare gli amici.

Una serie di professionisti capaci di comunicare con i ragazzi nel giusto modo a partire dalla comunicazione della notizia.

Partendo proprio da quest'ultima, in che modo viene gestita?

Partiamo dal fatto che nella stragrande maggioranza dei casi, i familiari ritengono sia più opportuno dire una pietosa bugia che la verità. Nella mia esperienza ricordo che ad alcuni bambini fu detto che la madre aveva avuto un incidente in auto o simili, nonostante i figli fossero presenti al momento del delitto o avessero ben contezza di quello che fosse successo.

Ma ricordo anche il caso di un ragazzo che aveva visto il padre far rientro dalla nonna con le mani insanguinate e quest'ultima gli aveva spiegato che i genitori in realtà avevano avuto un incidente, durante il quale era morta solo la madre. Tutto ciò ritengo sia inadeguato perché produce nei bambini una dissociazione emotiva e psicologica dovendo reggere la bugia pur essendo perfettamente consapevoli della verità.

Non esistono parole adeguate per comunicare una notizia del genere, queste vengono ricercate di volta in volta. Per quanto si possano edulcorare, credo che la cosa più importante sia dire la verità senza troppi giri. In molti casi, anche se si continua ad insistere sulla natura del raptus che colpisce alcuni uomini, in realtà i ragazzi si dimostrano preparati proprio perché coscienti delle dinamiche familiari.

In ogni regione sono presenti una o due equipe che si occupano proprio di questo e sono formate perlopiù da psicologi, psicoterapeuti, educatori ma anche figure legali. Tutti gli operatori hanno frequentato dei corsi di formazione ad inizio progetto volti proprio all'approccio al trauma e continuano a lavorare anche su se stessi attraverso una serie di incontri con esperti internazionali.

Respiro si occupa non solo di orfani di femminicidio, ma anche delle vittime di crimini domestici. C'è un caso che l'ha colpita più di tutti?

Sì e risale all'estate scorsa, si tratta di un uomo ucciso, fatto a pezzi dalla moglie e dai figli. La donna aveva sopportato per anni le violenze del marito e quindi con l'aiuto dei ragazzi si è macchiata di questo crimine. Poi c'è da fare anche il discorso sui casi limite, come ad esempio quelli in cui la donna è vittima di un tentato omicidio e quindi resta invalida, in coma, mutilata. In tutti questi casi, per legge, i figli non sono orfani e non hanno diritto agli aiuti, seppur con bisogno di supporto.

Tra i più gravi ci sono poi anche quelli che riguardano la scomparsa di numerose donne. I figli non sono effettivamente orfani ma si trovano comunque di fronte a una tragedia per la quale bisognerebbe prestargli conforto e aiuto. Purtroppo non sono inquadrabili dal punto di vista normativo.

Trascorsi i quattro anni, che tipo di rapporto si instaura con i ragazzi? Quali sono gli obiettivi futuri?

È un legame speciale quello che ci unisce, ci sono numerosi casi di grande rilevanza mediatica di cui mi sono occupato e con le cui famiglie coinvolte, ho stretto un fortissimo rapporto. Con alcuni siamo diventati amici. Il progetto dura quattro anni è vero, ma la nostra speranza è che possa crescere sempre di più l'attenzione sugli orfani. Ci auguriamo che sia lo Stato in primis a mettere a disposizione persone e risorse affinché non si tratti di un intervento straordinario.

Attualmente stiamo lavorando su tanti aspetti, in particolare su quello della prevenzione. Stiamo preparando per tutte le regioni italiane circa 400 laboratori scolastici, attivati nelle varie tipologie di scuola, primaria e secondaria di primo e secondo grado. Tratteranno chiaramente il tema della prevenzione della violenza, con i più piccoli ci soffermeremo sull'educazione affettiva e comprensione del pericolo. Sugli adolescenti, data l'età, ci impegneremo più specificamente sulla violenza di coppia.

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