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Opinioni

Leslie Kern a Fanpage.it: “Il futuro delle città? È a misura di donna”

Intervista alla geografa americana Leslie Kern, esperta di politiche urbane e di studi di genere: “Oggi le città sono disegnate da maschi per i maschi. Cambiare i nomi alle vie? Serve poco senza bagni pubblici nei parchi e trasporti a misura di donna. La pandemia e lo smartworking? Se non cambiano le città, per le donne sarà ancora peggio”.
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New York in crisi, coi prezzi degli affitti che crollano, gli uffici vuoti, i ristoranti che chiudono e la gente che scappa. O, per restare più vicini a casa, le paure di Milano, il cui sindaco Beppe Sala, senza fiere, eventi e pendolari che lavorano, che invoca la fine dello smartworking per far battere scontrini ai ristoratori, ai commercianti e ai tassisti. Due esempi su tanti che raccontano una delle crisi meno annunciate del 2020: quella delle metropoli, assolute protagoniste dell’inizio di millennio e messe in ginocchio dal Coronavirus. Il dibattito infuria tra chi pensa sia un effetto transitorio della pandemia, e chi invece preconizza un declino inesorabile della vita metropolitana. E poi c’è chi, come Leslie Kern, pensa che le città debbano semplicemente cambiare per sopravvivere e prosperare.

Professoressa di geografia e ambiente e direttrice degli studi sulle di genere all università canadese Mount Allison, Kern ha scritto recentemente un libro intitolato proprio “Feminist City: claiming space in a male made world” che in Italia ancora non è stato pubblicato, e che affronta proprio il tema di come le città debbano cambiare per essere davvero a misura delle donne, e di come questo migliorerebbe la qualità della vita di tutti. Un discorso ancora più attuale, in epoca di smart working e vite sempre più flessibili, perché si intreccia con l’idea di città da 15 minuti – in cui tutto è accessibile in breve tempo – lanciata dalla sindaca di Parigi Anne Hidalgo e ripresa come suggestione anche dal sindaco di Milano stesso. E proprio a Milano, alla Triennale, invitata dal gruppo Sex and the City, Kern ha tenuto un discorso nell’ambito del ciclo di incontri Milano Urban Center – Idee per Milano 2020 all’interno del programma di Triennale Estate.

Da dove cominciamo, professoressa Kern?

Per prima cosa, dobbiamo riconoscere che le città in cui viviamo oggi sono progettate da maschi per i maschi. Meglio ancora, per un certo tipo di maschio abituato a muoversi tutte le mattine da casa al lavoro, e a tornare a casa la sera. Per secoli – e fino a oggi – nessuno si è accorto che per le donne il movimento all’interno delle città era diverso, e molto più complicato.

Perché per le donne le nostre città sono più complicate?

Perché le donne fanno due lavori: uno pagato e uno non pagato. Una donna oggi deve fare i salti mortali per lavorare, fare la spesa, portare a scuola i bambini e riprenderli, tornare a casa a fare da mangiare. La mole di lavoro pagato e non pagato, assieme, è enorme. E una città disegnata per l’uomo che pendola tra casa e ufficio di sicuro non la aiuta.

Un esempio?

La donna vive la città in modo più comunitario, ad esempio. Conosce i vicini perché ha bisogno di loro, o le mamme degli altri bambini al parco giochi. Crea naturalmente una famiglia estesa attorno a sé, per necessità o virtù. E anche in questo le città per come sono disegnate oggi non aiutano minimamente questo tipo di socialità.

A cosa pensa, quando parla di scarso investimento nella socialità?

Penso a quanto poco si è investito nel trasporto pubblico, ma anche a quanto sia disfunzionale una città costruita per compartimenti stagni: il quartiere residenziale è qui, gli uffici sono lì, il supermercato è lì, le scuole sono lì. Tutto è separato. Pochissimo è combinato in spazi tali da essere raggiungibile in quindici minuti a piedi o in bicicletta. Provate a fare una prova con la vostra vita.

Obiezione: il problema non è la città. Il problema è che tutto il lavoro di cura è demandato alle donne…

Certamente, queste attività dovrebbero essere svolte anche dai maschi. Ma il messaggio è ancora più sottile. Le città disegnate per i maschi dicono alle donne che non sono le benvenute nello spazio pubblico, che devono tornarsene a casa, che stanno meglio lì, che sono più sicure lì. Città come quelle che viviamo ora sono un vero e proprio ostacolo all’emancipazione femminile.

