Alessandro Costacurta: “Nello spogliatoio del Milan trovai nonnismo. Poi sono diventato lo sceriffo”

Icona e bandiera del Milan, difensore tra i più intelligenti della sua epoca, opinionista lucido e onesto, Alessandro “Billy” Costacurta ha attraversato quasi trent’anni di calcio italiano, dalla gavetta nelle giovanili rossonere fino ai trionfi con Sacchi, Capello e Ancelotti. Cinque Coppe dei Campioni, sette scudetti, innumerevoli battaglie con i migliori attaccanti del mondo. In quest'intervista si racconta e riflette sul calcio di ieri e di oggi, tra aneddoti di spogliatoio, lezioni di vita e uno sguardo sempre disincantato.
Billy, partiamo dal passato. Ti ha mai dato fastidio essere stato un po' sottovalutato come difensore o che vengano sempre ricordati Baresi e Maldini prima di te?
Assolutamente no, veramente non mi ha mai dato fastidio che considerassero Baresi e Maldini più forti di me, perché lo erano. Il mio inserimento nel Milan è stato facilitato dall’avere accanto loro due, e anche Tassotti. Probabilmente con Mauro ho raggiunto lo stesso livello, ma non credo di aver mai toccato quello di Franco e Paolo nella fase difensiva e soprattutto offensiva. Erano due fantastici difensori, più bravi di me nell’impostazione e nella fase offensiva. Non è modestia: è la verità.
Cosa avresti “rubato” loro?
A Franco ho sempre ammirato la padronanza della palla quando andava in avanti. Cercavo di imitarlo, ma non ci sono mai riuscito. A Paolo, invece, la capacità di calciare con entrambi i piedi. Era destro e ha costruito una carriera straordinaria giocando a sinistra. E poi le sue doti fisiche, superiori alle mie. Ma sono solo alcune delle doti che avrei rubato a due dei migliori difensori di sempre.

Ti ricordi il giorno in cui ti dissero “vieni a fare due tiri col Milan”?
Giocavo nell’Asso, la mia squadra, e segnai due gol contro il Milan in una amichevole. Giocavo da centrocampista. Mi videro, e dopo un paio di mesi mi chiamarono per un provino a Milanello con Galbiati. Tutto nasce da lì. Ricordo la notte prima del primo allenamento: non dormii. Era l’8 agosto 1980, pochi giorni dopo la strage di Bologna. Mia madre, spaventata, non voleva che prendessi il treno da Gallarate per andare a Linate. Così Galbiati e Fausto Braga mi permisero di allenarmi a Milanello. È lì che tutto è iniziato. Un'opportunità unica.
In quella squadra c’erano già nomi importanti?
Sì, era la classe 1963, campioni d’Italia. Io ero un ’66, ma mi allenavo con loro, tutti ragazzi fortissimi. Galbiati e Braga vedevano qualcosa in me che io non percepivo. Mi fecero allenare con loro anche quando facevo brutte figure. A quell’età non ti regalano nulla, ma loro mi aiutarono tantissimo a diventare consapevole.
Mi piace l'aneddoto che ha raccontato Gattuso sullo spogliatoio del Milan. Tu eri una colonna portante di quello spogliatoio mentre lui era un giovanotto che andava messo in riga, Che tipo di leader eri?
Ero lo sceriffo. Ero severo. Diciamo che Paolo (Maldini) era più pacato, sereno, tranquillo, mentre io ero quello che faceva rispettare le regole nello spogliatoio. Lo sceriffo, come dicevo. Paolo era il leader carismatico, io quello che faceva il “poliziotto cattivo”. Ma serviva, il clima era bello e qualche strigliata ogni tanto serviva per tenere tutti in riga, soprattutto i giovani che non conoscevano lo stile Milan e le regole non scritte dello spogliatoio.
E da ragazzo? Ti era capitato di subire qualche lezione di nonnismo?
Sì, eccome. Una volta però era la normalità. Arrivavo a Milanello a 17 anni e c’erano regole non scritte. Per esempio dovevamo pulire o “sformare”, si diceva una volta, le scarpe dei giocatori della prima squadra. A volte sbagliavamo e ci rimproveravano. Antonelli, Verza, Novellino… erano molto severi con me. Ma quella durezza era educazione. Oggi il nonnismo viene visto male, ma allora era solo un modo per insegnarti il rispetto. Io lo considero formativo. Il calcio mi ha insegnato più l'educazione che la tattica.
Addirittura dicevi che il servizio militare ti fece bene.
Sì, l’ho fatto mentre giocavo in Serie A e in Nazionale Under 21. Credo che, con gli strumenti di oggi, il militare potrebbe essere terapeutico. Ti insegna disciplina, rispetto, appartenenza. Valori che nel calcio, allora, erano comuni. Ma non lo dico in un'ottica politica o bellica, ma proprio come educazione, condivisione di esperienza e valori con persone molto diverse da te.
Tra i tanti trofei che hai vinto, qual è quello più speciale?
Per me, la Coppa dei Campioni del 1989 a Barcellona. Giocammo davanti a 90 mila milanisti: un evento unico, una marea rossonera. Era vent’anni che il Milan non vinceva la Coppa. Entrare in campo e vedere quello spettacolo fu commovente. A livello personale, invece, la Champions del 2003 contro la Juve. Avevo un’età avanzata, non facevo più parte dei piani tecnici. È stata una rivincita personale.

