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Camporese sa perché Sinner faticherà a diventare numero 1 del tennis: “Quei tre mesi, un’incognita”

Omar Camporese ai microfoni di Fanpage ha parlato della vittoria italiana in una Coppa Davis snaturata rispetto al passato, soffermandosi anche su Sinner e sul suo percorso, non semplice per arrivare in vetta al ranking.
A cura di Marco Beltrami
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In pochi sanno cosa significa rappresentare l’Italia in Coppa Davis come Omar Camporese. Un giocatore che è sceso in campo anche in condizioni fisiche precarie pur di difendere i colori azzurri e che si è tolto tantissime soddisfazioni. Numero uno del nostro tennis per 119 settimane, l'ex talentuoso tennista classe 1968 ha vinto due titoli ATP battendo anche campioni del calibro di Lendl, Ivanisevic, Courier e così via. Stimato maestro e commentatore per la Rai, Camporese ai microfoni di Fanpage ha parlato dell'ultimo successo azzurro in Coppa Davis.

Un torneo che per lui è completamente snaturato rispetto al passato. Un passato in cui il tennis era più entusiasmante rispetto a quello attuale, con giocatori dotati di maggiore personalità. Un'occasione per parlare anche della crescita di Sinner e delle difficoltà che Jannik dovrà superare per cercare di arrivare in vetta al ranking ATP e magari vincere uno Slam. Una battuta anche su Lorenzo Musetti e sul suo percorso, che dovrebbe registrare un importante cambiamento di marcia.

Partiamo dalla Coppa Davis, cosa possiamo dire che non sia stato già detto dell'impresa dell'Italia?
"Credo che non sia stata un’impresa perché la squadra è forte. Ci doveva credere e ci ha creduto. Premessa: questa non è la Davis. Abbiamo vinto sì, ma non è la Davis delle cinque partite, è un torneo. Abbiamo sempre detto che questo format è orribile, non ti fa avere i sentimenti di quella Coppa Davis vera e propria che si giocava prima. Però l’Italia ha vinto la Coppa Davis, si chiama ancora così".

Questo nuovo format effettivamente ha inanellato critiche, forse perché è troppo concentrato in stile Mondiali di calcio?
"C’è anche una componente fortuna. Giocando così tante partite, e riducendosi tutto su una settimana, rischi di trovare una nazione decimata. Vedi il Canada o la Spagna senza i due giocatori più forti, gli USA e anche l’Italia della prima fase senza Berrettini. Questo format è brutto anche per quello e la gente rimpiange quella vecchia. Tende a rovinare gli equilibri, noi una volta facevamo il programma dell’anno basandoci soprattutto sui 4 step della Coppa Davis: 1°, 2° turno, semifinale e finale".

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La Coppa Davis forse in passato era maggiormente sentita sia dai giocatori che dai tifosi? Potrebbe cambiare in futuro?
"Sono pienamente d’accordo. La Coppa Davis una volta era vissuta. Ti posso aggiungere anche Fabio Fognini che negli ultimi anni ha tirato sempre la carretta, mettendoci la faccia. Quella era la Coppa Davis, sentita da tutti. Credo che ci sia qualcosa che sta cambiando. Non so se vogliono farla tornare come la vecchia, ma ai giocatori e ai capitani questa formula è un po’ indigesta".

Insomma non solo la Davis ma forse tutto il tennis sta cambiando con tante novità all'orizzonte. Ci sembra di capire che ti piace poco.
"Credo che stia diventando troppo circo. Io sono un romantico, ho vissuto il tennis tanti anni fa e quello degli anni ’90, è lo stesso degli anni ’80, dei ’70 e dei ’60. È rimasto uguale. Ora basta vedere i tornei, le Finals o anche la Coppa Davis e al cambio di campo c’è la musica, il battito del cuore che ci può anche stare ma non è più tennis. Lo vedo ridotto al killer Point, alle Next Gen che giocano sui 4 game. Tutte cose che fanno perdere interesse.

Ma qual è il problema dunque del tennis attuale a tuo giudizio?
"I troppi soldi che circolano stanno rovinando il tennis. Per quello non c’è più il giocatore che tira. Mentre negli anni ‘90 c’erano trenta giocatori che potevano vincere i grandi slam, adesso se prendi la classifica dei primi venti ci sono due giocatori che hanno vinto i grandi slam. Gli altri non hanno vinto niente".

