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Possanzini è l’artefice del Mantova che sogna la Serie B: “La mia idea di calcio nata nel giardino di casa”

Il Mantova corre in vetta al girone A della Serie C e uno degli artefici di questa bellissima realtà è Davide Possanzini: l’allenatore dei Virgiliani a Fanpage.it ha parlato della stagione in corso, della sua idea di calcio e del suo passato da calciatore.
A cura di Vito Lamorte
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Davide Possanzini saluta i tifosi del Martelli.
Davide Possanzini saluta i tifosi del Martelli.

Il Mantova sta dominando il girone A della Serie C e sogna il ritorno in B dopo quattordici anni. Il buio degli anni scorsi si sta diradando e la luce sta investendo nuovamente la squadra virgiliana, che domina in campo e in classifica: 63 punti in 26 partite conditi da 50 gol fatti e 17 subiti per un distacco di 8 punti sulla seconda. L'ultima vittoria è arrivata in casa dell'Alessandria e ha certificato una maturità importante in vista del rush finale: saper soffrire e lottare oltre ad avere sempre chiaro cosa portare in campo.

Alla guida del Mantova dalla scorsa estate c'è Davide Possanzini, che in tanti ricorderanno nelle vesti di calciatore ma che ora è uno degli allenatori emergenti più interessanti del panorama italiano. L'ex attaccante ha lavorato tanto nei settori giovanili e in seguito all'esperienza come vice di Roberto De Zerbi ha deciso di fare il grande passo: dopo un passaggio a Brescia è arrivata la chiamata dalla città dei Gonzaga.

Il Mantova gioca bene, diverte e si diverte ma i tifosi virgiliani sono di ‘bocca buona': nella seconda metà degli anni ’50 la squadra lombarda piazzò una scalata dalla quinta divisione alla Serie A, guidata da Edmondo Fabbri in panchina e da Italo Allodi come dirigente, tanto da meritarsi l’appellativo di ‘Piccolo Brasile‘, soprannome coniato da un giornale di Lucca al termine dell’ennesima, larga, vittoria della squadra in campionato.

"Dal piccolo Brasile alla serie A": è il murales che raffigura gli undici calciatori del Mantova nel suo primo anno di Serie A nei pressi dello stadio fatto dagli studenti del liceo artistico "Giulio Romano".
"Dal piccolo Brasile alla serie A": è il murales che raffigura gli undici calciatori del Mantova nel suo primo anno di Serie A nei pressi dello stadio fatto dagli studenti del liceo artistico "Giulio Romano".

Lo stadio Danilo Martelli ha vissuto periodi di splendore e altri di profonda tristezza ma la squadra di Possanzini ha riportato grande entusiasmo nella città lombarda dopo la retrocessione dello scorso anno: il nuovo progetto del presidente Piccoli ha preso forma dopo la riammissione in C e dalla “tragedia sportiva” si è creata un'occasione per buttare giù tutto e ricostruire.

Al Mantova piace tenere la palla, giocare da dietro e occupare il campo in maniera fluida: lavora molto bene in costruzione e sviluppa diverse varianti anche a seconda dell’aggressività degli avversari per superare la prima pressione e innescare i calciatori offensivi. Il modo in cui questa squadra ha appreso le idee del suo allenatore e le sta portando avanti è sorprendente, se a questo si aggiungono anche i risultati è chiaro che questa stagione può entrare di diritto nella storia del club.

Davide Possanzini a Fanpage.it ha parlato del lavoro fatto in questi mesi a Mantova, della sua idea di calcio e del suo passato, tra esperienze in panchina e il suo percorso da calciatore.

