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L’Italia ha bisogno dei lavoratori stranieri, lo dicono i dati

La Fondazione Moressa ha analizzato l’influsso della presenza straniera sull’economia. Gli immigrati versano quasi 11 miliardi di contribuiti previdenziali ogni anno e producono 127 miliardi di ricchezza – una cifra paragonabile al fatturato di un agrande azienda. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, gli stranieri ricoprono lavori scarsamente qualificati con differenze importanti tra stipendi e redditi tra popolazione immigrata e italiana.
A cura di Claudia Torrisi
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Stando alle ultime rilevazioni, al 31 dicembre del 2015 in Italia c'erano poco più di 5 milioni di stranieri residenti, la maggior parte dei quali stabiliti nelle regioni del nord (Lombardia in primis) da parecchio tempo, almeno dieci anni. Il nostro paese è il terzo in Europa per la presenza di cittadini stranieri – dopo Germania e Regno Unito – con una percentuale superiore alla media Ue. Il fenomeno migratorio, insomma, ha raggiunto oramai proporzioni tali da essere diventato di carattere decisamente strutturale. A dispetto della narrazione prevalente che vedrebbe nell'immigrazione solo un costo per l'Italia, però, la presenza di stranieri nel nostro paese contribuisce in maniera non indifferente al sistema economico.

Secondo lo studio della Fondazione Leone Moressa "L’impatto fiscale dell’immigrazione", infatti, la presenza di stranieri porta quasi 11 miliardi (10,9 secondo i dati del 2014) di contribuiti previdenziali pagati ogni anno, 6,8 miliardi di Irpef versata ( l’8,7% del totale contribuenti) e 550 mila imprese che producono annualmente 96 miliardi di valore aggiunto. La migrazione "continua a portare benefici", tra cui "i contributi pensionistici versati dagli stranieri occupati", si legge in una nota della Fondazione, secondo cui "ripartendo il volume complessivo per i redditi da pensione medi, si può calcolare che i contributi dei lavoratori stranieri equivalgano a 640 mila pensioni italiane".

Chi sono i lavoratori stranieri in Italia

L'analisi rileva come gli stranieri che lavorano in Italia producano 127 miliardi di ricchezza – una cifra pari all’8,8% del valore aggiunto nazionale, paragonabile al fatturato di un agrande azienda. Nonostante questo, avendo una bassa produttività, i lavoratori stranieri sono destinati a pensioni esigue. Come ha spiegato il ricercatore della la Fondazione Moressa Enrico Di Pasquale, la Fondazione ha calcolato un "indice di attrattività migratoria" dei paesi Ue, prendendo in considerazione due assi: l'integrazione e il benessere. "Mentre nell'Europa settentrionale si trova forte integrazione e forte benessere, l'Italia in questo schema sta in una posizione più bassa, assieme agli altri paesi mediterranei come Spagna e Grecia", ha aggiunto.

Dal punto di vista demografico, nel 2015 gli italiani in età lavorativa erano il 63,2%, mentre tra gli stranieri la quota raggiungeva il 78,1%. Questi ultimi presentano anche un tasso di occupazione decisamente maggiore rispetto agli italiani: 2,3 milioni di stranieri, circalo 10,5% del totale degli occupati. Rispetto agli italiani, tra gli immigrati è inferiore la popolazione inattiva. Questo accade, come ha spiegato Di Pasquale, per due ragioni: una normativa, ossia la conservazione del permesso di soggiorno, e una storico-sociale, derviante dal fatto che in Italia ci sono ancora molte donne che non lavorano.

