Luca Cadalora, ex coach di Valentino Rossi: “Ho visto Marc Marquez in pista fare cose mai viste”

Tre titoli mondiali, un talento cristallino che ha saputo adattarsi dalla 125 fino alla classe regina e un carattere riservato ma capace di lasciare segni profondi nella storia del motociclismo. Luca Cadalora non è solo un ex pilota: è stato un protagonista assoluto degli anni d’oro delle due tempi, un maestro della guida pulita e della velocità in percorrenza, e in seguito una delle figure che hanno aperto la strada al concetto moderno di coach in MotoGP, grazie all’esperienza al fianco di Valentino Rossi. Riviviamo la sua carriera, le emozioni del ritorno in pista con le leggende, le difficoltà e i trionfi della 500, fino agli sguardi sul presente e sul futuro dei giovani piloti italiani. Un viaggio che attraversa generazioni e cambiamenti del motociclismo, sempre con lo sguardo lucido di chi ha vissuto tutto sulla propria pelle. “Non ero normale – racconta Cadalora – perché davvero non esisteva nient’altro: un’immersione totale, una dedizione assoluta alle moto. Solo così puoi arrivare in alto”.
Ti abbiamo visto tornare in pista con altre leggende del passato, com'è stato?
Molto bello. In effetti erano 5 o 6 anni che non andavo più in moto perché avevo smesso da quando ho terminato la mia attività di coaching con Vale (Rossi, nda), con la Yamaha, e quindi non sono più andato in pista. E non guidare per così tanto tempo mi ha fatto fare un disastro (ride, nda). Ero parecchio arrugginito. Dopo così tanto tempo perdi, perdi un sacco, specialmente adesso alla mia età, puoi immaginare. Però, mi sono divertito. Dopo il primo giro, anzi i primi due giri, torna un po' tutto, tornano gli automatismi. Ed è stato bello perché la moto era una 500 quattro cilindri che incredibilmente andava alla grande, proprio mi sembrava di salire su una moto delle ultime che ho usato con Yamaha nel 98 e quindi è stato bello, è stata una bella emozione.
Chi tra i tuoi colleghi ti ha impressionato di più?
C'era Ago (Giacomo Agostini, nda) con il quale ho passato un po' di tempo, abbiamo chiacchierato tanto perché insomma sono legato a Giacomo perché abbiamo passato quattro anni nei quali ho corso per la sua squadra e siamo sempre rimasti in contatto. Poi ho avuto occasione di conoscere meglio Casey Stoner che personalmente non avevo mai conosciuto in passato ed è stato molto carino. È stato molto bello, mi è piaciuto. Abbiamo parlato un po' di moto, ho scoperto essere un grandissimo appassionato di meccanica e di motori due tempi, cosa che mi ha sorpreso. Poi c'era Andrea Dovizioso col quale ho passato un po' di tempo, abbiamo mangiato insieme, abbiamo chiacchierato un po' della MotoGP attuale. Poi Dani Pedrosa, un altro ragazzo fantastico, era una bella compagnia.
Una bella lista.
Tony Mang anche, mi stavo per dimenticare. Tony Mang è stato un grande campione (cinque titoli mondiali, nda) che stava finendo la sua carriera quando io iniziavo la mia in 250, è un pilota dal quale io ho imparato tantissimo. Da lui ho imparato a gestire le forze, gestire la durata della gara, perché io ero un po' sprecone all'inizio. Avevo fame e a volte da giovane fai delle cavolate. Ah, mi sono dimenticato Capirossi. Appena ci siamo visti mi ha detto che mi avrebbe fatto una staccata da paura e che mi passava da tutte le parti e infatti lo ha fatto. Dopo due giri non l'ho più visto, velocissimo, è in una grandissima forma.

Visto che siamo in quel periodo, mi racconti come hai iniziato a correre?
Io ho iniziato perché era un mio sogno da ragazzino. Mio papà aveva corso negli anni 50, poi smise per seguire la famiglia, tra cui io. Ho voluto continuare quello che lui non aveva più potuto fare. A 16 anni andai da Francesco Villa e costruimmo insieme la mia prima moto. All'inizio aveva capito che volessi correre con una moto da cross, ma quando capii che intendevo correre nei circuiti mi disse: "Se vieni qui tutti i giorni costruiamo insieme la moto". Secondo me lo ha detto sperando che mi togliessi di torno e invece ogni giorno ero lì da lui. Piano piano costruimmo la moto e iniziai la categoria junior. Eravamo in 150 a Magione e solo 36-40 si qualificavano. Nel secondo anno vinsi il campionato junior nazionale e la Federazione fece la “Nazionale Azzurra”, che ci aiutava con moto e trasferte. Ripensando a quel periodo devo dire che ero ossessionato.
La Federazione faceva da scout e sostenevano i giovani piloti?
Sì, esatto. Organizzavano anche degli eventi dove sceglievano i piloti da sostenere. E quella era una bella trovata per la Federazione e anche per i piloti e per le loro famiglie così potevano risparmiare dei soldi. Perché quando un pilota giovane decideva di perseguire quella strada era un investimento che riguardava e influenzava tutta la famiglia. Sia in termini economici che di vita.
Adesso abbiamo perso un po' quell'accademia lì. Gli unici talenti – nelle ultime stagioni – sono usciti quasi tutti dalla VR46 di Valentino Rossi.
È vero. Al netto di Bastianini e Di Giannantonio, diciamo che gli altri sono tutti piloti passati dall'Academy di Tavullia. E meno male che c'è. Morbidelli campione del mondo di Moto2 nel 2017, Bagnaia tre volte campione del mondo, Marini in Honda ufficiale, Bezzecchi in Aprilia. Anche Bulega, anche se non è più del gruppo è passato dall'Academy e ora guida la Ducati Panigale in Superbike. Bisogna che si lavori tutti insieme per ritrovare talenti che possano andare nel Motomondiale a continuare la tradizione.

