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Cecchinello: “Honda è diventata inguidabile per aspettare Marc Marquez. Ora i giapponesi ci ascoltano”

Abbiamo intervistato Lucio Cecchinello, manager e fondatore del team LCR: “La vittoria di Zarco in MotoGP è stata una fiaba”.
A cura di Fabio Fagnani
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Dopo un weekend storico, segnato dalla vittoria di Johann Zarco in Francia — primo trionfo di un pilota francese in patria dopo 71 anni — e offuscato solo in parte dal terremoto di mercato scatenato dal caso Jorge Martin, abbiamo fatto due chiacchiere con Lucio Cecchinello, team manager e fondatore del team LCR. Cecchinello è uno degli uomini più rispettati e stimati del paddock. È un uomo sereno, professionale, che noon si sottrae a nessuna domanda: dalla crisi tecnica della Honda al mercato piloti, dal ruolo destabilizzante di Marc Márquez alla condizione psicologica di Pecco Bagnaia, fino alla riflessione intima su quale versione di sé – pilota o manager – lo rappresenti davvero. Un viaggio nel cuore della MotoGP con chi, la MotoGP, la conosce e la vive da ogni angolazione possibile: pilota, manager, proprietario di un team.

Avete fatto un'impresa clamorosa. Meglio la vittoria di Zarco o quella di Rins di due anni fa?
Assolutamente, è stato bellissimo vincere a casa di Zarco. Tra l'altro abbiamo convinto i genitori che non avevano mai visto Johann in pista in MotoGP. Si sono allineati i pianeti. E poi è qualcosa di storico, non solo per noi, ma per il fatto che era da 71 anni che un francese non vinceva in Francia. È stato un evento molto particolare. Rins o Zarco? È una vittoria fresca, quindi l’emozione è recente, ma per come è arrivata è davvero meglio questa.

Anche se c'è da dire che Honda due anni fa non era quella di adesso.
Honda sta facendo un percorso di miglioramento e Zarco è stato incredibile. Però forse due anni fa Honda era ancora un gradino sotto rispetto a oggi e in quell'occasione Rins aveva un qualcosa di magico soprattutto perché ama quella pista. La vittoria negli Stati Uniti fu una bellissima sorpresa, come lo è stata quella di questo weekend. In America andammo forti sin dal venerdì. Il sabato nelle qualifiche ci aspettavamo un buon risultato, però in quel contesto la moto non era particolarmente competitiva. Chi fece davvero la differenza fu proprio Alex, che in certe parti del tracciato guadagnava 3–4 decimi su tutti. Poi gli trovammo una buona messa a punto in frenata e una buona trazione. Austin è un circuito largo, e ci adattammo bene.

Adesso, a che punto è Honda?
È in un percorso di evoluzione che è cominciato tra la fine del 2023 e l’inizio del 2024. Il gap è ancora importante, ma da un secondo e mezzo siamo arrivati a mezzo secondo dalle Ducati guidate da ottimi piloti. Poi c'è quella guidata da Marc Márquez. E per arrivare lì ci vogliono ancora altri 3–4 decimi da recuperare.

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Prima di parlare di Márquez, volevo restare su Honda. Tu hai vissuto da dentro l’involuzione della casa giapponese. Cos’è successo veramente? Dall’esterno è difficile cogliere tutte le ragioni. Si dice spesso che la moto fosse troppo “su misura” per Márquez, e quando lui si è fatto male nel 2020 non c’è più stata una direzione. Oppure c’è stato un progresso troppo rapido delle case europee, come Ducati, Aprilia e KTM?
Faccio un passo indietro: stagione 2017–2018. Con Márquez e Crutchlow avevamo una moto forte. Márquez si batteva spesso con Dovizioso, Crutchlow vinse due GP nel 2016 e altri nel 2017. Facemmo 13 podi. Poi Honda ha sottovalutato le nuove tecnologie introdotte da Ducati: il forcellone in carbonio, lo sfruttamento dell’aerodinamica. Le altre avevano già spoiler inferiori, alette, e noi avevamo solo piccole ali anteriori. La fortuna della Honda è stata Márquez, ma anche la sua sfortuna. Perché Marc vinceva sempre, anche con una moto difficile, quindi si è rimasti fermi. Poi la pandemia ha peggiorato tutto: gli ingegneri giapponesi non potevano più venire in pista. Anche Yamaha ha perso la rotta. Honda ha aspettato che Márquez guarisse, ma lui ha avuto altre complicazioni e i ritardi si sono accumulati. L’ultima volta che siamo saliti sul podio come LCR è stato nel 2019. Intanto Ducati introdusse abbassatori, device, spoiler inferiori, Aprilia introdusse il lowering anteriore e le pance carenate per l’effetto suolo in piega. Honda non applicava nulla di tutto ciò. Aspettavano Márquez. E quando è tornato, ormai il gap era enorme. I piloti cadevano spesso, la moto era inguidabile. L’uscita di Marc è stata una chiamata alle armi per tornare a essere attivi e propositivi. Hanno cambiato management, ingegneri, e oggi dietro l'azienda ci sono persone in gamba, che lavorano con metodo, ascoltano gli europei. Per la prima volta hanno assunto un direttore tecnico come Romano Albesiano.