Basti pensare che alle Next Gen si è sperimentato un pubblico libero di muoversi e parlare durante i punti. Stanno rivoluzionando il tennis?
"Io non so chi sta prendendo le decisioni, non so dove vuole arrivare il tennis. Penso che questi  “americani", io li chiamo cosi, stanno cercando di livellarlo quasi fosse una partita di basket dell’NBA. Lo trovo assurdo… il tennis è uno sport di silenzio, di precisione, dove il pubblico deve restare in rigoroso silenzio perché i giocatori durante gli scambi ‘sentono' qualcosa che permette loro di mantenere l’attenzione. Ascoltare il rumore della palla per noi giocatori di tennis è fondamentale. Se mentre gioco sento il rumore del deejay o il vocio del pubblico diventa un casino, un vero circo e non è più bello, non ti appassiona neanche più. E io devo ammettere di aver un po’ perso la passione per il tennis perché è cambiato".

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E i tennisti dal canto loro si stanno un po' adattando forse, con sempre più siparietti particolari?
"Ammetto di seguirlo davvero poco il tennis ultimamente perché mi annoia molto. Io ho appena fatto sia la coppa Davis di settembre che quella di Malaga, ero negli studi Rai di Milano. Io vedevo l’atteggiamento dei giocatori che dal primo punto fanno questo pugnetto, stanno sotto 4-0, fanno un punto ed ecco il pugnetto. Non c’è più niente di vero, di umano. Sembrano delle macchine uscita da una catena di montaggio. Allora quando vedo il giocatore che battibecca ancora, come McEnroe e come tanti degli anni ‘90, penso a Medvedev o a Rune, Djokovic, dico allora c’è ancora qualcosina di umano? Perché dai ci sta! Ci sta il rincuorarsi, il farsi forza, il battibeccare con l’arbitro. Ci sta tutto perché ragazzi stiamo parlando di un giocatore di tennis, di un atleta che sta facendo fatica, cercando di vincere una partita per guadagnare dei soldi.  Da un punto di vista umano ci stanno tutte queste cose. Quello che non ci sta secondo me è che dal primo all’ultimo punto il giocatore faccia sempre il pugnetto. Che sia sotto o sia sopra a livello di punteggio. Lo trovo inammissibile, non umano, qualcosa di troppo robotizzato. Ho visto una partita in cui il giocatore stava 4-0 sotto, al 15-0 ha fatto il pugnetto rivolto verso la panchina. Ma dai, per cortesia… lo trovo davvero vergognoso".

Per quanto concerne invece la Coppa Davis, forse in passato ci si entusiasmava di più a prescindere dai risultati degli azzurri?
"Spezzo una lancia a favore dei nostri giocatori. Sono tutti bravi ragazzi. Berrettini è davvero un bravissimo ragazzo, Sinner è una persona molto umile, gli altri li conosco molto di meno. Fabio è  un ottimo ragazzo, Simone… sono tutti ragazzi adorabili. In ogni caso quando si raggiungono certi risultati è perché c’è una figura di spicco. Non esiste solo a bravura, ma c’è anche una componente umana. Il campione non è campione solo in campo ma lo è anche fuori dal campo e da questo punto di vista Sinner è tale. È un professionista in campo, ma lo è anche fuori".

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Sei stato molto critico però con chi in passato ha rinunciato alla convocazione non per un infortunio, come Sinner.
"L’unica cosa che mi lascia un po’ perplesso è che capisco che su 365 giorni all’anno uno abbia bisogno di prendere una pausa perché sarebbe altrimenti impossibile fisiologicamente, però non durante la Coppa Davis perché è l’unica manifestazione che giochi per la tua Nazione. Quindi è giusto che uno debba giocare per la sua nazione, ma per rispetto di tutti: per rispetto del giocatore, dei suoi compagni, dei suoi fan, degli italiani. Trovo obbligatorio giocare per l’Italia. Se fosse successo a noi, ci avrebbero dato trent’anni di galera. È così … è la verità. Ma sai qual è il problema? Che a noi non sarebbe mai passato per l’anticamera del cervello rifiutare la Coppa Davis, era vitale per noi indossare la maglia azzurra".

