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Covid 19

Andrà tutto diverso: ecco come il Coronavirus cambierà per sempre le nostre vite

Dall’industria al mondo del lavoro, dal bisogno di sorveglianza al declino delle democrazie liberali: il mondo della post-pandemia sarà molto diverso da quello che abbiamo conosciuto fino a qualche mese fa. Ecco perché dobbiamo cominciare a pensarci, e a prendere le necessarie contromisure, se non vogliamo esserne travolti.
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Quello di Cassandra è un mestiere ingrato. Lo è ancor di più nei giorni della speranza, quelli in cui si cominciano a vedere i contagi che diminuiscono, i guariti che aumentano, la remissione dell’epidemia di Coronavirus che si avvicina, perlomeno in Italia. Se pensate che presto tutto tornerà come prima, però, se siete persuasi dall’idea che il grande contagio globale sia stato solo un temporaneo blackout dopo il quale ci si rimette in moto come se niente fosse successo, probabilmente state incorrendo nel più grande errore di valutazione della vostra vita.

Perché no, questo grande trauma globale di cui tutti siamo testimoni e protagonisti non è una quarantena destinata a esaurire i suoi effetti con l’avvento di un vaccino o di un trattamento farmacologico dei sintomi. E no, non è nemmeno una normale crisi economica quella che ne scaturirà in seguito – dove per normale si intende analoga alla più devastanti crisi economiche che abbiamo conosciuto, da quella del 1929 a quella del 2008. E ancora no, i cambiamenti che abbiamo sperimentato in quest’ultimo mese, e tutti quelli che in forme e in modi a noi tuttora ignoti sperimenteremo nei mesi a venire non avranno data di scadenza, ma sono qui per rimanere quali architravi dell’epoca prossima ventura.  E infine no, se non ce ne occupiamo e preoccupiamo per tempo, il grande sciame sismico che si abbatterà sul mondo nei prossimi mesi avrà effetti devastanti su ciascuno d noi, mettendo in discussione ogni singola certezza della nostra vita, dal benessere economico alla libertà, alla democrazia.

Attenzione, però: ha ragione l’ex ministro dell’economia Giulio Tremonti quando dice che il Coronavirus non è che il tipico “incidente della Storia”, come l’attentato di Sarajevo che diede inizio alla Grande Guerra del 14-18. Ognuno degli effetti del post-pandemia sarà infatti esito di processi che traggono la loro origine dal pre-pandemia, e che avevano solo bisogno di un indice che facesse cadere la prima tessera del domino. Tutto era già pronto ad accadere, insomma. A partire dalla grande e velocissima transizione tecnologica che stiamo sperimentando in questi ultime settimane.

La grande rivoluzione digitale

“Stiamo sopravvivendo a questa pandemia grazie alla tecnologia”, ha scritto Andrew Keen, uno dei più influenti commentatori della rivoluzione digitale in un recente intervento su Al Jazeera, ed è difficile dargli torto: noi lavoriamo o ci formiamo da casa grazie a Skype, Meet e Zoom, riusciamo a comprare le cose grazie ad Amazon.it, a gestire le nostre finanze grazie ai sistemi di online banking, a stare connessi ad amici e parenti con i social network o con le app di instant messaging. Se già non lo eravamo, stiamo diventando dipendenti da ogni possibile tecnologia digitale. E, parallelamente, stiamo organizzando e standardizzando nuove forme di lavoro, di apprendimento, di consumo, di relazione attorno a queste tecnologie, sempre meno emergenziali, sempre più “new normal”.

All’orizzonte, insomma, già si stagliano i grandi vincitori della nuova era: coloro i quali possiedono le tecnologie da cui siamo diventati dipendenti, a cominciare dalle grandi “over the top” come Google e Facebook, per finire ai nuovi strumenti di smartworking e video conferenza, alle migliori tecnologie di online banking allo scambio di denaro peer to peer attraverso una semplice chat. Per non parlare di quanto questa pandemia riporti al centro del dibattito il biohacking e il monitoraggio in tempo reale della salute attraverso tecnologie sottocutanee.

Allo stesso modo, già si contano i primi caduti del mondo fisico e analogico che ci sta scomparendo davanti agli occhi: quello in cui le persone viaggiano da un capo all’altro del mondo per incontrarsi, o prendono la macchina per andare a fare la spesa, o si incontrano in un luogo predefinito per lavorare, riposarsi, divertirsi. Per le compagnie aeree le perdite attese per il 2020 saranno pari a circa 113 miliardi, con un calo del 19% dei ricavi complessivi. Lo stesso vale per le case automobilistiche – l’industria delle industrie dei Paesi occidentali – che si trovano di fronte, oltre a una diversa domanda di mobilità, anni di contrazione della domanda, di catene produttive globali da ricostruire. Per loro, il calo atteso per il 2020, è del 10% del fatturato complessivo. Ma quel che preoccupa di più, per entrambe, è il crollo della capitalizzazione in borsa: se il mondo scommetterà su altri modelli di mobilità, e su altre tecnologie, domani potremmo parlarne come oggi parliamo delle carrozze a cavalli.