La Spagna, ad esempio, sta facendo un grande lavoro. Moto 3 e Moto 2 sono piene di spagnoli. Come mai?
Perché hanno iniziato prima a fare sistema, ad avere visione, ad aiutare le famiglie. Il CEV era già strutturato, chi andava forte aveva un passaggio diretto o quasi garantito nel mondiale. Serve lavorare con i giovani già dalle minimoto, ma è difficile anche per i costi e per la gestione con le famiglie.
Torniamo alla tua storia: qual è stata la caratteristica che ti ha reso campione?
Determinazione assoluta e poi ho avuto persone che hanno creduto in me. Ho imparato tanto dagli altri, ero una spugna. Invece in pista non piaceva la staccata. Cercavo qualsiasi soluzione per non arrivare alla staccata. Non ero uno staccatore, preferivo la percorrenza di curva, la velocità, ma non la frenata all'ultimo respiro. Troppo rischiosa. Amavo piste come Mugello o Assen. E non quelle "stop and go" , non sarebbero stati circuiti per me.
E in 500? Ci arrivi da tre volte campione del mondo…
Sì, arrivo nel 1993 grazie a Philip Morris nel team Yamaha. La squadra cercava un pilota che facesse il secondo a Rainey e scelse me. Mi trovai in pieno dominio degli americani e australiani: appunto Rainey, poi Lawson, Gardner, Schwantz. All’inizio la moto era complicata, quasi impossibile da gestire per me, ma non per Rainey. Poi con l’ingegnere Warren Willing, che era stato il capo meccanico di Rainey negli anni in cui aveva dominato (1990-1992, nda) cambiò tutto. Nelle ultime cinque gare vinsi due volte e altre due andai a podio. Diventai competitivo, ma l’incidente di Wayne Rainey a Misano sconvolse tutti. Il team non era più lo stesso. L'umore era negativo perché Wayne non avrebbe mai più potuto correre per via dell'incidente che gli causò la frattura della colonna vertebrale costringendolo alla sedia rotelle.
Come si va avanti in questi casi? Subentra la paura?
Si va avanti insieme concentrandosi sul lavoro. Per quel che mi riguarda la paura esiste sempre. Io non ho mai, o quasi, fatto sorpassi spericolati o pochissime volte mi sono messo in situazioni brutte, ma la paura c'è e ci deve essere altrimenti non conosci il limite e se in pista non conosci il limite è molto pericoloso.
E poi stavi per giocarti il titolo con un certo Mick Doohan.
Nel 94 forse poteva essere l’anno buono, ma non ce l’abbiamo fatta. Eravamo gli unici con Dunlop, gli altri con Michelin. Però ho vinto delle gare e sono stato la miglior Yamaha. Anche se guardando la classifica finale non si può pensare che me la sia davvero giocata con l'australiano. Era una furia, è arrivato come una tempesta vincendo tutto. Avrei voluto essere più competitivo anche se feci due vittorie e quattro podi, ma non potevo essere contento di arrivare quinto o sesto.

E qui mi aggancio al presente. Oggi un nono posto può essere definito positivo? Tu da coach cosa diresti a Bagnaia in questo momento?
L’importante è trovare positività. Lamentarsi non porta a nulla. Bagnaia ha fatto bene a sottolineare il miglioramento, da lì si può ripartire. Deve ripartire perché è evidente che lui non è il pilota che stiamo vedendo oggi che non vuol dire che è forte come Marquez. Però, è un pilota che può fare molto meglio di così.
Parliamo della tua esperienza da coach con Valentino Rossi. Cosa mi puoi dire? Come è nata e cosa ti ha lasciato?
È stata bellissima. Ci eravamo avvicinato un po', abbiamo iniziato a parlare, a confrontarci e lui a seguito della stagione del 2015 ha voluto ripartire con una figura che provasse a migliorarlo laddove possibile. E questo fa anche capire l'umiltà del campione. Dal 2016 al 2018 sono stato a fianco a Valentino. Sono stati tre anni intensi. Con Vale, Uccio, Albi c’è stata un’apertura incredibile. Ho cercato di dargli tutto quello che potevo, ma ho imparato anch’io tanto. La sua determinazione era ancora più estrema della mia. E la sua capacità comunicativa era unica. Non è un caso che abbia fatto quello che ha fatto.
Gioco della torre: chi butti giù, Capirossi o Biaggi?
Tengo Capirossi. Sono molto legato a Loris.
Cadalora o Gresini?
Tengo Gresini, perché sarebbe ancora con noi. Ho ricordi bellissimi di lui. Aggiungo: poco prima che morisse facemmo un viaggio di ritorno in aereo l'uno accanto all'altro e durante il volo ci siamo messi a ricordare momenti, esperienze, gare, vissute insieme. Era una persona splendida e manca a tutti.
Doohan o Kenny Roberts?
Troppo diversi, periodi diversi. Pareggio.
Stoner o Lorenzo?
Li tengo tutti e due.
Arriviamo alla sfida del secolo: Rossi o Marquez?
Per affetto dico Rossi. Ma quello che ho visto fare a Marquez in pista non l’ho visto fare a nessuno. È un fenomeno. La sua guida richiede anche soluzioni diverse tecnicamente. Però entrambi sono leggendari, come Messi e Ronaldo nel calcio. Due leggende.