Il Mantova è la vera sorpresa dell’intera Serie C: da dove nasce questo primato?
"Quando sono arrivato qui c’erano le macerie. Io avevo parlato con Cristian Botturi (attuale ds del Mantova) prima che decidesse di venire al Mantova, ma non sapevamo la categoria visto la retrocessione. Non c’era nemmeno un giocatore ma il presidente aveva promesso di ‘riportare la squadra dove meritava’. Abbiamo parlato di calcio, di giocatori e l’area scouting ha fatto un lavoro eccellente: dopo avermi iniziare a proporre calciatori funzionali, abbiamo fatto un mix di giovani ed esperti. Abbiamo iniziato a lavorare su questa linea, cercando di essere sostenibili e competitivi allo stesso momento: non abbiamo mai parlato di vittoria del campionato ma di ridare dignità ad una piazza che ha una storia importante. Abbiamo creato tutto dal niente, dando vita a gerarchie nuove e azzerato inquinamenti e rancori vecchi. I ragazzi li abbiamo scelti in base alle qualità tecniche ma abbiamo fatto dei colloqui sia il direttore che io per esporgli l’idea che avevamo in testa. Siamo stati fortunati a trovare dei ragazzi che hanno formato un gruppo bellissimo, che si frequenta anche fuori dal campo. Siamo lì e non è un caso ma non era quello che ci aspettavamo. Chiaramente uno ci spera ma non lo avevamo programmato. Adesso, però, il mio compito è quello di tenere la squadra sempre con la stessa mentalità del 17 luglio. Se viviamo con quella mentalità possiamo fare cose importanti. Vorrei custodire quello spirito che ci ha portato fin qui. L’obiettivo che ci eravamo prefissati era una salvezza tranquilla e ridare visibilità ad una squadra, con cui il tifoso si potesse identificare e immedesimare. Quello l’abbiamo raggiunto, secondo me, con un lavoro fatto nella massima tranquillità e spero che continui così fino alla fine".

Il Mantova sviluppa un calcio davvero interessante, con principi e idee che si vedono in altre categorie: in che modo i ragazzi hanno accolto la sua proposta di gioco?
"Credo che abbiano trovato credibilità e che abbiano visto che alle parole seguivano i fatti. Penso che abbiano visto come tutto quello che gli era stato spiegato potevano ritrovarlo e si sono messi in gioco. Io sono innamorato perdutamente dei miei giocatori perché alla fine sono loro che concretizzano l’idea che hai in mente. Non è solo l’idea che esalta la qualità ma la qualità che esalta l’idea. Io credo che in cuor loro abbiano accolto di buon grado questa idea anche perché, per alcuni, era un modo per farsi notare e non essere classificati solo come calciatori di Serie C. Mi hanno dato la loro disponibilità e di questo li ringrazierò sempre perché non ho fatto nulla per meritare la credibilità che mi hanno dato. Loro mi hanno dato tanto sia a livello umano che a livello tattico. Lo stesso ho fatto io con loro, e per me è stato un mix importante. Credo che questo sia un tesoro inestimabile, al di là del risultato. Mi hanno permesso di vedere concretamente cose che avevo solo pensato finora, per questo li ringrazierò sempre".

Davide Possanzini in panchina con De Zerbi ai tempi del Sassuolo.
Davide Possanzini in panchina con De Zerbi ai tempi del Sassuolo.

