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Opinioni

Italia fuori dalla Champions: quel momento dell’anno con le stesse domande e le solite risposte

Con l’eliminazione anche della Lazio l’Italia è fuori agli ottavi di Champions League. Non accadeva da 5 anni. Inter e Juventus le delusioni maggiori. L’Atalanta è un sogno costruito in provincia che dimensiona il nostro calcio. Il club di Lotito non è riuscito nemmeno a fare il solletico all’avversario. Il resto sono chiacchiere e chimere utilizzate per giustificare la nostra insipienza tattica, identitaria, tecnica che fa il paio con il fallimento di un sistema che non ha un progetto e litiga su tutto, a cominciare dai diritti TV. Una delle perle di saggezza tra le frasi del Trap spiega bene come siamo messi: “Non inseguo chimere, le lascio agli altri. Icaro volava, ma Icaro era un pirla”.
A cura di Maurizio De Santis
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Ha ragione Fabio Caressa quando, a corredo del naufragio in Champions League, dice che in Italia il pallone "pesa" meno che in Europa e per questo i club sono svantaggiati quando varcano le Alpi. In effetti, il ‘peso' sportivo della Serie A nel ‘vecchio continente' è divenuto impalpabile. Quanto alle caratteristiche della sfera menzionate dal telecronista di Sky e penalizzanti – a suo dire – rispetto ad altri Paesi, lasciamo a margine una delle perle di saggezza di Giovanni Trapattoni: Il pallone è una bella cosa ma non va dimenticato che è gonfio d’aria... e di chiacchiere utilizzate per giustificare la nostra insipienza tattica, identitaria, tecnica che fa il paio con il fallimento di un sistema senza un progetto, dall'orizzonte limitato e litigioso su tutto, a cominciare dai diritti TV.

La realtà dei fatti è che, anche al cospetto di avversari meno quotati, siamo come quei pugili che fanno la faccia da duro e si dimenano in conferenza poi vanno giù al primo cazzotto ben assestato sul ring. L'ultima volta che le connazionali non hanno superato lo sbarramento degli ottavi è stato cinque anni fa: nella stagione 2015-2016 la Juventus (che l'anno prima era arrivata in finale) sfiorò l'impresa a Monaco di Baviera e uscì solo ai supplementari, la Roma – nell'edizione successiva avrebbe messo paura al Liverpool in semifinale – pagò dazio al Real Madrid che avrebbe sollevato il trofeo nella sfida tutta spagnola, in faccia al Cholo e ai rivali storici dell'Atletico. Gong… tutti a casa suonati. In ordine crescente di disastro è successo all'Atalanta, alla Lazio, alla Juventus e all'Inter. Anzi, proprio il flop di queste ultime due – le società storicamente più forti in campionato – ha dimensionato il calcio italiano.

Il monte ingaggi dell'Atalanta (42.6 milioni di euro, 11° in Serie A), i risultati ottenuti (fuori ai quarti in Champions contro il Psg che sarebbe arrivato in finale, fuori adesso agli ottavi contro il Real Madrid) esaltano le qualità del suo allenatore, Gian Piero Gasperini, e premiano la lungimiranza della società, capace di trarre il massimo profitto da investimenti oculati. Poche squadre si identificano con il lavoro del tecnico e la questione identitaria è uno degli aspetti cruciali per spiegare perché crolliamo con poco onore. La ‘dea' gioca un calcio che piace e lo fa senza timori, in Italia come in Europa. Onore al merito ma se alla fine le nostre speranze restano aggrappate a un sogno di provincia non è visione di cui fregiarsi.

La Lazio eliminata dal Bayern Monaco ha fatto quel che poteva, accontentandosi dei soldi della qualificazione e del passaggio del turno nella consapevolezza che, prima o poi, sarebbe andata a schiantarsi. Superare la fase a gironi era il maggior auspicio nel quale sperare e la forza dei tedeschi, campioni in carica, è tale da edulcorare la batosta presa tra andata e ritorno. Nessuno si aspettava di più da Simone Inzaghi. Resta, però, la sensazione che l'importante non può essere solo partecipare se non sei nemmeno in grado di fare il solletico al tuo rivale.