Infatti, Honda si sta europeizzando. Anche l’arrivo di Aleix Espargaró è un segnale. Ma veniamo alla notizia: Jorge Martin che pare voler interrompere il contratto. Non ti chiedo un parere sulla scelta, ma sul lato contrattuale. I piloti stanno diventando come i calciatori? Le clausole, i manager, i contratti…
Il nostro sport si sta evolvendo, ma siamo ancora indietro rispetto a Formula 1, al calcio o all'NBA. È uno sport ancora molto passionale, artigianale. Anche noi team satellite, come Poncharal o Campinoti, stiamo costruendo una cultura contrattuale facendo errori. Non abbiamo uffici legali. La riservatezza è spesso voluta. Io, ad esempio, non posso divulgare i termini del contratto di Zarco, per clausola. Ci sono clausole sulle performance o sulla posizione in classifica o su altri dettagli.

Per questo non c'è trasparenza sugli ingaggi?
Sì, anche, ma arriverà. Poi, c'è da dire che voi media sapete più o meno quanto siano i compensi. I top come Martin, Bagnaia, Marquez, Quartararo, prendono qualche milione di euro. Ma i manager vogliono clausole. Con Rins, per esempio, firmammo con una clausola: se arrivava un’offerta da un team ufficiale, poteva uscire dal contratto. È una richiesta comune nei team satellite. Su Jorge Martin non so se abbia clausole, ma Aprilia è già una casa ufficiale, quindi è difficile immaginare una clausola d’uscita. Però, se Honda lo vuole davvero, è un colosso e può permettersi di spendere qualsiasi cifra.

Il danno d’immagine però rimane. E ora Aprilia è costretta a convivere con Martin fino a fine anno, creando un clima complicato.
In MotoGP la motivazione è tutto. Io ho corso 15 anni, dieci nel mondiale. Quando senti calore e fiducia nel box, dai di più. Le mie stagioni migliori le ho fatte così. Se invece manca l’armonia, ti trascini. E Martin ha avuto una serie di incidenti, anche in allenamento. Ha perso fiducia. Ora cerca una scusa per proseguire, ma quando pensi che cadi perché la moto non è a posto, è dura chiederti l’eccellenza.

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Mi viene in mente Pecco Bagnaia. Dice di non trovarsi bene con la Ducati 2025. Ma quanto incide la presenza di Márquez nel box?
Secondo me è più la presenza di Márquez. Quando condividi il box con uno che naturalmente va più forte, perdi motivazione. Non te ne rendi conto, ma non dai più il 101%. Ti deprimi. Márquez attira le attenzioni, inconsciamente ti abbatte. Pecco la sta soffrendo, forse senza accorgersene. La moto 2025 non è così diversa dalla 2024. Se volesse la vecchia, gliela darebbero secondo me.

È così evidente… Alex Márquez va forte, e Pecco no. Tardozzi ha ragione: non si disimpara a guidare da un anno all’altro. Quindi: Pecco ha vinto perché era nel posto giusto al momento giusto, o è davvero da top mondiale?
Entrambe le cose. Ma paradossalmente, credo che Pecco potrebbe dare il meglio fuori dall’attuale team. Non cambiando lo staff, che è ottimo, ma cambiando ambiente. In un team come Gresini, con Alex Márquez, potrebbe rigenerarsi e tornare a vincere.

Tanti anni nel motomondiale. Sei stato meglio come pilota o come dirigente?
Come dirigente, senza vergogna. Da pilota ho vinto 7 GP, fatto una ventina di podi. Ma ho corso con Rossi, Melandri, Biaggi: erano più talentuosi di me, senza dubbio. Io ci ho messo tanto a vincere. Fare il team manager mi viene più naturale. Dal 1996 ad oggi, credo di aver dimostrato di essere nel mio ruolo.