Da dove nasce la sua idea di calcio.
"Nasce dal giardino di casa, quando giocavamo nella strada di periferia vicino casa. C’era un campetto d’erba con gli scivoli ma quando c’erano le mamme con i bambini non potevamo giocare lì, così andavamo davanti ai garage del condominio e sopra c’era un balcone. Ogni volta che tiravamo la palla alta finiva la partita perché la signora ce la tagliava. Così decidemmo di giocare solo palla a terra. Inconsciamente parte da quello ma ti posso dire che avendo fatto l’attaccante e avendo vissuto tante frustrazioni, perché il calcio prima era molto più diretto rispetto ad ora e di palle giocabili ne ho avuto davvero poche rispetto a quelle che avrei voluto. Quando ho iniziato a maturare l’idea, perché inizialmente non volevo farlo l’allenatore, mi dicevo ‘io queste cose qua ai miei giocatori non le faccio fare’. La palla deve arrivare pulita davanti, così mi puoi far vedere le qualità che hai. Dopo aver chiuso la carriera da giocatore ho iniziato a studiare per capire quale movimento potesse essere migliore per smarcarsi o per fare una certa giocata, così guardavo tante partite e tanti allenatori. In quel momento storico lì c’era il Barcellona di Guardiola e cercavo di capire il meccanismo che c’era dietro. Subito dopo aver smesso di giocare ho fatto l’allenatore degli allievi e ho fatto il corso con De Zerbi. Abbiamo iniziato a parlare, ad avere dei punti in comune: ci mettevamo seduti foglio e penna e condividevamo delle idee. Lui poi è andato a Foggia, qualche anno dopo, e quando io ho chiuso con le giovanili a Brescia mi ha chiesto se volevo raggiungerlo per fargli da secondo. Con lui ho fatto sette anni, quindi ci sono diverse cose simili. Lavorare nel settore giovanile e come secondo credo mi abbiano aiutato tanto perché fanno vedere le dinamiche dello spogliatoio in maniera diversa perché non c’è la pressione dell’allenatore in prima, soprattutto nel caso del vice. Ho visto questo mondo anche da un’altra angolazione e provo a non discostarmi dall’idea che ho. Se io devo proporre una cosa ad un calciatore ci devo credere e devo essere credibile, sennò ti smascherano subito. Quando ho fatto il vice non ho fatto cose diverse da quello che sono e lo stesso devo fare ora altrimenti perderei di credibilità subito. Voglio viverla comunque in maniera leggera, mettere a proprio agio il calciatore e parlarci 27 volte per capire ogni dettaglio".

Quanto influisce su questa idea il fatto che ha giocato e conosce come si sta in campo.
"Io credo che conti tanto, ma ci sono due modi di vederla e di agire rispetto a cose che hai vissuto in passato. Se rivedi una situazione brutta simile alla tua o ti giri dall’altra parte oppure dici ‘io quella cosa lì non voglio farla rivivere a nessuno’. La penso così. A me è capitato e ai miei calciatori non voglio fargliela vivere perché so quanto mi ha tolto. Una volta i calciatori erano più esecutori che interpreti, perché era il calcio che lo imponeva ma adesso c’è una continua evoluzione. Dal mio punto di vista io non impongo, non voglio esecutori, ma te le voglio spiegare le cose e ti voglio dare degli strumenti, delle informazioni. Poi le usi come vuoi. Per quello che posso sapere mi piace spiegare e non voglio esecutori, poi tutto dipende da loro".

Davide Possanzini in panchina al Brescia: la sua esperienza con la prima squadra delle Rondinelle è durata due partite.
Davide Possanzini in panchina al Brescia: la sua esperienza con la prima squadra delle Rondinelle è durata due partite.

Faceva parte dello staff di De Zerbi allo Shakthar Donetsk: che momenti avete vissuto allo scoppio della guerra e che ricordi si porta da quella esperienza?
"Noi abbiamo vissuto quella situazione da ignoranti e incoscienti perché pensi che nel 2022 non possa accadere una cosa del genere. Eravamo stati avvisati da dicembre dall’ambasciata italiana per farci lasciare il paese perché c’erano delle avvisaglie. Abbiamo ascoltato le rassicurazioni della società ma quando si è capito che avrebbero attaccato era troppo tardi e siamo rimasti lì. Siamo stati cinque giorni nell’impotenza e nella paura prima di riuscire a tornare. Abbiamo aspettato e poi ci hanno aiutato a lasciare il paese. Nessuno sa che cosa può accadere, cos’è una guerra e le strategie che ci sono. Tutti pensano alle bombe che ti arrivano da sopra ma c’è un regolamento con punti da attaccare prima e dopo. Sono stati cinque giorni lunghissimi ma poi ce l’abbiamo fatta ad uscire. È una cosa che ti segna perché pensi che sia una cosa da libri di storia o da racconto dei nonni invece no. Avrei voluto condividere con quel gruppo altri tipi di esperienze ma anche queste cose servono per imparare e crescere".