Tu per esempio hai giocato con la maglia dell'Italia in condizioni disastrose.
"Era fondamentale. Io, faccio per dire, ho giocato con una mano e un braccio rotto, Cané con un’ernia al disco… senza prendere una lira, eh. Chiariamolo perché non ci pagavano. Prendevamo veramente bazzecole. Giocavamo solo per amore dell’Italia. Si era instaurato proprio un rapporto bellissimo con Adriano (Panatta, il capitano, ndr) che, voglio dire, anche lui ha fatto quello che ha fatto. Noi eravamo legati a lui, alla Nazionale, forse per quello eravamo seguiti. Io credo che una volta i tennisti davano qualcosa di più perché, ripeto, c’era la componente umana che ti faceva tra virgolette innamorare del giocatore. Adesso il lato umano viene a mancare quindi non c’è più quell’immagine del giocatore che ti fa dire ‘cavolo, questo mi piace perché ha una personalità bestiale'. Ce ne sono pochi".

Forse oggi si gioca troppo nel corso della stagione, non ci si ferma mai.
"Mah, ci sono una caterva di tornei. Tre o quattro tornei alla settimana, girano una marea di soldi, migliaia e migliaia di euro nei grandi slam solo per la presenza al primo turno di qualificazione. È per questo che giocano in tanti e il fatto di essere in tanti a giocare rende mediocre lo sport.
C’è un livello alto sì, equilibrato ma mediocre.  Manca un livello top".

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Il tennis è diventato uno sport estremamente fisico, dove il "braccio" forse conta meno.
"Prima c’era una manovra diversa, c’era un back o un taglio diverso sulla palla. Vedevi cose diverse, oggi attacco, palleggio e difesa sono sostanzialmente uguali. Praticamente giochi la difesa come se fosse l’attacco, l’attacco da attacco e il palleggio da attacco. Una volta la difesa era la difesa, il palleggio il palleggio e l’attacco era l’attacco. Erano tre situazioni ben diverse".

Ci sono giocatori infatti in tal senso che hanno pochissime variazioni, non so penso a Rublev.
"È quello il problema. Sinner, Alcaraz, Rune, Shelton, sono i quattro che possono diventare veramente buoni perché hanno quel qualcosa in più. Gli altri sono davvero poca roba. Due anni fa ho commentato, sempre per la Rai, le ATP Finals (quelle che vinse Zverev, per intenderci). Penso a Rublev, a Hurkacz… a giocatori che sono tra i migliori  al mondo però dai, diciamolo, credo sia stato il master più brutto degli ultimi anni. E se non ci fosse oggi un italiano sinceramente non comprerei il biglietto per andare a vedere le Finals".

Insomma è cambiato tutto rispetto al formato suggestivo del passato che prevedeva più partite e la possibilità di scegliere la superficie per la squadra di casa.
"Ha perso l’interesse ci deve essere una squadra che gioca in casa e una che gioca fuori casa. L’Australia che gioca a Malaga contro l’Italia non ha senso. L’Italia di Panatta ha perso 4 finali perché purtroppo le ha sempre giocate fuori casa, ma questo fa parte del tennis. C’è il Paese che ospita e quello che viene ospitato e poi s’invertono. Questo è quello che t’invogliava a giocare, era la settimana in cui pensavi solo a quello e ti faceva stare tutti gli italiani davanti alla TV. A Bologna ho commentato Canada-Cile e c’erano due spettatori, di cui uno ero io. Dentro ad un palazzetto da 15mila…".

A proposito di social ora tutti parlano di tennis, e lo seguono alla luce dei risultati degli italiani anche sui social.
"Da un anno e mezzo mi sono socializzato perché prima ero refrattario. Ne sto leggendo di cotte e di crude sul tennis. Sono tutti tennisti, tutti intenditori e sportivi. È una roba inverosimile. Leggo di quelle cose e mi chiedo alle volte perché mi sono ‘socializzato’. Tutti dicono di tutto e questo non fa più del tennis uno sport di nicchia. Lo vedono in tanti, gente che non capisce e di conseguenza ha perso il fascino. Non c’è neanche più l’umiltà di ascoltare chi ha giocato e che può dare qualcosa che non si sa e invece anche chi l’ha praticato non capisce niente perché l’ha fatto magari anni prima".