E la delusione più grande?
Penso tu ti voglia riferire al Mondiale 94, ma per me non è così. Cioè, nel senso che vittoria e sconfitta fanno parte del calcio e io, ci tengo a vincere certo, ma l'importante è che io riesca a dare il 100%. Quello che mi ha deluso è non aver giocato la finale del 1994. Ero stato squalificato per una stupidata fatta in semifinale: un fallo su Stoichkov che avevo fatto solo perché mi stava antipatico (ride). Me la sono sempre rinfacciata, ma non considero quella partita una sconfitta. Quei 40 giorni con la squadra furono bellissimi. Un'esperienza unica e irripetibile.
Hai mai cercato di consolare Baggio per il rigore del ’94?
No, perché siamo diversi. Io non mi abbatto come non mi esalto. Vivo tutto con distacco. Non ho neanche una foto con la Coppa dei Campioni. Sarebbe impensabile per qualcuno, per me era normale. Dopo la finale col Milan nel 2003, non ho cercato la coppa: ho scavalcato le barriere per abbracciare mia madre e la mia futura moglie. Io le vittorie le vivo così.
Hai perso tuo padre da ragazzo. C’è stato un allenatore che ha rappresentato una figura paterna?
Ho considerato tanti allenatori delle figure importanti, ma credo che Fabio Capello si sia comportato con me come un padre. Mi ricordo che quando mio padre morì, lui venne al funerale. Gli dissi che non me la sentivo di tornare subito ad allenarmi, e lui mi rispose: “Tua madre non ha solo te. Ci sono altri parenti che possono stare con lei. Noi abbiamo bisogno di te.” Da quel giorno, per una settimana, venne lui a prendermi e riportarmi a casa fino al campo. Tutti i giorni. In quel momento difficile, è stato fondamentale.
Gli hai mai dedicato un trofeo?
No. Mio padre mi fulminerebbe se mi vedesse indicare il cielo dopo un gol (sorride). Non sono gesti che fanno parte di noi. Lo ricordo in modo più intimo. Ma anche io sono fatto così e anche mio figlio.
Difensori di ieri e di oggi: cosa è cambiato?
Molto. Noi passavamo ore ad allenarci sull’uno contro uno, sulla marcatura. Oggi si dà più importanza all’impostazione dal basso, all’atletismo. Non è un male, ma la base — saper marcare — non dovrebbe perdersi. Ora i difensori sono più tecnici ma meno difensori, in senso classico. Per questo vediamo tanti gol, tanti errori e forse anche più divertimento, chi lo sa.
Oggi sembra esserci penuria di grandi difensori.
Sì, i difensori forti sono pochi. Le società spendono centinaia di milioni per attaccanti, pochissimo per i difensori. In Italia, forse solo Buongiorno e un po’ Gatti hanno ancora la “vecchia” mentalità da marcatori. Bastoni e Calafiori sono bravi tecnicamente, ma in area marcano poco. Guarda anche a livello internazionale: il Liverpool ha investito centinaia di milioni per la fase offensiva e solo una trentina per quella difensiva, andando a prendere il giovanissimo Leoni (che purtroppo si è fatto subito male, nda).

