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I banditi del sapere dell’Università di Catania

Ciò che turba più di tutto è come il malaffare sia figlio di un quadro normativo che rende possibili e quasi legali queste pratiche indegne. E che tutto questo avvenga nel luogo che dovrebbe essere la massima rappresentazione della cultura e del sapere sottolinea come questo Paese sia incrostato dai potentati e dalle baronie in tutti i suoi settori.
A cura di Giulio Cavalli
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Viene la pelle d'oca a leggere i verbali dell'operazione "Università bandita", dove ne esce un'università (quella di Catania) che è il cenacolo di una banda di amichetti intenti a sistemarsi e a sistemare i propri compari. Che i bandi universitari siano spesso un "taglia e cuci" a disposizione del familismo accademico è cosa ormai pubblica da tempo (l'anno scorso a Firenze, ci fu un'indagine simile) ma ciò che turba più di tutto è come il malaffare sia figlio di un quadro normativo che rende possibili e quasi legali queste pratiche indegne. E che tutto questo avvenga nel luogo che dovrebbe essere la massima rappresentazione della cultura e del sapere sottolinea come questo Paese sia incrostato dai potentati e dalle baronie in tutti i suoi settori.

Prendete il caso di Vincenza D'Agata, candidata al concorso di professoressa di prima fascia in Anatomia. D'Agata in città è un cognome che conta, il padre Vincenzo è l'ex procuratorie di Catania: ci sono coinvolte persone che dovrebbero essere classe dirigente nel settore della Giustizia e del Sapere. Per fare ottenere il posto a Vincenza D'Agata viene costruito un bando su misura modificando i criteri di assegnazione del posto ma la presenza di un altro candidato che rientra nei parametri e che dovrebbe meritare di più della figlia dell'ex procuratore manda in subbuglio il piccolo clan affaristico tanto da spingere il direttore di dipartimento (secondo quanto raccontato da Sergio Castorina, l'altro papabile candidato) a spingere perché si ritiri. Badate bene: non ci sono minacce, solo promesse. "Nel giro di sei mesi sistemo tutto e ti bandisco un altro posto, sono io d'accordo con il Rettore", dice il direttore di dipartimento. E in questa frase c'è tutta la facilità con cui viene aggirato il merito e vengono calpestate le regole.

Però non si può negare che il disastro accade anche perché il quadro normativo sulle università italiane non è all'altezza del cambiamento da tempo: la legge Gelmini del 2010 ha assegnato a Rettori e Direttori Generali un ampio potere manageriale che li rende capi incontrastati e assoluti. Mica per niente l'inchiesta di Catania nasce proprio dagli screzi di queste due figure, onnipotenti e onnipresenti nelle scelte dell'ateneo. Il Senato Accademico negli anni è stato svilito a semplice organo di ratifica: ora conta semplicemente assicurarsene una comoda maggioranza per potere agire senza problemi. L'autonomia universitaria (che sta nelle legge dell'ex ministro Berlinguer) ha favorito le logiche localistiche rispetto ai concorsi nazionali.

È, insomma, un quadro complesso che richiede complesse soluzioni che devono per forza andare oltre agli semplici slogan. Che le denunce al sistema universitario italiano sono cicliche e molteplici: sono quasi nove anni che nella vicina università di Palermo ad esempio si è suicidato Norman Zarcone, il giovane dottorando schiacciato proprio dal peso delle baronie e delle logiche familistiche. «La morte non fa più notizia se non c’è dietro un fatto scabroso, contorsioni sentimentali, perversioni mentali o uno dei valori-cornice di questa società che non premia i talenti, sbeffeggia le ambizioni e insulta i sogni», disse qualche mese fa il padre di Norman. E viene difficile non dargli ragione.

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Autore, attore, scrittore, politicamente attivo. Racconto storie, sul palcoscenico, su carte e su schermo e cerco di tenere allenato il muscolo della curiosità. Collaboro dal 2013 con Fanpage.it, curando le rubriche "Le uova nel paniere" e "L'eroe del giorno" e realizzando il format video "RadioMafiopoli". Quando alcuni mafiosi mi hanno dato dello “scassaminchia” ho deciso di aggiungerlo alle referenze.
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