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Quello che è certo è che tutto passa dai social,  una situazione molto diversa rispetto a quando giocavi.
"Questo potrebbe essere sia un bene che un male. Male perché uno non si fa più gli affari propri, però a livello di immagine essere sempre in televisione, sui social… cioè la notorietà si avverte. Immagina se avessimo avuto noi gli strumenti di comunicazione che ci sono oggi. Mamma mia, avremmo spopolato. Ci siamo modernizzati, come si è modernizzato il tennis con l’evoluzione di scarpe, racchette, è normale …ci sta evolversi. Però purtroppo queste nuove tecnologie hanno facilitato troppo questo sport, e viene meno la tecnica. Anche noi tiravamo forte negli anni ‘90, ma non vedevi la velocità perché c’era ancora quella tecnica che ti faceva capire che c’era la manualità. Adesso non c’è più la manualità e ci si sorprende perché i giocatori tirano veramente forte".

Certo che non mancano le polemiche oggi, basti pensare anche a quanto accaduto proprio prima della fase cruciale della Davis.
"Sono tutti segnali. L’Italia è arrivata a Malaga per il rotto della cuffia perché dopo il 3-0 in malo modo contro il Canada, se il Cile vinceva 3-0 con noi non rubava niente perché tutte le partite sono state sempre equilibrate. Componente fortuna l’abbiamo avuta, sono segnali. Come sono stati segnali quelli della partita tra Sinner e Djokovic, sui tre match point annullati. Quando succedono queste cose è scritto che tu devi vincere".

Per quanto riguarda Jannik, sicuramente ha inciso il suo cambio di coach. Anche tu pensi che possa diventare il numero uno al mondo e vincere uno Slam già nella prossima annata?
"Se stiliamo una classifica settimanale o mensile ti dico che Sinner ora potrebbe essere il giocatore più forte del mondo. Però attenzione, adesso: sul veloce, indoor, due su tre ovvero nelle condizioni migliori per lui. Ha giocato benissimo le Finals e ci ha fatto vincere la Davis, ma dire che può diventare numero 1 e vincere uno Slam… attenzione. Questo perché gli Slam sono in condizioni diverse: al caldo, all’aperto, tre su cinque e viene fuori anche una componente fisica, mentale e lì diventa più difficile. Lui può migliorarsi perché si alza ogni giorno e si chiede come crescere, ce ne sono veramente pochi così ed è ammirevole. Però dire che può diventare numero uno… è molto difficile. In questo momento vedo Alcaraz leggermente più avanti, ha vinto Wimbledon e gli US Open, Sinner non ancora. E parliamo di un ragazzo più giovane".

Cosa dovrà fare dunque Jannik, in cosa ci dovrà essere un ulteriore salto di qualità a tuo giudizio?
"Indoor sul veloce, è il massimo per Jannik. Credo che se lui vuole diventare numero uno deve gestire per bene i tornei dello Slam. Dal numero 4 al numero 1 ci sono mille punti, e sono tanti. Deve fare attenzione al periodo primavera-estate perché quello è il momento in cui si gioca sulla terra battuta e lui lì deve fare un salto in avanti. Quella è la parte incognita dell’anno. Sono tre mesi molto importanti che fanno la differenza. Lui l’anno scorso è arrivato in semifinale a Wimbledon ed è un torneo che può vincere. In Australia è difficile perché si gioca al caldo, può far bene ma vincerlo secondo me è dura. In America può vincere di più. È difficile perché negli Slam ci vogliono componenti diverse rispetto ai tornei: non è uno sprint ma una mezza maratona. Non so se lui è pronto per questo".

