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Bruno Giordano: “Da anni non era più Maradona a rispondere ai messaggi. Erano di altri, si vedeva”

Bruno Giordano a Fanpage.it racconta storie di spogliatoio, di pallone vissuto e di quella passione che non invecchia mai: dalla Lazio al Napoli, dall’eredità di Chinaglia all’amicizia con Diego Armando Maradona.
A cura di Vito Lamorte
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La voce è quella di sempre, calma ma decisa. Bruno Giordano parla come giocava: senza giri di parole, diretto, istintivo, autentico. Dalla Lazio al Napoli, dall’eredità di Chinaglia alla maglia condivisa e all'amicizia con Diego Armando Maradona, l'ex attaccante ripercorre mezzo secolo di calcio e di vita. A Fanpage.it Bruno Giordano rilascia parole che profumano di spogliatoio, di pallone vissuto e di quella passione che non invecchia mai. Non solo calcio, ma valori e principi.

Qual è lo stato del calcio italiano secondo Bruno Giordano?
"Beh, direi che il calcio di oggi rispecchia un po’ gli ultimi anni. Forse anche quest’anno ci sarà una squadra che si staccherà, come è successo con Napoli e Inter nelle ultime stagioni. In generale, però, mi sembra un campionato più equilibrato, sia per la corsa al titolo che per le posizioni europee".

Quanto si diverte a fare l’opinionista calcistico?
"Mi piace molto, anche se non lo definirei un ‘divertimento'. Devi essere aggiornato, preparato, preciso. È un lavoro che faccio con scrupolo, perché resta il mio mondo. Mi piace parlare di calcio, confrontarmi, ma anche ascoltare".

Le è mai capitato che qualcuno si offendesse per un’opinione?
"No, mai in modo serio. È normale che non tutti la pensino come te: ci sarà sempre chi è d’accordo e chi no. Ma quello che dico è sempre frutto di fatti e numeri, non di amicizie o simpatie".

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Di recente ha partecipato alla partita tra Italia e Brasile al Maracanã. Che emozioni ha provato?
"Bellissime. È stato un grande evento, una rimpatriata tra tanti campioni degli anni ’80 — da Zico a Careca, da Junior a Leo. Ho anche conosciuto Gerson, un mito della mia infanzia. C’era un’atmosfera splendida, tra nostalgia e amicizia".

Giordano è cresciuto nel cuore di Trastevere. Che bambino era il piccolo Bruno con il pallone tra i piedi?
"Un bambino semplice, cresciuto in un quartiere povero ma pieno di umanità. Si giocava per strada, tra i vicoli, o in piazza Santa Maria in Trastevere. I nostri “stadi” erano quelli. Poi la parrocchia, le prime porte vere, e da lì la voglia di fare qualcosa in più".

Debutta in Serie A a 19 anni con la Lazio e segna subito. Che ricordo ha di quel giorno?
"Indimenticabile. Vincere a Genova con un mio gol all’esordio, al fianco di campioni come Chinaglia, Wilson, Re Cecconi e D’Amico… fu un sogno. Tornando a Trastevere trovai tutto il quartiere ad aspettarmi. Una festa di rione, emozionante".

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Da molti era considerato l’erede naturale di Chinaglia. Quanto pesava quella maglia numero 9?
"Molto, anzi tantissimo. Io non ero nemmeno un attaccante, giocavo da trequartista. Poi Maestrelli mi diede la 9 lasciata da Giorgio, e da lì nacque tutto. A 19 anni non senti la pressione, ma col tempo capisci quanto fosse pesante quella maglia".

A Napoli ha vissuto una delle esperienze più belle del calcio italiano. Com’era quel tridente con Maradona e Careca?
"Totalmente naturale. Bianchi ci dava linee guida, ma poi in campo parlavamo la stessa lingua. Ci muovevamo a istinto, riempiendo gli spazi con intesa e libertà. Era bello, facile e divertente giocare con due fenomeni come loro".

Che rapporto aveva con Diego fuori dal campo?
"Un rapporto vero, d’amicizia sincera. Diego era generoso, leale, un compagno speciale. Non ti faceva mai pesare chi fosse. Manca tanto — non solo il campione, ma l’uomo. Ho avuto il privilegio di conoscerlo e mi manca la sua risata, la sua umanità".

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Una domanda un po' personale, se non se la sente può dirmelo senza problemi: con Diego vi siete sentiti fino a quanto tempo fa? Si parla molto del modo in cui era assistito Maradona e ci sono diversi nodi irrisolti…
"Io non posso parlare per altri ma dico che negli ultimi anni mi rendevo conto che non erano messaggi di Diego quelli che tornavano a me. Erano sicuramente scritti da altre persone… se io prendevo quelli di prima e li confrontavo, era evidente".

Torniamo al campo e allo Scudetto del 1987. C’è un momento in cui avete capito che potevate davvero vincerlo?
"Sì, la vittoria a Bergamo. Fu lì che capimmo di poter arrivare fino in fondo. L’anno prima avevamo gettato le basi, ma quella partita ci diede la consapevolezza definitiva".

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Poi arrivò la rottura col Napoli e la famosa “ribellione” contro Ottavio Bianchi. Cosa accadde davvero nello spogliatoio?
"Nulla di clamoroso. C’erano voci e tensioni, la società non ci difese e noi firmammo una lettera per dire che avremmo dato tutto fino alla fine. Nessuna ribellione, solo la volontà di far capire all’ambiente che eravamo uniti".

Un altro momento personalmente complicato fu lo scandalo del Totonero: come ha vissuto quel periodo e cos’ha significato per lei la rinascita che ha vissuto successivamente?
"È un argomento vecchio, sono stato pienamente assolto e si tratta di una cosa di 50 anni fa ormai superata. Preferirei non ritornarci ancora".

Un’ultima battuta: da grande attaccante, come spiega la difficoltà di formare punte italiane di alto livello?
"Ci sono cicli. A volte nascono grandi attaccanti, altre meno. Forse oggi si chiede troppo lavoro difensivo alle punte, e questo toglie lucidità sotto porta. Ma chi ha il talento — come Haaland o Mbappé — riesce a fare entrambe le cose".

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