La Juventus è tutta nell'espressione contrita, impaurita e scomposta di Cristiano Ronaldo sistemato male/malissimo in barriera. Hai voglia a fare post muscolari nei quali ricordi al mondo intero chi sei e cosa hai vinto ma quell'immagine è la fotografia di un fallimento, personale e aziendale. Un campione non gioca per sé, o solo per sé, ma è in grado trascinare una squadra. E CR7, smorfie a parte, nulla è riuscito a infondere ai bianconeri al di là dei confini sabaudi. Il club lo aveva preso per conquistare la Champions, a costi elevatissimi e facendo della strategia delle plusvalenze – anche discutibili per valore – una fonte inevitabile di sostentamento. Ha scelto di consumare risorse nell'immediato, dimenticando che le vittorie e i cicli di vittorie sono frutto di un collettivo, di un'organizzazione, d'un progetto e il singolo non basta. Ha fatto all-in ma i risultati e i mancati introiti per la pandemia sono stati esiziali. In 3 anni è uscita una volta ai quarti e due agli ottavi.

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A Torino hanno crocifisso Massimiliano Allegri, definito desueto e poco europeo per la sconfitta contro i giovanotti dell'Ajax, e preso Maurizio Sarri convinti di fare la rivoluzione salvo ripensarci e poi tradirlo per affidare la squadra a un debuttante (Pirlo). Che senso ha una cosa del genere? Nessuno. In Germania, invece, hanno avuto la pazienza di credere nel lavoro di una generazione di allenatori che ha tracciato una strada e proposto un'idea di calcio: Marco Rose (Borussia Mönchengladbach, nella foto in basso), Julian Nagelsmann (Lipsia), Thomas Tuchel (adesso al Chelsea ma partito da Dortmund), Hans-Dieter Flick (Bayern) e Ralf Rangnick che in Italia il Milan ha scartato per dare una chance (opinabile) a Pioli e rinunciare a un cambiamento epocale.

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Eppure Allegri è stato l'unico allenatore italiano a portare la squadra in finale di Champions per 2 volte in 3 anni negli ultimi 6 anni. Lo ha fatto senza Ronaldo. E quando lo ha avuto, è uscito ai quarti contro i ‘Lancieri' con il marchio dell'infamia e di essere fautore di un calcio da dimenticare. Infatti, i risultati sul tavolo dicono che la "modernità" del calcio italiano è tale che, se oggi le cose vanno male, è perché i "palloni pesano troppo" rispetto al nostro campionato.

Se la Juve s'è buttata via, l'Inter è riuscita a fare anche peggio. Per il secondo anno consecutivo non ha superato la fase a gironi, questa volta fuori da tutto anche da quell'Europa League solo sfiorata in finale contro il Siviglia. Antonio Conte si conferma allergico al duplice ruolo di lotta (in Serie A, che gli riesce benissimo) e di governo (nelle Coppe, stessa tara coi bianconeri) e a giocatori come Eriksen, abituati a disegnare calcio e poco avvezzi all'idea del lancia la palla in avanti che se la vede Lukaku. Vincerà lo scudetto (così pare), darà un senso alla stagione oltre alla sua permanenza in panchina pagata profumatamente (12 milioni netti), salverà la faccia facendosi scudo del tricolore. Ma cosa ha seminato? Cosa lascerà in dote? Macerie, o quasi, a giudicare dai conti del club e dall'età di calciatori che ha voluto a ogni costo. Il resto sono chimere e come recita il Trap: "Non le inseguo, le lascio agli altri. Icaro volava, ma Icaro era un pirla".

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Da venticinque anni nel mondo dell’informazione. Ho iniziato alla vecchia maniera, partendo da zero, in redazioni che erano palestre di vita e di professione. Sono professionista dal 2002. L’esperienza mi ha portato dalla carta stampata fino all’editoria online, e in particolare a Fanpage.it che è sempre stato molto più di un giornale e per il quale lavoro da novembre 2012. È una porta verso una nuova dimensione del racconto giornalistico e della comunicazione: l’ho aperta e ci sono entrato riqualificandomi. Perché nella vita non si smette mai di imparare. Lo sport è la mia area di riferimento dal punto di vista professionale.
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