E guardando il Milan di oggi?
Mi piace. Penso che si sia perso un anno andando su strade troppo “sperimentali” ed esotiche con i due allenatori portoghesi, Fonseca e Conceicao. Con Allegri, invece, si è scelto uno che sa come vincere in Italia. Non sempre il suo calcio è spettacolare, ma i giocatori sotto di lui migliorano, diventano più attenti e concreti. È un allenatore che sa raggiungere gli obiettivi.
Leao è un talento, ma sembra spesso “indolente”. Cosa ne pensi?
È vero, entra in campo con troppa leggerezza. Deve imparare a giocare con l’uomo addosso, non solo davanti. Se lo farà, diventerà devastante. Ma il Milan crea tanto, ha ritrovato solidità e questo è merito di Allegri.
Sul piano internazionale, come vedi il Pallone d’Oro? Meglio premiare il più forte o chi ha fatto la stagione migliore?
Io sto coi criteri. Nel 2010, per esempio, Messi era fortissimo ma Iniesta aveva vinto il Mondiale segnando in finale: era lui da premiare. Il Pallone d’Oro dovrebbe andare a chi fa vincere la squadra. Per me, quest’anno Donnarumma avrebbe meritato il riconoscimento: ha fatto parate decisive per il PSG. L'importante è seguire i criteri, qualsiasi essi siano. Una volta decisi, vanno seguiti e rispettati per non creare problematiche, illusioni e dissapori.
Nel 2006 l’avresti dato a Cannavaro?
Sì, ci stava. Fece una semifinale contro la Germania da urlo. Come difensore, dico che è stata una delle migliori partite che abbia mai visto. Non mi sarei scandalizzato se l’avessero dato a Buffon o Pirlo, ma Fabio lo meritava ed era capitano della Nazionale che vinse il Mondiale.
Dopo il ritiro, hai mai pensato di fare l’allenatore o il dirigente?
Allora, l'ho fatto per tre mesi a Mantova nel 2008, ma mi sono accorto che non avevo la passione giusta. Per fare l’allenatore devi essere come Conte: concentrato 24 ore su 24. Ossessionato. Io no. Mi piace troppo vivere, uscire con gli amici, stare con la famiglia, giocare a padel. Ho preferito fare altro. Da dirigente, l’esperienza più bella è stata quella di vice commissario della FIGC: la porterò sempre con me.

Qual è la tua passione fuori dal calcio?
Gioco spesso a padel. È un bel modo per tenersi in forma e divertirsi, anche se il calcio… quello vero, con lo spogliatoio, mi manca sempre. È la cosa che mi manca di più: le risate nello spogliatoio, non San Siro o il campo, ma quel luogo dove dentro c'è tutto, fatto di persone ed emozioni, sorrisi e litigate, lacrime e sudore.
A proposito di San Siro: sei per la conservazione o per lo stadio nuovo?
Io per lo stadio nuovo, moderno. Non mi affeziono alle cose materiali, come ti dicevo. San Siro resterà nel cuore, ma non serve vederlo per sentirlo.
A me piacerebbe lo chiamassero Fratelli Baresi, anche se l'omaggio di solito si fa a chi non c'è più.
Se dovessero costruirne uno nuovo, Fratelli Baresi è un bel nome. Sarebbe un omaggio bellissimo a due capitani che hanno rappresentato Milan e Inter con orgoglio, con etica, con lealtà e con talento. Approvo anche io (ride).