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Tuttavia, nella maggior parte dei casi, gli stranieri ricoprono lavori scarsamente qualificati – circostanza che non sempre si giustifica con il basso titolo di studio: lo studio della Fondazione sottolinea come solo il 7% ricopra una posizione di alta specializzazione. Ciò produce differenze importanti tra stipendi e redditi tra popolazione straniera e italiana, e quindi anche tasse più basse. Secondo le stime fatte sui dati del Ministero dell'Economia, tra lo stipendio medio di un dipendente italiano e uno straniero può esserci una differenza anche del 23,1%

Per lo più si tratta di romeni (1,1 milione con una componente femminile del 57,2%), albanesi (467.687), marocchini (437.485), cinesi (271.330). La maggior parte di noi sono occupati nelle costruzioni (15,1%), nel commercio (12,9%) e nel comparto alberghiero (9,7%). Si tratta di settori, come sottolinea la Fondazione Moressa, che hanno fortemente risentito della crisi degli ultimi anni: prova ne è che gli immigrati hanno beneficiato di misure a sostegno del reddito come cassa integrazione, disoccupazione e indennità di mobilità.

Di contro, l'esborso destinato agli immigrati è pari al 1,75% della spesa pubblica italiana – circa 15 miliardi. Si tratta di una cifra decisamente bassa, se si pensa che vengono utilizzati annualmente 70 miliardi in interessi sul debito, 163 per i dipendenti pubblici e 270 per le pensioni. Le risorse dello Stato vengono impiegate per la più per la sanità (4 miliardi), per l'istruzione (3,7 miliardi), per i trasferimenti di denaro (3,1 miliardi), e per la giustizia (2 miliardi). Molto più bassi i costi pubblici per la casa (300 milioni) o per servizi sociali (600 milioni). Di Pasquale ha sottolineato come "la spesa per l'accoglienza rientri" nei circa 15 miliardi "per una quota molto piccola".

L'imprenditoria straniera

Dall'analisi emerge lo sviluppo dell'imprenditoria tra gli immigrati: nel 2015 sono stati censiti 656 mila imprenditori stranieri e 550 mila aziende non condotte da italiani – circa il 9% del totale di sei milioni del paese. Tra l'altro, tra il 2011 e il 2015, le imprese condotte da italiani sono diminute (con un calo del 2,6%), mentre quelle degli stranieri sono aumentate del 21,3%.

Quello dell'imprenditoria straniera "non è più un fenomeno da piccola curiosità, ma ha assunto consistenza economica in alcuni settori", ha spiegato Cesare Fumagalli, segretario generale Confartigianato. Si tratta"di dati che vanno visti come un fenomeno di lunga gittata", ha aggiunto, sottolineando come il fenomeno delle imprese straniere ricalchi esattamente la composizione del sistema produttivo italiano: poche grandi imprese e tante micro e piccole. I settori maggiormente coinvolti sono quelli della ristorazione, dei servizi, dell'agricoltura e dell'edilizia. Aree, secondo il presidente di Confartigianato, "dismessi in qualche modo dall'imprenditoria autoctona. La dice lunga su questo la prevalenza nel sottere del piccolo commercio al dettaglio, dove la proporzione è di un terzo".

Secondo lo studio della Fondazione Moressa, le aziende condotte da immigrati contribuiscono, con 96 miliardi di euro, alla creazione del 6,7% del Valore Aggiunto nazionale. La nazionalità maggiormente coinvolta nell'impenditoria è quella marocchina, oramai fortemente radicata sul territorio seppur non più quella più estesa. Fumagalli ha sottolineato come qualcosa stia cambiando nel settore: "Oggi comincia a vedersi nella presenza dell'imprenditoria straniera l'uscita da una fase di occupazione e manodopera in Italia con caratteristica povere. Si avvia un percorso in cui la presenza lavorativa nell'economia italiana sale di livello". L'imprenditoria straniera, insomma, "sta iniziando ad assumere caratteristiche di imprenditorialità costruttiva, e non costrittiva". Secondo il presidente di Confartigianato c'è ancora un passo, però, da fare: le imprese condotte da immigrati devono evolversi e "uscire dalle reti di tipo parentale che ne hanno favorito lo sviluppo e l'avvio".

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