La trasformazione del lavoro

6.648.000 sussidi di disoccupazione in una settimana, quasi 10 milioni in due settimane, circa 20 milioni previsti a fine crisi secondo le stime di Constance Hunter, capo economista di KPMG: questo lo tsunami sul mondo del lavoro negli Stati Uniti d’America, dove il dato medio delle richieste di disoccupazione, fino a un mese fa, si aggirava attorno alle 100-200mila unità. Già oggi sarebbe un record storico: gli Usa non avevano mai visto tanti disoccupati tutti assieme, nemmeno ai tempi della grande depressione post 1929.

Oggi più di allora, probabilmente, servirebbe un new deal, ma non è come dirlo: la rivoluzione digitale che si sta imponendo – e che il post-pandemia imporrà con ancora maggior forza, ha il pregio dell’efficenza, delle economie di scala, della contrazione dei costi, ma ha anche il difetto di distruggere posti di lavoro anziché crearne. E, se ne crea – come nel caso del food delivery – ne crea di peggiori, meno tutelati e peggio pagati.

A tutto questo, aggiungiamo la questione automazione: In Cina stanno già girando per le città i robot di pattuglia, per verificare che tutti indossino le mascherine e per misurare la temperatura corporea nei luoghi pubblici. E negli ospedali di Wuhan già vengono utilizzate braccia artificiali in grado di effettuare le attività generalmente svolte dai medici per evitare contagi tra pazienti e personale sanitario. In un futuro dominato dall’incubo del lockdown, l’automazione sarà una delle vie attraverso cui il capitalismo cercherà di mitigare gli effetti negativi di una nuova pandemia. E per i lavoratori anche questa non è esattamente la migliore delle notizie.

Il sociologo tedesco Ulrich Beck, parlando della società di oggi, l’aveva definita risikogesellschaft, società del rischio, caratterizzata cioè dal problema di trattare in modo sistematico l'insicurezza e la casualità generate dalla modernizzazione. Quella di domani, la società della post pandemia, rischia di fare apparire quella di ieri come una specie di paradiso, per i lavoratori.

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L’esplosione delle disuguaglianze

C’è chi ancora pensa che la pandemia, per via della sua diffusione globale, sia una specie di livella destinata a colpire tutti: ricchi e poveri, occidentali e non, grandi megalopoli e piccoli paesi. Addirittura, c’è chi come sedici medici di Bergamo in una lettera aperta l’ha addirittura chiamata “l‘Ebola dei ricchi”, quasi a volerla connotare come una malattia che si accanisce su chi ha di più.

Sono bastate poche settimane a smontare questo clamoroso errore di percezione: il Coronavirus, al contrario, ha e avrà un impatto devastante verso chi ha di meno, verso chi è più esposto ai rischi, verso chi non può contare su una struttura statale ricca e solida. A differenza di quanto accadde dopo la crisi del 2008, a dirlo non sono solo economisti “di sinistra” come Thomas Piketty e Branko Milanovic. Molto recentemente, su Fanpage.it lo hanno detto anche autorevoli esponenti liberali come Michele Boldrin, secondo cui questa pandemia è “estremamente ingiusta nella distribuzione dei rischi”.

Banalmente, osserva Boldrin, “oggi per contenere il contagio, stiamo imponendo un atto di solidarietà a tutti quei lavoratori del settore privato il cui reddito è legato al fatto di "tenere aperto" e "lavorare" quotidianamente, dal barbiere al ristoratore”, laddove “per altri milioni di cittadini i provvedimenti adottati non implicano alcun costo economico”.

Allo stesso modo, aggiungiamo noi, stiamo proteggendo posti di lavoro a tempo indeterminato con strumenti e ammortizzatori sociali molto più efficaci e costosi rispetto alla mancia di 600 euro offerta indistintamente alle partite Iva, peraltro senza alcuna progressività. Ancora: stiamo pagando questi ammortizzatori sociali attingendo al debito pubblico, ossia alle riserve destinate agli investimenti di domani. E lo stiamo facendo, probabilmente per mero calcolo elettorale, attraverso la sospensione della pressione fiscale, l’azzeramento dei controlli nei confronti di chi non le paga, l’assenza di qualsivoglia imposta patrimoniale, che faccia pagare gli strumenti di contenimento del rischio a chi ha di più.

Di fatto, stiamo affrontando la crisi derogando a tutti gli effetti ridistribuivi della tassazione: prendiamo i soldi a chi ha meno per proteggere chi rischia di meno. Con l’effetto di una crescita esponenziale di quelle disuguaglianze che già erano evidenti nella prima fase della globalizzazione e che già erano significativamente cresciute dopo la crisi del 2008. Quel che succederà dopo, quando faremo i conti coi danni economici della pandemie – le stime più benevole parlano di 6 punti di Pil – e con le conseguenze economiche del mondo post-pandemia, dovrebbe suggerire politiche redistributive diametralmente opposte, volte a ridurre le disuguaglianze, anziché ad aumentarle.

