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Caro Di Maio, se non favorisce i ricchi non è una flat tax

Finita la pacchia vacanziera di una propaganda tutta imperniata su migranti, disperati, uomini neri e allarmi senza riscontro ora il governo si ritrova a governare sul serio e si ritrova di fronte a tutte le contraddizioni rimaste finora sopite: Di Maio ha scelto come alleato (o si è ritrovato a dover scegliere) un partito berlusconiano nella concezione economica del Paese. Se ne faccia una ragione. Ora non basta apparecchiare un po’ di furba comunicazione spolverata di indignazione: le tasse, piaccia o no a Di Maio, sono numeri, mica sensazioni.
A cura di Giulio Cavalli
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«La flat tax è una bufala. Sarebbe infatti il caso di chiamarla “flop tax”. […] vediamo in cinque punti perché applicarla sarebbe pura follia: E' incostituzionale perché non progressiva….»

La bocciatura, netta, arriva direttamente dal profilo Facebook del vicepresidente del consiglio Luigi Di Maio che in un post del 7 febbraio bocciava la proposta di flat tax inserita nel programma elettorale del centrodestra (e quindi del suo attuale alleato Matteo Salvini) e coglieva precisamente il senso della proposta: ogni volta che si parla di flat tax (o sotto mentite spoglie di "semplificazione fiscale") da quelle parti si intende una riforma che possa alleviare la pressione fiscale ai benestanti se non addirittura ricchi. Niente di male, per carità: la politica è per definizione la scelta di una parte da rappresentare e tutelare e che dalle parti del centrodestra italiano ci sia per indole, da anni, una certa propensione non è certo un mistero.

Ciò che colpisce piuttosto è il tentativo goffo di raccontare una riforma per quello che non è: "La flat tax è nel contratto di governo. Va, dunque, realizzata. Tuttavia, non dovrà favorire le classi più agiate", ha dichiarato poche ore fa Luigi Di Maio (smentendo le sue stesse dichiarazioni di qualche mese indietro) e la sua frase è una truffa. Immaginare un fisco che preveda la stessa pressione fiscale per un miliardario e un operaio è un'idea talmente iniqua da essere stata abbandonata dappertutto. Non ci vuole un genio della finanza (basterebbe ripassarsi poco poco la Costituzione, come diceva Di Maio nel suo stesso post di febbraio) per capire che un'aliquota fissa (o che siano due o tre) in un Paese già così terribilmente diseguale come il nostro non farebbe altro che acuire le disuguaglianze. Non si può fingere per sempre che basti allenarsi nell'imbellettamento lessicale per mascherare una riforma che è chiesta a gran voce da una parte ben definita del Paese (i ricchi, sì proprio i ricchi, caro Di Maio) e che non può magicamente tornare utile anche agli altri per una semplice questione di matematica. Le parole sono importanti: se è una semplificazione fiscale la si chiami semplificazione; se vorrebbe essere un abbassamento delle tasse per tutti allora la si chiami così (e poi magari qualcuno ci spieghi dove andranno a prendere i soldi che mancano); se è una rimodulazione degli scaglioni fiscali allora si abbia il coraggio e la decenza di non chiamarla flat tax, semplicemente.

Finita la pacchia vacanziera di una propaganda tutta imperniata su migranti, disperati, uomini neri e allarmi senza riscontro ora il governo si ritrova a governare sul serio e si ritrova di fronte a tutte le contraddizioni rimaste finora sopite: Di Maio ha scelto come alleato (o si è ritrovato a dover scegliere) un partito berlusconiano nella concezione economica del Paese. Se ne faccia una ragione. Ora non basta apparecchiare un po' di furba comunicazione spolverata di indignazione: le tasse, piaccia o no a Di Maio, sono numeri, mica sensazioni.

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Autore, attore, scrittore, politicamente attivo. Racconto storie, sul palcoscenico, su carte e su schermo e cerco di tenere allenato il muscolo della curiosità. Collaboro dal 2013 con Fanpage.it, curando le rubriche "Le uova nel paniere" e "L'eroe del giorno" e realizzando il format video "RadioMafiopoli". Quando alcuni mafiosi mi hanno dato dello “scassaminchia” ho deciso di aggiungerlo alle referenze.
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