Torniamo al campo. Spesso e volentieri vediamo Burrai piazzarsi vicino al portiere sulle rimesse dal fondo: ci spiega da dove nasce quest’idea per rimettere in gioco la palla?
"Se lo metto fuori dall’area lo prendono subito, invece in area non possono entrare. Burrai, in realtà, ci ha messo del suo in questa idea. L’avversario non può entrare in quella zona di campo e con il nostro modo di giocare, che vengono sui riferimenti (uomo su uomo), non vanno sul portiere altrimenti si libera un giocatore. Se il giocatore si mette lì, l’avversario può anche andare a prenderlo ma a quel punto il portiere può prendersi qualche metro e così si crea una sorta di esca per liberare l’uomo. Burrai dà la palla al portiere e crea una linea, ma in quel momento Burrai è un giocatore libero che abbiamo: in quel caso i compagni vanno sul ‘terzo uomo’ e lo liberiamo per andare in campo aperto. Nasce dall’idea che accorciando lo spazio, se va la palla indietro e la distanza è breve si continua la pressione: allora io l’accorcio già quella distanza e se lui continua la corsa sappiamo cosa fare, sennò Festa (il portiere del Mantova) gioca la palla".

Perché la costruzione dal basso, che voi fate in maniera naturale, viene considerata una sorta di ‘male assoluto’ nel dibattito calcistico italiano?
"Perché non si vuole andare in fondo alle cose, non si vuole approfondire. Il genere umano tende a catalogare le cose e alcuni pensano che questo sia uno strumento che alcuni allenatori utilizzano solo per essere definiti ‘esteti’ o perché gli piace farsi vedere. Io muovo la palla dietro perché se mi vieni a prendere si crea tanto di quello spazio che vado a fare gol subito: non lo faccio perché voglio uscire palla al piede perché l’obiettivo è sempre lo stesso, ovvero fare gol. Se c’è da calciare lungo si va anche lungo, non ci sono problemi, ma l’idea è che io devo svuotare per poter andare in quello spazio occupato. Bisogna studiare perché certe cose possono aiutare a fare gol in maniera più semplice. Ma poi la domanda è un’altra: perché in una parte di campo è più rischioso giocare che in un’altra? Allora mettiamo una regola specifica e non facciamo giocare in area, ad esempio. Spesso si pensa che dietro ad una giocata non ci sia nulla di preparato e tutto venga fatto in automatico ma in qualche caso anche il calcione in avanti è stato pensato per determinate situazioni. Solo che alcuni se ne accorgono e altri no. Poi subentra il dibattito giochisti-non giochisti, che è una roba che non esiste".

Ma davvero esistono i giochisti e i risultatisti?
"Giocano tutti, ma ognuno lo fa a modo suo. Io cerco solo uno strumento diverso per fare vincere e non mi fermo a quello che già si sa. C’è gente che non si vuole aprire e conoscere nuove cose, mentre se sei curioso poi puoi scegliere quello che vuoi fare. Io non contesto chi vuole giocare con la squadra tutta dietro o ha altre idee, non mi permetterò mai di dire ‘anticalcio’ o robe simili, ma permettete che io gioco come voglio oppure no?".

Davide Possanzini con la maglia della Reggina in occasione della storica vittoria contro l'Inter al Granillo.
Davide Possanzini con la maglia della Reggina in occasione della storica vittoria contro l'Inter al Granillo.