Il tutto, senza dimenticare un fattore che a oggi è per noi ancora ignoto: l’impatto della pandemia sui Paesi africani, o più in generale su Paesi densamente popolati e con un sistema sanitario molto inefficiente. Se in quei contesti – dove non abbiamo e forse non avremo mai i numeri puntuali dell’incidenza del Coronavirus – dovesse andare molto male, il Coronavirus amplierebbe ulteriormente le distanze tra Nord e Sud del mondo.

La necessità della sorveglianza

Il filosofo Yuval Noah Harari, nel suo lungo articolo sul Financial Times a proposito del mondo dopo il Coronavirus l’ha chiamata “Under-the-skin surveillance”. Sorveglianza sottopelle. Secondo Harari, il grande rischio della società post-pandemica è quello della sorveglianza totalitaria: “Oggi, per la prima volta nella storia dell’uomo, la tecnologia rende possibile il monitoraggio di chiunque in ogni momento”, spiega.

In Cina, spiega Harari, “monitorando attentamente gli smartphone delle persone”, e “facendo uso di centinaia di milioni di telecamere con riconoscimento facciale” (…)  le autorità cinesi possono non solo identificare rapidamente i sospetti coronavirus, ma anche tenere traccia dei loro movimenti e identificare le persone con cui sono entrati in contatto”. In Israele, continua, il primo ministro Bibi Netanyahu ha “autorizzato la Israel Security Agency a implementare la tecnologia di sorveglianza normalmente riservata alla lotta contro i terroristi” verso ciascun privato cittadino, con l’intento di combattere la diffusione del Coronavirus.

Più in generale, anche nelle società liberali come quella italiana, abbiamo i droni che controllano i movimenti delle persone fuori dalle loro abitazioni, abbiamo libertà civili compresse di settimana in settimana attraverso decreti della presidenza del consiglio annunciati in diretta Facebook. E più in generale, abbiamo una fortissima pressione sociale ad implementare pure da noi strumenti di “sorveglianza sottopelle”, purché l’epidemia se ne vada e la vita torni quella di prima. Il paradosso è che la nostra vita non sarà mai più quella di prima proprio a causa di ulteriori sistemi di sorveglianza che tracceranno ogni nostro comportamento. E che avremo autorizzato, al solito, nel bel mezzo di un’emergenza.

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Attacco alla democrazia

Tutto questo, direte voi, può essere mitigato dalla presenza di una democrazia liberale, di un parlamento in grado di legiferare sulla privacy delle persone, su ammortizzatori sociali per tutti, su una nuova legislazione del lavoro, su un nuovo sistema fiscale che colpisca finalmente i titani della trasformazione digitale e permetta una più equa distribuzione della ricchezza.

La vera domanda è se avremo ancora una democrazia liberale, dopo tutto questo. I pieni poteri chiesti e ottenuti da Viktor Orban in Ungheria, o al contrario lo scontro istituzionale in Brasile tra Jair Bolsonaro e i generali, che hanno di fatto disobbedito agli ordini del presidente “negazionista” non sono che le prime avvisaglie di un sistema che nell’emergenza decide di derogare anche ai valori democratici che sembrano acquisiti.

Anche in questo caso, non si tratta di un processo che nasce dal nulla: come racconta lo storico e politologo Florian Beiber su Foreign Policy, dal 2006 a oggi sono “più i Paesi hanno visto degradare le loro democrazie di quelli che l'hanno migliorata. L'anno scorso, secondo Freedom House, 64 paesi sono diventati meno democratici e solo 37 lo sono diventati di più”. Aggiunge, Beiber, che “numerosi leader europei, tra cui il presidente serbo Aleksandar Vucic, hanno elogiato la risposta rapida e fortemente repressiva di Pechino al virus”.

Certo, Ungheria, Brasile, Serbia sono  democrazie molto giovani e molto fragili. Tuttavia, in un contesto di rivoluzioni economiche, di trasformazioni nel mondo del lavoro, di aumento delle disuguaglianze e di crescita del bisogno di sorveglianza, nessuno può dirsi pienamente al sicuro, nemmeno le solide, secolari, democrazie liberali occidentali: “I pericoli sono chiari. La pandemia potrebbe portare a un grave declino della democrazia in tutto il mondo. È fondamentale che le democrazie liberali mostrino autocontrollo e vigilanza”, conclude Beiber. Il mondo nuovo della post-pandemia non fa sconti a nessuno.

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Francesco Cancellato è direttore responsabile del giornale online Fanpage.it. Dal dicembre 2014 al settembre 2019 è stato direttore del quotidiano online Linkiesta.it. È autore di “Fattore G. Perché i tedeschi hanno ragione” (UBE, 2016), “Né sfruttati né bamboccioni. Risolvere la questione generazionale per salvare l’Italia” (Egea, 2018) e “Il Muro. 15 storie dalla fine della guerra fredda” (Egea, 2019)
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