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Tre morti in Egitto – E’ ancora lotta per la democrazia, stavolta contro Morsi

Tre morti, 100 feriti, 24 città in rivolta. Questi i numeri della nuova ondata rivoluzionaria che – in questi giorni – si è scatenata in Egitto contro il provvedimento autoritario del neo presidente islamista Mohamed Morsi, provvedimento che accentra quasi tutto il potere nelle mani.
A cura di Anna Coluccino
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Non accennano a placarsi le rivolte in Egitto dove – da dieci giorni – i manifestanti laici e pro rivoluzionari tornano ad affollare Piazza Tahrir, scontrandosi con i sostenitori del presidente Morsi e le forze di polizia. Il tentativo è quello di costringere il neo presidente Mohamed Morsi a ritirare il provvedimento varato allo scopo di concentrare l'intero potere esecutivo nelle sue mani, bypassando completamente il sistema giudiziario egiziano che, a detta del presidente, sarebbe inquinato dalla persistente presenza di personaggi troppo vicini a Mubarak. Da quando Morsi ha deciso di dar seguito all'infelice provvedimento con cui si è autoassegnato poteri quasi illimitati, la rivolta è riesplosa; le spinte rivoluzionare – mai completamente sopite e incredibilmente frustrate dal risultato elettorale dello scorso giugno – tornano a pressare le istituzioni in direzione di un cambiamento radicale. In piazza si ricomincia a gridare – con ancor più forza – che il processo rivoluzionario avviato dalla Primavera Araba non ha trovato uno sbocco capace di soddisfare le richieste di democrazia della popolazione, e – anzi – è stato castrato dal fondamentalismo religioso, inquinato dalla salita al potere di un nuovo modello autoritario e – quindi – sostanzialmente tradito.

Già tre persone hanno perso la vita negli scontri, almeno cento i feriti,  l'ultima vittima risale a questa mattina. Si tratta di Fatih Ghalib, cinquantasei anni, morto per asfissia a causa del fittissimo lancio di lacrimogeni che ha preso di mira la tenda in cui si trovava – in rappresentanza del suo partito (l'Alleanza popolare) – e che era stata posizionata nei pressi della sede diplomatica Usa, vicino a Piazza Tahrir. La sede è al centro delle proteste, e lo è ancor di più da quando la Casa Bianca ha pronunciato parole di "attesa" rispetto al contestato provvedimento varato dal presidente Morsi. Evitando di assumere una posizione chiara contro quella che è – al di là di ogni ragionevole dubbio – una svolta antidemocratica, autoritaria e rischiosa per il futuro dell'Egitto, gli USA tentano di cementificare le relazioni diplomatiche con Mohamed Morsi e i Fratelli Mussulmani, protagonisti della recente trattativa per la tregua tra Israele e Hamas, e – in generale – alleati importanti dal punto di vista strategico. Ed ecco che, nonostante il provvedimento preso da Morsi, i tre morti e i molti feriti che si registrano negli scontri, per gli USA la situazione resta "poco chiara".

Il Dipartimento di stato americano, attraverso la portavoce Victoria Nuland, afferma di voler continuare a "consultare le differenti parti per comprendere come esse valutino la situazione". Nel frattempo, il tentativo è quello di non avallare l'idea che quella di Morsi sia una scelta dittatoriale, tanto che – al momento – la questione viene definita una semplice "impasse costituzionale". Sempre secondo le dichiarazioni di Nuland, ciò che sembra premere di più agli Stati Uniti è che l'Egitto avvii le riforme necessarie per "essere sicuri che il denaro del Fondo Monetario internazionale contribuisca a stabilizzare e a rivitalizzare un'economia dinamica, basata sui principi del libero mercato". E proprio ieri è arrivata una nota del FMI che dichiarava, ammiccante, che un'eventuale "svolta" nella politica economica egiziana potrebbe sbloccare aiuti del valore di 4.8 miliardi di dollari.

Morsi, da parte sua, invita alla calma e – mentre la polizia tenta di sedare la piazza a colpi di lacrimogeni e già si contano oltre ventiquattro città in sommossa – il presidente ribadisce che le leggi e i decreti emanati hanno lo scopo di "esaudire le aspirazioni del popolo egiziano e di proteggere il sentiero di una transizione democratica di successo". Il provvedimento, quindi, sarebbe teso a colpire solo chi è stato ritenuto responsabile di "corruzione e di altri crimini durante il regime precedente e il periodo di transizione". "La presidenza" – quindi –  "ribadisce la natura temporanea delle suddette misure, che non hanno lo scopo di accentrare i poteri, ma al contrario di trasferirli ad un parlamento eletto democraticamente e di evitare qualsiasi tentativo di insidiare o sospendere i due organi eletti democraticamente (il Consiglio di Shoura e l'Assemblea del Popolo), oltre a preservare l'imparzialità del potere giudiziario evitando di politicizzarlo".

In questo momento, quindi, la popolazione egiziana è chiamata a un atto di fede. Sebbene il provvedimento accentri, nella pratica, quasi ogni potere nelle mani del presidente, gli egiziani devono credere che questo accentramento sia momentaneo e che non abbia lo scopo di istituire una teocrazia o, comunque, un regime dai tratti autoritari. Gli egiziani dovrebbero fidarsi delle parole di Morsi e accettare l'idea che un provvedimento di questo genere sia assolutamente necessario al fine di epurare le istituzioni egiziane dai sostenitori di Mubarak. Ma come si può credere che il presidente non abuserà dei poteri che si sta auto-assegnando per – poi – islamizzare il paese o varare altre leggi antidemocratiche? Come si può pensare che non esistesse alcun altro mezzo democratico per fare quel che Morsi ha fatto servendosi di uno strumento dittatoriale? Se davvero Mohamed Morsi – che qualcuno ha già soprannominato il neo Faraone –  non intende essere visto come un traditore della rivoluzione, se davvero ha intenzioni democratiche, dovrebbe fare un passo indietro e agire democraticamente. È il popolo che lo chiede. E in democrazia, i popoli vanno ascoltati, non pestati, né azzittiti: ascoltati.

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