Qual è la tua qualità migliore e il tuo limite come team manager?
La qualità è l’esperienza completa: ho fatto il meccanico, il pilota e ora il manager. Capisco tecnici e piloti. Non tutti hanno questo percorso. Il limite? Forse dovrei essere più ridigo, arrabbiarmi di più, ma non sarei io.

È anche per questo che voi manager italiani siete tra i più bravi del paddock.
È vero, io non amo lo scontro, porto pazienza. Questo può essere un punto debole, ma se guardo alla realtà, con il mio sistema lavoro da vent’anni con Honda in MotoGP. Molti team satellite come il nostro, hanno chiuso.

Qual è la cosa più difficile? Cercare sponsor?
Sì, è sempre stato una challenge enorme. Siamo sopravvissuti anche a momenti difficili. Quando sono arrivato io in MotoGP erano appena usciti di scena i tabaccai e ho visto sfumare sotto il naso le ultime opportunità di contratti multimilionari. La Dorna ci ha permesso di correre con un solo pilota, quando tutti ne avevano due: è stato fondamentale per noi. Poi abbiamo puntato tanto sul settore moto accessori: Givi, Rizoma, ad esempio, tutte aziende che ci hanno dato uno zoccolo duro del budget. Poi i petroliferi: Elf prima, poi Idemitsu. Sicuramente è stata una delle attività più complesse. Ovviamente, senza Honda sarebbe difficile. L'azienda giapponese ci aiuta tantissimo e poi la seconda sella è sponsorizzata da Idemitsu.

Quella sella però è un'esclusiva asiatica a livello di piloti, giusto?
Sì, l'accordo è questo per via del fatto che la visibilità verso il continente asiatico è forte soprattutto se c'è un pilota di rilievo di quell'area geografica. Prima Nakagami, oggi Chantra. Idemitsu ci garantisce il budget per il secondo pilota. Per contratto, quel pilota deve essere asiatico. Lo sponsor lo richiede perché c’è un enorme potenziale nei mercati asiatici: milioni di moto, milioni di lattine d’olio.

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Tu hai vissuto da vicino Valentino, e oggi Márquez potrebbe eguagliarlo: nove titoli. Come li confronti? Valentino era spettacolare, guascone, sembrava si divertisse anche a giocare con gli avversari. Dall’altra parte Márquez: preciso, determinato, una macchina. Tu chi scegli? Romanticismo o perfezione?
Ti direi il romanticismo tavulliese, perché è il motociclismo con cui sono cresciuto. Valentino ha portato il motociclismo a un altro livello: professionale ma anche spensierato, ironico, divertente. Si prendeva in giro e prendeva in giro gli altri, e questo trasmetteva emozioni. Márquez è un guerriero, un professionista assoluto, ma Valentino ci ha regalato un messaggio così positivo che oggi ci manca. Due giganti, in epoche diverse.

Ultima domanda “di cuore”: se chiudi gli occhi e pensi – tolti quelli che hai adesso – al pilota più talentuoso che hai avuto, chi è?
Casey Stoner. Senza alcun dubbio.

Era ancora un “Rolling Stoner” da te, lo avete formato voi.
Sì, è costato tre appartamenti di ricambi [ride], ma aveva un talento incredibile. Saliva sulla moto senza fare mille regolazioni, non conosceva il circuito e in pochi giri aveva già capito tutto. Uno di quei talenti che nascono forse una volta ogni vent’anni.

E quando firmò con te, pensasti che stessi sognando?
Sì, assolutamente. Peccato che ha sofferto la pressione – negli anni in Ducati e nel team Repsol – e si è ritirato prematuramente. Ma quel ritiro ha aperto la porta a Márquez. Chissà cosa sarebbe successo se fossero rimasti entrambi: vederli insieme in pista sarebbe stato fantastico.

Torniamo all'inizio: cosa hai detto a Zarco quando è tornato al box?
L’ho stretto, l’ho abbracciato e gli ho detto: “Fantastico, fantastico.” Perché è stato davvero fantastico. È stata quasi una fiaba. I suoi genitori erano lì, per la prima volta a un Gran Premio. Lui li aveva finalmente convinti, era felice di regalargli un’emozione… e gli ha dato, probabilmente, la più grande della loro vita.

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