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Opinioni

Grilli prova a svendere l’Italia, ma non servirà

Il ministro Grilli spera di cedere immobili e quote di ex municipalizzate per 15-20 miliardi di euro all’anno e ridurre così il debito pubblico. Peccato che nel frattempo lo stesso aumenti a ritmi circa 4-5 volte più veloci…
A cura di Luca Spoldi
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Chigi - consiglio dei ministri

Che l’Italia sia fallita nel corso dell’ultimo ventennio per colpa dell’incapacità e corruzione di chi l’ha giudata non meno che dell’ignavia degli elettori che hanno mandato e mantenuto al potere una casta politica inadatta al paese è ogni giorno più evidente, così come è sempre più evidente l’inadeguatezza dei “tecnici” che questa stessa casta politica sostiene per fare qualche riforma di facciata che nella sostanza non cambia il quadro di riferimento, senza neppure saper indicare una rotta da seguire per tornare a dare speranze di crescita a un paese dove ormai la crescita è un ricordo e con esso ogni tipo di diritto legato alle competenze di ciascuno e non alle rendite pregresse così ben tutelate dalle mille lobbi esistenti nel “Belpaese”.

Mentre i giornali lodano i risultati “eccellenti” della prima rata dell’Imu e vagamente lasciano intendere che forse così si eviterà ogni ulteriore incremento sulla seconda rata (fingendo di dimenticare che sul conguaglio graveranno addizionali comunali del tutto slegate dall’andamento del gettito per le casse del fisco nazionale), il neoministro dell’Economia e Finanze (ed ex direttore generale del Tesoro) Vittorio Grilli “spara” un’intervista che sembra costruita più sullo stile di un comunicato stampa che di un autentico contraddittorio e preannuncia l’intenzione del governo Monti di varare l’ennesima vendita all’asta di asset pubblici, la terza dopo la dismissione di pezzi di maggior pregio da Autostrade ad Autogrill, da Telecom Italia alle tre ex banche di interesse nazionale (Comit, Credit e Banca di Roma), al progressivo collocamento sul mercato della maggioranza del capitale di aziende già strategiche come Eni, Enel, Terna o Finmeccanica.

Per questa nuova infornata di “privatizzazioni” Grilli punta, dopo due deludenti precedenti, a vendere (senza molta originalità) immobili non più strategici come uffici e caserme e quote di ex municipalizzate, sperando di suscitare l’interesse delle grandi banche d’affari, dei fondi di private equity e dei fondi sovrani di mezzo mondo. In particolare qualcuno segnala l’interesse sia di fondi medio orientali per ulteriori acquisizioni “mirate” come quella recentissima di Valentino, finito sotto il controllo dell’emirato del Qatar, sia dei fondi cinesi per gli immobili e di quelli russi per le utilities locali.

Il tutto nella speranza di ridurre di 15-20 miliardi di euro l’anno (circa un punto di Pil) il peso del debito pubblico, ormai pari a 1,2 volte il Prodotto interno lordo. Ce la faranno i nostri eroi, affidandosi ai rappresentanti dell’ex “terzo mondo”, a veder scendere il peso del debito e quindi alleggerire nel tempo anche le esigenze di un fisco così vorace da scoraggiare ogni giorno di più le imprese grandi e piccole dal proseguire la loro attività sul territorio nazionale? Vorrei poter professare un certo ottimismo e dire che finalmente ci siamo, è una svolta anche in termini culturali che ridarà slancio all’economia italiana, ma i segnali sono di tutt’altro genere e non mi consentono al momento note così positive.

Anzitutto cerchiamo di capirci: se con la “madre di tutte le cartolarizzazioni” (o dismissioni, o privatizzazioni, scegliete voi il termine che preferite) si punta ad abbattere di un punto percentuale (rispetto al Pil) il debito, l’impresa è destinata all’insuccesso visto che al momento il rendimento del Btp decennale guida oscilla sul 6,11% con uno spread contro Bund del 4,88%. Il che vuol dire che solo la “virtuosissima” Germania, che certo l’Italia non può sperare di imitare in tempi brevi, riesce a pagare tassi attorno o sotto l’1% annuo sul proprio debito pubblico, mentre il Belpaese dovrà, non si sa quanto a lungo, continuare a pagare tra il 4% (nella migliore delle ipotesi) e il 6% all’anno (come ora).

