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Alberto Malesani oggi vive per il vino: “Il calcio non mi manca, ma mi preoccupano le bollette”

Alberto Malesani si è raccontato a 360° a Fanpage.it. Dalla sua carriera da allenatore fino alla sua passione per il vino e alla sua azienda di famiglia, con uno sguardo sul mondo del calcio attuale: “Andare in TV a parlare male dei colleghi mi rattristava”.
A cura di Vito Lamorte
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"Allenare è una cosa che mi manca, ma solo quell’aspetto. Il resto no". Alberto Malesani è l’ultimo allenatore italiano ad aver vinto con un club italiano in Europa ma il calcio per lui appartiene ad un'altra vita. Adesso c'è il vino e l'azienda di famiglia, La Giuva, che porta avanti un rapporto indissolubile con le sue radici e la sua terra. L'ex allenatore di Fiorentina, Modena, Palermo, Udinese, Siena e Bologna è stato molto apprezzato per diverso tempo per la modernità delle sue idee e per il modo in cui faceva esprimere le sue squadre: nel 1999 era secondo solo ad Alex Ferguson e Valerij Lobanovs'kyj nella classifica dei migliori allenatori UEFA. L'apice della sua carriera è arrivata a cavallo dei due millenni al Parma, quando i ducali vincono 3 coppe nell'arco di 4 mesi: la Coppa Italia, la Supercoppa Italiana e la Coppa UEFA; ultimo trionfo di una formazione italiana nella competizione.

Un brutto incidente d'auto, nel novembre del 2000, fu il preludio ad un periodo non felicissimo per Malesani: arrivò prima l'esonero con i gialloblù e poi la parentesi all'Hellas, che i suoi vecchi tifosi del Chievo non gli hanno mai perdonato e si concluse con una rocambolesca retrocessione. Le esperienze successive vedranno poche gioie e tante delusioni, ma il tecnico di San Michele riuscirà a ritagliarsi il suo spazio per come ha difeso il suo lavoro ai tempi di Panathinaikos e Genoa con due conferenze stampa che sono virali sui social ancora oggi. Queste cose, però, a lui non interessano più: "Ormai ho superato tutto, anche questo". A Fanpage.it Alberto Malesani si è raccontato a 360°, dalla sua carriera da allenatore fino alla sua passione per il vino e alla sua azienda di famiglia, con uno sguardo sul mondo del calcio attuale.

Malesani, l’idea di investire in un’azienda vinicola nacque dopo una trasferta a Bordeaux nel 1999: ci racconta questo momento?
"Lì ho preso la decisione, ma avevo già messo le basi prima. Io sono sempre stato vicino al mondo del vino, essendo cresciuto in queste zone e perché era la passione del mio papà. Lì si è concretizzata un’idea che mi aveva sempre affascinato".

Com’è la sua giornata tipo oggi?
"Vado a letto presto e mi alzo molto presto la mattina, faccio colazione e raggiungo la cantina dove prendo un altro caffè, così poi posso iniziare la mia attività. Mi occupo soprattutto della parte agricola, che riguarda la terra più che la cantina in sé".

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Con la crisi che incalza e i costi che stanno aumentando, da imprenditore è preoccupato?
"Siamo preoccupatissimi e non bisogna nasconderlo. Stanno arrivando bollette che sono il triplo di quelle normali, soprattutto in un periodo come questo in cui noi lavoriamo molto con i frigoriferi. Dobbiamo appassire le nostre uve, visto che con la Valpolicella si lavora molto in questo senso, e bisogna utilizzare ventilatori. Cerchiamo di andare su vie naturali e abbiamo una piccola parte di sostenibile, ma adesso stiamo cercando di capire cosa fare per il prossimo futuro".

Che annata è questa del 2022?
“È una bella annata. È partita molto bene e poi è diventata incerta per la siccità. Pur avendo noi l’impianto d’irrigazione, non era sufficiente. Facevamo fatica. Dopo abbiamo avuto l’aiuto dal cielo, perché la natura rimedia a tutto, con le piogge d’agosto. Un po’ meno quantità, ma tanta qualità”.