Come mai?

Basti pensare, banalmente, a quanta energia le donne debbano dedicare in più degli uomini per svolgere tutte le attività extra-lavorative che svolgono. A quanti marciapiedi manchino per camminare spingendo un passeggino. A quanti pochi bagni pubblici con fasciatoio ci siano in giro per le città. Aggiungiamo anche il dettaglio che molti spazi urbani non sono sicuri per le donne e limitano ulteriormente i loro movimenti, o creano percorsi obbligati che magari non sono nemmeno i più veloci o i più agevoli.

Lei crede che cambiando le città si può cambiare la società?

Io non credo che cambiando le città si cambi automaticamente la società. Ma sono convinta che sia un modo importante per affermare a chi appartiene lo spazio pubblico, quali siano le priorità. Cambiare il nome di una via, o sostituire una statua di un uomo con quella di una donna è un gesto simbolico che ha valore, ma avrebbe ancora più valore se ciò accadesse in una città con bagni pubblici di qualità, con i fasciatoi. O in una città che riorganizza il suo trasporto pubblico assumendo come prioritarie le esigenze delle donne.

Mi può fare qualche esempio di città femminista?

A Vienna c’è Aspern Seestadt, un quartiere abitato da 20mila persone, una città nella città, che è stato progettato tenendo da conto come prioritarie le esigenze delle donne. È un quartiere in cui tutte le strade hanno nomi di donne, ma soprattutto è uno dei quartieri con i più alti livelli di qualità della vita al mondo. Più in generale, Vienna è una città pioniera del cosiddetto “gender mainstreaming”, che è il termine tecnico con cui definiamo una città femminista.

Cioè?

È una pratica amministrativa che assicura alle donne e agli uomini la medesima importanza nelle scelte urbanistiche e nel budget allocato. Qualunque sindaco volesse creare una città a misura delle donne dovrebbe partire da lì. È la cosa più vicina alla città da 15 minuti in cui Anne Hidalgo vorrebbe trasformare Parigi: ci sono complessi residenziali in cui sono incluse scuole e negozi, e trasporti pubblici estremamente efficienti che collegano ciò che vicino non riesce a essere.

Le resistenze a una città femminista quali sono, secondo lei? Che complica la vita ai maschi? Che ne ridefinisce il ruolo sociale?

Attenzione: una città femminista non complica la vita ai maschi. Ad esempio, rende più semplice ai maschi la cura dei figli, e quindi offre loro l’opportunità di occuparsene. Allo stesso modo, una rete di trasporto pubblico efficiente e distanze ridotte tra casa e lavoro, evitano ai maschi la tortura di rimanere imprigionati per ore nel traffico delle tangenziali, dando loro più spazio per coltivare hobby e amicizie. Diverse ricerche mostrano che gli uomini tendono a invecchiare soli, proprio perché non contemplano una vita sociale all’esterno del loro lavoro.

Il lockdown e la pandemia di Coronavirus hanno aperto un’enorme discussione sul ruolo delle città, e su come dovrebbero cambiare. In teoria, una città in cui c’è smartworking e una maggior flessibilità nei tempi da dedicare a famiglia, lavoro e tempo libero è una città che si dovrebbe avvicinare a un modello come quello che ha in mente lei…

Sì, ma solo in teoria. In pratica, il lockdown ha reso ancora più dura la vita per le donne.

Come mai?

Banalmente, perché sono loro a doversi occupare di tutto, dalla didattica dei figli, dalle mutate esigenze di igiene personale. Un mondo più flessibile, con lo smartworking, può essere migliore per le donne se il lavoro di cura viene equamente distribuito. E se le città vengono progettate in funzione di esso.

In che modo?

Ad esempio, lo smartworking non deve essere lavoro da casa, ma l’occasione per reclamare quello spazio pubblico che è stato occupato da strade e autostrade, o privatizzato in favore di grandi supermercati e grattacieli aziendali per farne spazi di mobilità sostenibile e di nuova socialità urbana.

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Francesco Cancellato è direttore responsabile del giornale online Fanpage.it. Dal dicembre 2014 al settembre 2019 è stato direttore del quotidiano online Linkiesta.it. È autore di “Fattore G. Perché i tedeschi hanno ragione” (UBE, 2016), “Né sfruttati né bamboccioni. Risolvere la questione generazionale per salvare l’Italia” (Egea, 2018) e “Il Muro. 15 storie dalla fine della guerra fredda” (Egea, 2019)
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