E’ dunque come cercare di svuotare il mare col secchiello: si cedono immobili per un 1% di controvalore mentre il debito aumenta ogni anno a una velocità del 4%-5%.  E’ evidente che i 3-4 punti che mancano anche solo per non far crescere ulteriormente il debito in valore assoluto (arrivato intanto a 1.966,3 miliardi di euro a fine maggio) servirebbe una crescita del Pil di pari importo o c’è il rischio di ulteriori rialzi dell’imposizione fiscale. Che però non può più aumentare di molto visto che il 42% “medio” di peso fiscale teorico è pari (secondo il Consiglio nazionale dei commercialisti) a oltre il 52% per coloro che pagano le imposte. Azzerare senza la possibilità di alcun alibi l’evasione è dunque un imperativo non solo morale e però, ancora una volta, rischia di essere del tutto insufficiente se l’economia non tornerà a crescere.

Ma su questo fronte si parla semmai di un’ulteriore rallentamento a breve termine, come ha fatto qualche giorno fa il governatore di Banca d’Italia, Ignazio Visco, prevedendo un calo del Pil vicino al 2% nel 2012 (contro il -1,2% “ottimisticamente” preventivato, tuttora, dal governo) e come ha nuovamente fatto oggi l'Fmi peggiorando le sue stime. Il che significa che ben che vada le dismissioni di cui parla Grilli non riusciranno neppure a mantenere invariato il rapporto debito/Pil, altro che farlo scendere (il tutto, si noti, pur disponendo l’Italia di un sempre più “virtuoso” avanzo primario, del tutto ignorato dai mercati a conferma che la crisi non ha alcun significato “morale” ma è solo frutto di una sfiducia dei mercati nelle soluzioni fin qui adottate per superarla, tanto a livello nazionale quanto europeo).

Non ultimo, e lo deve ammettere pure Grilli, l’obiettivo di fare cassa non è semplice anzitutto perché non si sa bene cosa comprenda il patrimonio dello Stato (secondo indagini parlamentari dovrebbe ammontare a circa 222 milioni di metri quadri e potrebbe valere fino a 300 miliardi di euro, mentre altri 350 miliardi dovrebbe valere il patrimonio in mano ai Comuni secondo i dati di uno studio del Cresme, ma nel conto sono compresi dai lembi di spiaggia a immobili in stato di abbandono da anni). Poi perché collocare questi cespiti sul mercato potrebbe portare a cocenti delusioni in termini di valutazioni, come ha ampiamente dimostrato l’esperienza (negativa) delle due prime società di cartolarizzazione Scip1 e Scip2.

Così mentre la Corte dei Conti lancia l’allarme e ricorda che stante le attuali condizioni di mercato (nei primi tre mesi del 2012 le quotazioni immobiliari sono calate mediamente del 20% in Italia) esiste in concreto il “ rischio di una svendita” dei cespiti, in parallelo vi è l’altrettanta concreta probabilità che molti degli immobili restino invenduti, come già capitato a quelli che hanno provato a collocare sul mercato in questi anni gli enti previdenziali. All’Inps in particolare sono tornati indietro 542 immobili conferiti a Scip 1 e circa 10 mila conferiti a Scip2, mentre all’Inpdap a fronte di poco più di 1.200 immobili collocati son tornati indietro 12 mila appartamenti (originariamente ceduti a Scip2), con un incasso di soli 93 milioni, circa 77.500 euro per ogni immobile venduto.

Domanda: vale la pena di “rischiare una svendita” già sapendo che non servirà a nulla e che vi è il rischio che molta parte di quanto potrà essere offerto resterà invenduto? Non sarebbe meglio procedere senza troppi proclami (un vizio che sta colpendo anche altri ministri come Corrado Passera, che ha promesso lo scorso 22 maggio di sbloccare una prima tranche da 20-30 miliardi dei 60-80 miliardi di pagamenti dovuti dallo Stato ai suoi fornitori e che restano in sospeso per mesi, senza che da allora nulla si sia mosso) e cercare di portare a casa qualche risultato, ben sapendo che senza crescita il paese è comunque senza speranza?

E che non sarà il ritorno di “uomini della provvidenza” pronti a ridiscendere in campo solo per salvare i propri interessi (legati al passato e non al futuro anche per motivi generazionali) a poter cambiare in meglio (anzi) questo quadro, quanto, magari, un cambio culturale che faccia finalmente tornare le aziende ad investire in Italia? Ma già, per riuscirvi dovremmo prima disboscare le mille rendite di posizione delle troppe “caste” italiane, ridurre l’opprimente peso fiscale, tornare a premiare la competenza e l’innovazione, colpire la spesa improduttiva e incentivare quella produttiva. Tutte cose che i nostri ottuagenari “uomini nuovi” in politica come economia faticano anche solo a comprendere, figuriamoci a pensare di poter promuovere concretamente in assenza di un proprio interesse.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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