Segue ancora il calcio o l'ha messo da parte completamente? 
“Lo seguo in modo un po’ distaccato, ma lo seguo. Io tendo a guardare i giovani, ma ci sono degli allenatori che osservo sempre con piacere, tipo Ancelotti che è riuscito a rivincere tanti trofei e fa onore all’Italia confermandosi un grande gestore. Poi c’è Conte in Inghilterra che sta facendo buone cose, così come Spalletti a Napoli. Seguo con interesse Zanetti a Empoli e mi intriga molto De Zerbi al Brighton. Tutte situazioni diverse, ma ti portano a seguire per vedere se c’è qualcosa di nuovo”.

Lei è l’ultimo allenatore italiano ad aver vinto in Europa ma spesso e volentieri non ha la riconoscenza che meriterebbe. Perché?
“Nonostante siano 8-9 anni che non alleno più, devo dire che mi ricordano in tanti. Anche quando sono in strada o rivedo vecchi colleghi e calciatori. Noto che c’è un aspetto di gratitudine per quello che ho fatto e ho più riconoscimenti adesso che allora”.

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La sua ultima esperienza in panchina al Sassuolo durò solo 5 giornate: come la racconterebbe a distanza di anni?
“Era l’occasione per portare avanti le mie idee calcistiche in un club importante, che alla lunga ha mostrato il suo valore con delle basi solide e persone preparate. Purtroppo cinque giornate sono poche ed è difficile far vedere ciò che si ha in mente. Ma è la velocità del calcio, che va più forte di ogni altra azienda e se non si ottengono risultati subito si va incontro a queste cose. Nel momento in cui si fanno dei resoconti è difficile farli in maniera completa, perché a Sassuolo dopo quelle 5 gare, in cui avevamo affrontato squadre più forti, andavamo a Bologna contro una pari livello. Ma non mi sono mai aggrappato a queste cose nella mia carriera. Non ho nulla contro il club e lo ritengo un’occasione persa per esprimere ciò che avevo dentro”.

È sempre stato una persona vera, ma il calcio italiano è un posto per persone vere?
"Direi di sì, perché se parli chiaro e sei fedele al tuo pensiero non ti contraddici mai. Questo è importante soprattutto per chi è esposto mediaticamente, come accade nel calcio: essere se stessi è sempre la cosa migliore. Se uno è di natura ‘lamentone’ lo sarà anche come allenatore. Lo stesso anche se uno è sanguigno".

Se ripensa agli anni chiave della sua carriera, c’è una scelta che non rifarebbe?
“È dura! Nel momento in cui ero all’apice, e venivo fuori da tre anni di Parma con trofei, forse non avrei dovuto accettare la panchina del Verona. Avrei dovuto avere pazienza e aspettare una panchina di pari livello, non fare un passo indietro per tornare a lottare per la salvezza. In realtà, però, non so neanche se sia così corretto fare questo discorso adesso: ho deciso di andare al Verona, dopo essere cresciuto nel Chievo, e ho deciso col cuore. Per vincere bisogna avere la squadra forte, questo penso sia chiaro a tutti, e se vuoi vincere devi avere in mano del materiale importante. Quando si arriva ad un livello e si fa un passo indietro, poi non è facile ritornare di nuovo lì. Il cuore ha prevalso sulla razionalità, ma non ho nessun rammarico. È la vita che va così“.

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Per un allenatore è più importante avere un’idea giusta o saper trasferire quella stessa idea ai giocatori?
“Direi entrambe. Ma c'è una differenza tra le due cose: un’idea probabilmente ce l’hanno tutti ma il difficile è trasferirla ad altri. Chi è piatto non può pretendere di fare nulla, mentre chi ha entusiasmo, passione e esuberanza prima o dopo avrà un’idea che dovrà essere in grado di trasferire".

