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La vittoria dei Golden State Warriors è un segnale per tutti: non c’è più solo Steph Curry

Il successo in gara 1 contro i Memphis Grizzlies evidenzia una volta di più come la squadra di coach Kerr sia in grado di competere anche con uno Steph normale.
A cura di Luca Mazzella
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Il punteggio finale di Memphis Grizzlies-Golden State Warriors, gara 1 delle semifinali di Western Conference dei Playoffs NBA, recita 117-116 per i secondi. La gara si è giocata in Tennessee, in casa degli “Orsi” e il miglior marcatore della squadra di Steve Kerr è Jordan Poole, lo scorso anno uomo-spola tra G-League e prima squadra assieme al nostro Nico Mannion, oggi bocca da fuoco principale della squadra di Curry, Thompson, Green. Poole ha chiuso la sfida a 31 punti, 8 rimbalzi e 9 assist, Steph l’ha messa sui binari giusti con una difesa superba su Morant a 15 secondi dalla fine, Klay ha segnato la tripla del sorpasso dopo una partita di alti e bassi contrassegnata però da un killer instinct che nessun infortunio potrà mai scalfire. E Draymond Green, perno difensivo del sistema e collante in attacco grazie alla sua intesa e ai suoi giochi a due con i portatori primari di palla, è stato espulso dopo 17 minuti e rimpiazzato alla grande da Gary Payton II, giramondo della lega, tagliato dai Los Angeles Lakers prima di trovare il suo posto ideale a San Francisco.

Qualcuno l’ha già ribattezzata “Death Lineup 2.0”, richiamando i fasti degli Hampton 5 nella versione con Kevin Durant (se vi state chiedendo il perché del nome, risale il triumvirato composto da Steph Curry, Klay Thompson e Andre Iguodala si recò in persona al quartiere The Hamptons di Long Islanda, a casa Durant, per convincere il giocatore a firmare per i Warriors) nel quintetto completato poi da Andrew Wiggins e ovviamente Draymond Green. E ne ha ben ragione, dato che abbiamo davanti agli occhi una Golden State che ricorda pericolosamente quel tipo di squadra, nelle spaziature, nella capacità di giocare assieme, nell’assenza di egoismi, nella difficoltà per gli avversari di accoppiarsi a 5 giocatori tutti abili con la palla nelle mani, tutti in grado di giocare faccia a canestro, tutti in grado di aiutarsi e supportarsi alla pari in difesa.

La vittoria contro Memphis, arrivata grazie agli uomini appena menzionati dopo essere stata più volte vicina alla doppia cifra di svantaggio, testimonia una volta di più la bontà del lavoro del reparto scouting e player development di una squadra che ha saputo rinnovarsi dietro le quinte, quasi nascondendo le sue nuove gemme, e incastrandole a perfezione in un sistema dove l’obiettivo è replicare la stessa qualità di gioco tra titolari e riserve. È così che Jordan Poole si è trasformato in una sorta di Curry 2.0: range che va ben oltre gli 8 metri, capacità di far collassare la difesa pronta a seguirlo in ogni zona del campo, abilità nel far uscire la palla dai raddoppi, disarmante bravura nell’uscire dai blocchi lontano dalla palla.

Ed è allo stesso modo che un energy guy come Gary Payton II – si il numero I è “The Glove”, leggenda degli anni ‘90 – si è trasformato in una versione più dinamica e atletica di Draymond Green, con qualche skill in più sul piano fisico, vedi schiacciata a difesa schierata, meno visione di gioco in attacco (dove gioca da bloccante o tagliante dagli angoli) e meno leadership vocale in difesa, che nel suo caso fanno invece posto a un agonismo che gli consente di restare accoppiato anche al più temibile degli avversari.

Completa il novero delle certezze il sempre bistrattato Andrew Wiggins, non certo All-Star come sospinto a furor di popolo lo scorso febbraio, ma solido giocatore sulle due metà campo a cui Steve Kerr ha trovato collocazione e ruolo ideali. Per finire, i complementi di nome Kevon Looney, Otto Porter, e i giovani in rampa di lancio Jonathan Kuminga (già usato con eccellenti risultati) e Moses Moody, le ultime due pietre preziose che lo stesso Draymond Green pare aver suggerito al front-office per continuare a rigenerare una squadra senza mai farle perdere competitività nell’immediato. Un segreto di elisir di lunga vita che per due decenni è appartenuto ai San Antonio Spurs e che oggi Kerr, discepolo proprio di quel Gregg Popovich abile mente della legacy texana, sta replicando.

Perché tra il primo anello di questa dinastia (2015) e la sua conformazione attuale sono già passati 7 anni, e perché l’età delle nuove leve lascia ben sperare per le prossime stagioni, anche considerando il riposo che verrà concesso a cuor leggero ai veterani del gruppo. Di cui fa parte ovviamente Klay Thompson, non più letale e atletico come prima dei due seri infortuni consecutivi, ma pur sempre assassino a sangue freddo se si tratta di segnare la tripla più importante del match.

Con tutti questi ingredienti il capolavoro collettivo è servito: Steph Curry può permettersi una partita complessa per problemi di falli, impreziosita però dalla difesa nel finale su Morant. Klay può sparare a salve ma avere sufficiente spazio per segnare la tripla del 117-116 dal momento che la difesa non sa letteralmente su chi accoppiarsi tra le tante minacce presenti, e Green può assistere alla potenza sprigionata da Gary Payton guidandolo al contempo dalla panchina nei movimenti difensivi. Una squadra che sa prescindere dai propri leader e imporsi comunque sul campo caldissimo della truppa di Taylor Jenkins, per giunta trascinati da un superbo Jaren Jackson Jr e dalla prima vera partita di Morant-da Morant, è una squadra destinata a grandi cose. Non è un segreto, infatti, che questi Warriors abbiano nel mirino l'anello di campioni NBA, oggi e…domani. Le premesse ci sono tutte.

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