138 gol complessivi segnati in vent’anni da professionista. 
“Io ho vissuto delle frustrazioni clamorose da giocatore. C’è una cosa che ancora non ho capito come viverla perché in molti, oggi, mi dicono ‘per quanto eri forte non hai fatto la carriera che avresti meritato’: io so che ho fatto quello che mi sono meritato ma so anche che mi sono molto limitato. Quindi non so come prenderla, se è un complimento o no. So che ho dato tutto ma so di non aver dato 100%, ovviamente per responsabilità mia e anche perché ho giocato in un calcio molto diverso da questo. In campo un giocatore fa vedere davvero com’è un uomo, e lo ripeto spesso ai miei ragazzi, perché il campo non mente mai. Io sotto quel punto di vista sono sempre stato un generoso e ho cercato di essere importante per il gruppo. Quando mi dicono quella frase mi fa piacere perché vuol dire che qualcuno si è accorto di me ma, allo stesso tempo, penso di aver sbagliato qualcosa“.

Com’era la Serie A delle ‘sette sorelle’’.
“Era clamorosa. Era un calcio completamente diverso e il gap era talmente alto che in alcuni casi le ‘sette sorelle’ erano ingiocabili. Da qualche anno, però, c’è un coraggio diverso quando si affrontano le big rispetto a quando andavamo ad affrontarle noi. In quel periodo lì c’erano dei giocatori assurdi e tu gli davi tutto lo spazio perché stavi lì e non provavi mai a portarli in un campo scomodo per loro. Stando sempre dietro addirittura li aiutavamo, secondo me".

Davide Possanzini dà indicazioni alla sua squadra.
Davide Possanzini dà indicazioni alla sua squadra.

A Brescia lei è stato un simbolo in campo ed è molto apprezzato. Poi c’è la parentesi in panchina, con l’esonero dello scorso anno: ma è vera la leggenda che il presidente Cellino è sceso negli spogliatoi per rimproverare lei e la squadra all’intervallo della partita col Benevento?
“La piazzata non l’ha fatta a me ma ai giocatori, però era indirettamente rivolta a me. In quel momento lì era deleterio fare una cosa del genere perché il giocatore lo distruggi, inoltre io avevo appena finito di dire esattamente l’opposto di quello che ha detto lui. Ha distrutto quella poca fiducia che avevo provato a portare al gruppo. In realtà, con lui non ho più avuto un confronto e mi ha fatto chiamare dal direttore per apportare delle modifiche al modo di giocare e alla squadra, ma erano talmente tante che dissi a Perinetti che avrebbe fatto prima a cambiare l’allenatore se doveva fare tutte quelle modifiche. Così andò. Se io fossi un presidente, però, so solo che vorrei uno che pensa con la propria testa e non un burattino in mano mia. Io in 12 giorni ho fatto tutto quello che potevo fare e ho dato tutto, ma se uno mi chiede di modificare tutto quello che sono allora io dico che forse è meglio cambiare l’allenatore e amen. Io c’avrei voluto parlare dopo, ma dopo non l’ho più visto né sentito. Ho provato a chiamarlo diverse volte ma niente, lui mi fece chiamare dal direttore”.

Quali sono i prossimi step che il Mantova deve fare, da qui alla fine del campionato.
“Non dobbiamo pensare alla classifica. Se pensiamo alla classifica subentrano paure e aspettative, che sono le cose peggiori per fare questo sport. Noi dobbiamo essere fedeli alla nostra idea e dobbiamo farlo con spensieratezza, ma non con superficialità. Sono due cose diverse che spesso vengono confuse. Ripensare da dove siamo partiti e a quello che abbiamo fatto finora, a come lo abbiamo fatto finora. Tutto il resto non mi interessa niente. Possiamo anche perderle tutte ma se io vedo queste cose non dirò mai niente ai miei ragazzi. Mi incazzerei nel caso dovesse subentrare la paura, l’ansia. Noi abbiamo fatto un lavoro straordinario fino ad ora e può capitare che il cammino possa normalizzarsi ma non è detto che dobbiamo buttare via tutto, anzi dobbiamo credere a quello che siamo perché ci ha portato fino a qui“.

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