Fabio Cannavaro, in un'intervista a Fanpage.it, ha detto che il calcio è qualcosa di ciclico e quando si parla di ‘costruzione dal basso’ non viene menzionato il Parma di Malesani: è d’accordo?
“Io credo che quel Parma lì, sia come idee che come capacità di interpretarle, fosse un bel mix . Sarebbe molto attuale anche adesso. Se lei guarda la finale di Coppa Uefa contro il Marsiglia è difficile inquadrare la linea difensiva che accompagna la palla nel momento in cui si attacca: si notano spesso Thuram e Cannavaro molto vicini alla linea di centrocampo della mia squadra. Vuol dire che avevamo un certo tipo di idee, che adesso sono quasi diventate la normalità. Però questo non vuol dire che quello è il calcio corretto e gli altri no, dipende molto da che tipo di squadra hai: adesso c’è una controtendenza ad aspettare, di muovere i calciatori sulle linee interne e non esterne. Ci sono tante varianti, l’importante è analizzare e avere sempre l’idea giusta per prendere le contromisure. Il calcio è sempre in evoluzione, ma in generale ha ragione Fabio quando menziona la costruzione di quel Parma: era il 1999, sicuramente eravamo moderni".

Si parla tanto di scuola italiana e scuola europea, lei crede che davvero ci sia tutta questa differenza nella preparazione e nella lettura delle partite?
“Non credo ci sia più differenza. Dal punto di vista tattico e strategico abbiamo fatto scuola noi, mentre dal punto di vista motivazionale, delle scelte tecniche e della gestione societaria abbiamo fatto un piccolo passo indietro e sono avanzati gli altri. La globalizzazione ha coinvolto anche il calcio, tutto il mondo è paese ormai. Tutti sanno cosa fare e il calcio non è più quello di una volta. Non c’è più il mecenatismo ma tutto è industria”.

Nonostante lei abbia allenato nel calcio lontano dai social, alcuni suoi video sono virali tutt’oggi: questa cosa le fa piacere oppure le crea un po' di fastidio?
“Ormai ho superato tutto, anche questo. Facciano quello che vogliono, io non ho nulla da dire su quella roba lì. Ho un'età per andare oltre. L’importante è che le persone che ti frequentano ogni giorno sanno come sei, il resto non conta“.

Oggi c’è la tendenza a esaltare chiunque alla minima cosa positiva nel calcio: lei avrebbe avuto un percorso e una storia diversa nel mondo attuale?
“Sarei stato certamente agevolato, soprattutto per come ho vissuto io il calcio in maniera viscerale: probabilmente certe esternazioni e certe esultanze oggi sono normali mentre prima no, così come il modo di vestire. Io venivo considerato un po’ fuori dagli schemi, mentre ora è stato sdoganato un po’ tutto. Giustamente. Uno non è bravo quando esulta se la sua squadra fa il quarto gol, mentre è bravo se insulta o fa altre cose in panchina: adesso tutti vengono coinvolti nella festa, magari anche in situazioni non determinanti. Credo che adesso sarei agevolato e non sarei visto come uno che fa le cose fuori dalle regole“.

Qual è la proposta che aspettava per tornare in panchina e non gli è arrivata.
“C'è una proposta che non si è mai concretizzata, ovvero quella di non essere mai riuscito ad allenare una nazionale. Non ne ho fatto una malattia ma pensavo di meritarmi questa chance. È l’unica cosa che mi manca. C’è stato qualche abboccamento, ma arrivavo sempre secondo. È l’unico neo della mia carriera, per il resto sono felicissimo e non ho nulla da rimproverarmi”.

Le manca tanto allenare?
"Qualche allenamento in giro qua e là l’ho fatto, per qualche squadra dilettante della zona. Allenare è una cosa che mi manca, ma solo quell’aspetto di campo. Tutto il resto, il contorno, assolutamente no".

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Le piacerebbe fare il commentatore/opinionista in tv o non l’è mai interessato quel mondo?
“Ho provato ma non sono adatto per fare quelle cose. Ho fatto qualcosa con la Rai, ma dopo un paio di volte ho detto stop. Andare in tv e commentare negativamente un mio collega, sapendo tutto quello che passa, le fatiche e le difficoltà che vive, mi rattristava. Non fa per me. Soprattutto perché quando lo facevano altri con me non mi piaceva moltissimo”.

Nella classifica dei migliori allenatori UEFA del 1999 si è classificato dietro a due leggende come Ferguson e Lobanovs'kyj: è stato quello il punto più alto della sua carriera?
"Direi di sì. Purtroppo anche qui sono arrivato secondo, ma dietro a Ferguson e Lobanovs'kyj ci può stare".

È stato Malesani a lasciare il calcio o viceversa?
"Entrambi, direi insieme".

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