Georgi Minoungou è cieco da un occhio ma gioca al Mondiale per Club: “Faccio meglio di chi ne ha due”

Georgi Minoungou è cieco da un occhio, il sinistro. Ha perso parzialmente la vista a causa di un'infezione: non credeva che quel disturbo avvertito durante un tour di amichevoli coi Seattle Sunders gli avrebbe provocato conseguenze così devastanti. Venne operato ma l'intervento non gli fu d'aiuto. "È stato uno dei momenti più difficili della mia vita – ha spiegato l'ala 23enne di origine ivoriana -. In quel momento speravo di ottenere il contratto con la prima squadra". E gli crollò il mondo addosso. "Non so spiegare cosa sia successo. Quel che so è che il mio occhio, poco alla volta, non ha funzionato più". Un deficit che non gli ha impedito di continuare a giocare e adesso, al Mondiale per Club, c'è anche lui tra le fila della formazione che nella notte italiana incrocia l'Atletico Madrid e lunedì prossimo affronta il Paris Saint-Germain. E oggi, a chi gli chiede come fa a stare in campo, replica spavaldo: "Ho un occhio solo, ma posso fare meglio di chi ne ha due".

Un sogno che si avvera per Minoungou. Nel 2024 ha messo nero su bianco e s'è legato alla franchigia americana fino al 2028 (con opzione di rinnovo anche per l'anno successivo). La Major League ha imparato a conoscerlo sul campo: in 35 partite giocate ha segnato 1 gol e realizzato 5 assist. Il resto entra nel corredo accessorio di un esterno che si cimenta in duelli individuali grazie alla propensione al dribbling. Essere in Coppa del Mondo (sia pure per club) è già una bella conquista. MFK Vyskov e Tacoma Defiance le squadre nelle quali s'è fatto largo prima del trasferimento a Seattle. "Volevo arrivare ai massimi livelli – ha ammesso al Diario Marca – ho lavorato duro e ci sono riuscito".
Ce l'ha fatta nonostante la vita gli abbia tirato un brutto scherzo per la cecità all'occhio sinistro. Il problema alla vista non è stato l'unica montagna che ha dovuto scalare. Minoungou ha avuto problemi ad adattarsi alle regole tattiche, ai movimenti e alla disciplina di squadra. Non era (né è) una "testa calda" ma l'ambiente dal quale veniva era completamente differente. "Sono cresciuto in Africa e lì si giocava per strada. In strada ci allenavamo. E in contesti come quelli il calcio non ha regole, per questo quando i Tacoma mi hanno preso ero pessimo dal punto di vista tattico". Era abituato ai duelli fisici sull'asfalto: li vinci e vai avanti, dritto per dritto palla al piede. Li perdi e sei fuori. "Amavo solo ricevere palla uno contro uno e poi filare via per andare a far gol".