Come gestire il fallimento, la psicologa: “Non è vero che volere è potere, a volte bisogna fermarsi”

"Volere è potere" si suol dire. Ma è davvero così? Forse è una visione che non tiene conto della complessità di un panorama che è diventato molto pesante soprattutto oggi, in una società che ci vuole tutti vincenti, performanti, sul pezzo. E non è fattibile, non sarebbe umano. Infatti non sempre volere è potere, come ha spiegato la dott.ssa Lucia Montesi a Fanpage.it: a volte bisogna fermarsi, a volte bisogna arrendersi, dove questa parola non sta a indicare un fallimento da vivere con senso di colpa, con vergogna, con malessere. Fallire non è una tragedia, una catastrofe, non segna la fine assoluta, ma ha anche una valenza positiva, da riscoprire, perché abbiamo perso questa attitudine, presi come siamo a rincorrere la perfezione.
Come ci si allena al fallimento?
Intanto, smettendo di interpretarlo come una catastrofe e di cercare di evitarlo a ogni costo. Più evitiamo qualcosa, più lo temiamo, più cerchiamo ancora di più di evitarlo, in una spirale perversa. Anche per imparare a fallire occorre allenamento e ripeterlo più volte finché diventa sempre meno spaventoso: esporci per una volta al rischio di non riuscire, sperimentare che il fallimento non è una tragedia, sperimentare che l'errore ci dà informazioni su come tarare meglio i nostri obiettivi. Più fallimenti accumuliamo, più significa che ci siamo messi in gioco, più accumuliamo un'esperienza che sarebbe impossibile avere se restassimo immobili nel terrore di vivere il fallimento.
Come si affronta il fallimento? Soprattutto in una società come quella odierna che ci vuole tutti vincenti.
Partendo proprio da questa consapevolezza, che è la nostra cultura attuale a volerci vincenti e performanti e che questa aspettativa è irrealistica perché oggettivamente impossibile da mettere in pratica in tutti gli ambiti della nostra vita. Purtroppo tutti siamo immersi in questo meccanismo tossico per cui ciascuno tiene ben nascosti i propri fallimenti per paura della riprovazione sociale, e se ciascuno tiene nascosti i suoi fallimenti, si produce una convinzione falsata che nessuno fallisca. Avere una visione più umana e compassionevole verso noi stessi ci permette di vivere con più serenità il fallimento e allo stesso tempo di trasmettere anche agli altri un modello positivo di approccio al fallimento.
La ricerca della perfezione e del successo, il voler primeggiare come condizionano la nostra vita, il nostro carattere, il modo di affrontare le cose?
Ci espongono ad uno stress continuo perché tutto diventa una prestazione in cui contano il risultato e il riconoscimento altrui, perdiamo il piacere di fare qualcosa per il puro desiderio di farla, ci rendono perennemente insoddisfatti perché c'è sempre un punto più in alto a cui potremmo aspirare, ci rendono più aggressivi verso gli altri che diventano dei rivali con cui competere in qualunque campo, ci espongono alla frustrazione e al senso di colpa ingiustificato perché la realtà è che, per quanto ci sforziamo, non potremmo sempre vincere, primeggiare o avere successo perché non dipende tutto da noi: alcune variabili sono fuori dal nostro controllo.
Arrendersi, di fronte a una difficoltà o all'impossibilità di raggiungere un obiettivo, è una sconfitta?
Mi piace ricordare che in italiano il termine “resa”, ha un duplice significato: quello di capitolazione e rinuncia, ma anche quello di rendimento, di utile che si ricava da qualcosa. E infatti l'atto di arrendersi in alcuni casi non rappresenta una debolezza o una codardia che si poteva evitare, ma l'unica scelta saggia e ragionevole. Se un obiettivo è impossibile, l'unica decisione intelligente è rinunciarvi. Ma anche quando non è impossibile ma a vario grado difficile, fermarsi può costituire la scelta più sana e utile perché permette di convogliare altrove le energie e magari ottenere benefici e soddisfazioni anche maggiori rispetto all'obiettivo originario.
Qual è il limite tra tenacia/perseveranza e ossessione?
La tenacia e la perseveranza si accompagnano ad una visione realistica delle possibilità e dei limiti, mentre l'ossessione è un'ostinazione cieca che rischia di portare alla distruzione. Quando perseguire un obiettivo diventa una sfida a tutti i costi, quando siamo schiacciati dalla pressione e dall'ansia di ottenerlo, quando siamo convinti che non potremmo vivere senza ottenerlo, quando siamo disposti a compromettere la nostra salute e le nostre relazioni affettive pur di proseguire in questa lotta, quando siamo sordi ad ogni osservazione degli altri che cercano di metterci in guardia e aprirci gli occhi, è molto probabile che abbiamo sconfinato dalla sana tenacia e rischiamo di rimanere intrappolati in un vicolo cieco, continuando a sbattere contro un muro invalicabile.
"Volere è potere": corrisponde a realtà?
Lo slogan "volere è potere" è un cavallo di battaglia del pensiero positivo, una corrente che in realtà non ha nulla a che fare con la psicologia scientifica e che trasmette una visione distorta della mente umana. È palese che esistono innumerevoli situazioni in cui purtroppo no, volere non basta per poter ottenere ciò che desideriamo. Pensiamo ad esempio ad una malattia grave e invalidante, ad una sterilità, o anche più semplicemente a quando inostri obiettivi scolastici o professionali sono fuori dalla nostra portata perché non possediamo le competenze o le attitudini necessarie, perché non ne abbiamo la possibilità economica o perché il mercato del lavoro in quel settore è completamente saturo. Quando un obiettivo è impossibile o estremamente improbabile, sentirci dire che volere è potere non è di nessun incoraggiamento e avremmo piuttosto bisogno di qualcuno che ci aiuti a fermarci, a non sprecare inutilmente energie e trovare un'alternativa più fattibile senza per questo sentirci falliti, non abbastanza forti o non abbastanza determinati.