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Ancora una volta dobbiamo ricordare Pantani senza che nessuno paghi per averlo annientato

Il 14 febbraio 2004 tutti ricordiamo dove eravamo quando ci hanno dato la notizia che Marco Pantani era morto. Era un atleta e un uomo speciale, come Diego Armando Maradona, del quale ha avuto una traiettoria molto simile. Troppo pieno di talento, è stato prima usato per far accorrere il mondo ai piedi del signor Ciclismo e poi lasciato in una stanza buia a fustigarsi per quello che non è riuscito a essere.
A cura di Jvan Sica
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Tutti ricordiamo dove eravamo e cosa stavamo facendo il 14 febbraio 2004, quando Marco Pantani fu trovato morto nella sua stanza del Residence “Le Rose” di Rimini. Era la festa di San Valentino e tanti, adulti e adolescenti, erano persi appresso a qualche amore corrisposto, buttato via, sfuggente, assoluto. Anche se si pensa a Marco Pantani la parola amore viene subito in testa. Un po’ come accade quando pensi a Maradona. Destini simili, amori enormi. Maradona amava la palla, l’oggetto, la sfera. Gli piaceva quello che lui dava a lei e quello che riceveva in cambio. Ci dormiva la notte, gli occhi luccicavano quando la vedeva, anche a 60 anni.

Anche Pantani era innamorato della bicicletta, non lo ha mai detto ma un po’ si leggeva anche nei suoi occhi e un po’ lo dicevano quelli che gli stavano vicino da quando aveva deciso di pedalare. E come per Maradona quell’oggetto così amato con il tempo non era più soltanto piacere, felicità, confronto positivo con gli altri e con se stessi, divenne anche tanto altro, come succede poi a tutti gli sportivi, in questo non erano speciali.

Ma erano speciali perché amavano tanto il loro oggetto e tanto ne subivano anche il rinculo affettivo, quello che hai quando perdi o ti vogliono mettere in un angolo, cancellare, depotenziare. Le storie si intrecciano ancora una volta, quelle di Pantani e Maradona. Crescono sfidando l’impossibile. Piccoli, storti, il contrario di quello che nel loro mondo si considerava lo standard minimo per essere campione, diventano i numeri uno grazie a quell’amore e alla fatica, quotidiana e sfiancante che un percorso del genere ti mette davanti. Arrivano in vetta ancora una volta guardando in faccia solo il cielo.

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Tutto quello che hanno avuto è un dono faticoso del talento, che non li lascia un secondo respirare. Avrebbero voluto essere qualche volta normali a un tocco di palla o a un colpo di pedale, ma quello che avevano dentro non glielo permetteva, facendo godere loro e noi. Ma tra loro e noi c’è una grande differenza. Noi possiamo pensare ad altro, loro quel talento che ne ticchettava gli istanti dovevano portarselo addosso e non è sempre una cosa facile.

Arrivati in cima li hanno scaraventati giù. Erano diventati than larger the sport e quando accade non li guidi più. Li hanno voluti per i cartelloni pubblicitari, hanno fatto accorrere tanti al grido “Udite Udite” e poi li hanno chiusi in una stanza buia, mentre fuori le luci stroboscopiche accecavano coloro che erano venuti per loro. L’ultima cosa che gli si poteva dire alla fine era “Grazie”, perché era la prova che il delitto era stato commesso. E poi li hanno lasciati lì, a vegetare ognuno nella propria straordinarietà, come se accompagnarsi con gli angeli fosse una cena di gala. “Hanno sbagliato loro, hanno scelto loro di annientarsi”. La frase del vicino ottuso riecheggia sempre ogni volta che mettiamo a tavola il tema. Annientarsi era la soluzione, non una scappatoia.

Oggi, 14 febbraio, ricordiamo ancora una volta Marco Pantani e ci fa sempre male, non demorde quell’angoscia nel non sapere cosa sarebbe stato se. Era lo sportivo più eccitante che l’Italia ci aveva dato da anni, lo abbiamo scaraventato nel cesso delle disillusioni perché non stava nei ranghi. Per questa assurdità ci deve essere qualcuno che anche fra cento anni dovrà pagare.

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