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Lo Stato presenta il conto alla famiglia di Totò Riina: “Due milioni per le spese del carcere”

Ai familiari del capo dei capi di Cosa Nostra è stata notificata da Riscossione Sicilia una cartella esattoriale di circa due milioni di euro. Arrestato nel 1993, Totò Riina è morto il 17 novembre 2017, dopo ventiquattro anni di detenzione in regime di 41 bis. L’avvocato: “A noi sembra una boutade”.
A cura di Susanna Picone
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Ai familiari del boss Totò Riina arriva il conto da pagare. Ai parenti del padrino di Cosa Nostra, morto il 17 novembre del 2017, è stata notificata da Riscossione Sicilia una cartella esattoriale di circa due milioni di euro per le spese sostenute per il mantenimento in carcere del capo dei capi. Ad attivare la procedura di recupero del credito sarebbe stato, attraverso il ministero della Giustizia, il carcere di Parma, ovvero l’ultimo istituto penitenziario in cui Riina è stato detenuto. “A noi sembra una boutade perché la legge esclude espressamente che il rimborso per le spese di mantenimento in carcere si estenda agli eredi del condannato. Perciò stiamo studiando bene la questione per vedere in che termini è”, il commento arrivato da parte del legale della famiglia di Totò Riina, l’avvocato Luca Cianferoni. Totò Riina, arrestato il 15 gennaio del 1993 dopo 23 anni di latitanza, ha trascorso ventiquattro anni della sua vita in cella al 41 bis, fino al decesso avvenuto a Parma nel novembre del 2017.

Cosa prevede la norma – La norma relativa al rimborso per le spese di detenzione prevede, con l’articolo 188 del codice penale, che “il condannato è obbligato a rimborsare all'erario dello Stato le spese per il suo mantenimento negli stabilimenti di pena (145 n. 2; c.p.p. 692, 535) e risponde di tale obbligazione con tutti i suoi beni mobili e immobili, presenti e futuri, a norma delle leggi civili (c.c. 2740)”. Al secondo comma il codice penale dispone che “l'obbligazione non si estende alla persona civilmente responsabile e non si trasmette agli eredi del condannato”. Viene quindi spiegato nelle note che “nel caso il condannato versi in disagiate condizioni economiche e abbia tenuto regolare condotta, può fruire del beneficio della remissione del debito, intesa come rinunzia dello Stato al suo diritto di credito, secondo quanto previsto dalle norme sull'ordinamento giudiziario (art. 56, l. 26 luglio 1975, n. 354)”.

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