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E per gli altri tennisti italiani? Vorrei soffermarmi in particolare su Lorenzo Musetti, tecnicamente non si discute ma il finale di stagione è stato molto deludente.
"Sono fuori dal giro da un po’ ma non ti posso dire le vicissitudini che ci sono dietro. So che ha un po’ di problemi. Secondo me Musetti non può perdere in quel modo contro Kecmanovic in Coppa Davis. I valori sono diversi. Per me Musetti è quello che gioca meglio in assoluto e non posso vederlo giocare dietro la scritta Davis Cup (troppo lontano dalla linea di fondo, ndr). Deve stare coi piedi a mezzo metro dalla riga. I giocatori di talento che sono belli da vedere non sono giocatori di difesa, ma di attacco. Sono loro che conducono il gioco".

In Coppa Davis contro la Serbia le cose non sono andate benissimo. Di che natura è stato il suo problema?
"Sui social non ti dico cosa è venuto fuori, ‘ah perché Camporese ha detto con Panatta che Musetti è svogliato’. Non mi permetterei mai di dire che è stato svogliato. Dico solo per me che non deve giocare 4 metri fuori dal campo, poi e fisicamente non era pronto. Lui ha avuto un calo fisico, ma non mentale: sono due cose diverse. Se la testa sa che il fisico c’è lavora in una maniera, se la testa sa che il fisico non c’è allora le cose cambiano. Il fisico è il soggetto principale, ed è quello che conta. Lui in un determinato momento è scoppiato. Invece di fare passettini per avvicinarsi alla palla ha iniziato a fare passi larghi e quello denota una mancanza fisica. In un incontro di Coppa Davis importante come una semifinale rischiarlo così… attenzione io l’avrei fatto giocare però dal di qua. Sapendo quali sono le sue qualità in quel momento non l’avrei fatto giocare".

Insomma, c'è tanto da lavorare ma le basi sono eccezionali.
"Lui sembra che si debba piacere in campo. Quando vidi giocare le prime volte Musetti, mi strofinai gli occhi e mi dissi ‘cosa è successo, finalmente un giocatore di tennis’. Poi in un torneo a Cagliari non riuscivo a vederlo perché era fuori dallo schermo a ridosso del tabellone. Quando l’ho visto giocare poi ad Amburgo, caso strano aveva i piedi dentro al campo. Era umile e questo gli ha permesso di ottenere ottimi risultati. Adesso si sta un po’ specchiando e lo vedo un pochino diverso, ha un po’ di problemi personali da gestire".

Ti piacerebbe in futuro allenare un giocatore top, oltre alla tua carriera da maestro e da commentatore TV?
"Mi è stato chiesto ‘ma tu alleneresti Musetti’ in maniera molto informale da Adriano Panatta, quando ancora non si sapeva di Barazzutti. E io ho detto ‘mamma mia lo farei subito’, e lo farei anche per Nardi. Questi sono i due ragazzi che mi piacciono di più".

Ti sarebbe piaciuto o meno giocare a tennis in questo periodo storico, o è andata benissimo così?
"Ogni tanto mi sento col mio ex manager e mi dice ‘mamma mia Omar se tu fossi nato adesso quanti soldi faremmo’. E io gli rispondo ‘lo sai che non ho mai giocato per i soldi’. Credo di avere vissuto l’epoca più bella dello sport in generale: negli anni ’80 e ’90 c’erano atleti eccezionali. Il calcio aveva una trentina di fenomeni, il tennis anche. Ho avuto la fortuna di partecipare a due Olimpiadi e ho visto il dream team di basket, mi giravo e c’era Michael Jordan, mi giravo e c’erano altri campionissimi. Una roba allucinante, oggi non è così. Probabilmente ho ottenuto meno risultati, ma senza la sfortuna del braccio (infortunio, ndr), nei primi 10 ci sarei stato. Mi tengo stretto quel periodo e l’aver fatto parte di una generazione di fenomeni che ti davano stimoli costanti per lavorare".

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Ed è anche quello che trasferisci ai tuoi allievi?
"Il tennis di oggi comunque mi piace perché è lo sport della mia vita e sempre lo sarà. Quando in campo alleno i miei ragazzi, li alleno come si giocava una volta. Non sono per le estremizzazioni dei palleggi, si gioca a tennis e poi vediamo C’è qualcosa che sta cambiando, vedi Alcaraz che sa giocare a tutto campo… Rune che sa giocare benino o Shelton. Come farà per esempio Shelton a perdere a Wimbledon con quel servizio e gioco da fondo".

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