
Long Story Short, la nuova serie creata da Raphael Bob-Waksberg e distribuita da Netflix, già rinnovata per una seconda stagione, non assomiglia quasi in niente a BoJack Horseman. Cambia il design dei personaggi, curato sempre da Lisa Hanawalt, e cambia soprattutto il tono della narrazione. Long Story Short parla di una famiglia, gli Schwooper, e lo fa ambientando la storia in un mondo che assomiglia incredibilmente al nostro: a un certo punto, viene raccontato anche il periodo della pandemia, con l’isolamento, i collegamenti da casa e le mascherine. Non è una serie di pura satira sociale. O almeno, non è solo questo: perché alcune riflessioni, specialmente sul ceto medio, resistono.
In Long Story Short c’è altro. C’è il nostro rapporto con la nostra famiglia, con le persone con cui siamo cresciuti e che abbiamo conosciuto per tutta la nostra vita. Il dramma e la commedia sono intrecciati in modo intelligente; c’è una ricercatezza precisa nella costruzione della messa in scena, proprio per non lasciare fuori niente. Né i momenti più amari né quelli – volontariamente o, più spesso, involontariamente – divertenti. La storia va avanti e indietro nel tempo, dagli anni Novanta, quando Avi, Shira e Yoshi, i tre fratelli protagonisti, sono poco più che adolescenti, fino ai primi anni Venti del Duemila, quando sono oramai adulti, hanno messo su famiglia, scelto una strada e conosciuto il mondo per quello che è.
Gli Schwooper sono ebrei, e nella serie c’è pure questo aspetto: il bar mitzvah di Yoshi, le cene di famiglia, la religione, il tempio, le preghiere. Long Story Short non sceglie uno stile realistico per le sue animazioni; è tutto semplice, abbozzato e immediato. E, proprio per questo, funziona. Bob-Waksberg ha provato a prendere un’altra direzione rispetto a BoJack Horseman, e ci è riuscito. Quella che seguiamo non è la vita di un personaggio che si sta avvicinando rapidamente alla sua autodistruzione, che fa abuso di droghe, che non sa mantenere una relazione sana nella sua vita. Gli Schwooper hanno i loro difetti. La madre della famiglia, Naomi, è onnipresente e spesso asfissiante. Il padre, Elliot, è brillante, ma non è mai in grado di avere il polso della situazione.

L’avanti e indietro costante nel tempo permette a Bob-Waksberg e agli altri sceneggiatori di raccontare una storia più complessa sotto diversi punti di vista: andando nel futuro, è possibile parlare di morte e di lutto, della sua accettazione; tornando invece nel passato, si possono scoprire dettagli sulla vita dei personaggi, senza abbandonarsi a momentanei flashback. Se BoJack Horseman puntava all’estremo, Long Story Short è più contenuta, posata, e vuole fotografare la normalità del ceto medio, con i suoi trascorsi, i suoi segreti e le sue piccole rivincite. Non ci sono scorciatoie. Bob-Waksberg sa fino a dove spingersi, e soprattutto sa su cosa concentrarsi.
La sessualità dei tre fratelli, la loro vita privata e il rapporto che i loro genitori hanno con i loro amici e i loro partner fanno parte di un quadro decisamente più ampio e variegato, e per questo ricchissimo. Long Story Short è una serie che si rivolge chiaramente a un pubblico più adulto. Eppure ha i suoi momenti più delicati e accoglienti, che possono parlare a chiunque. La regia fa attenzione unicamente a ciò che le interessa, e così intorno ai protagonisti il mondo sfuma, le altre persone diventano sagome abbozzate, i lineamenti si fanno ancora più semplici, come il disegno di un bambino. Ma è questa essenzialità che rende Long Story Short così interessante. Ci sono due livelli: uno volutamente più complesso che coincide con la scrittura, dunque con il tono del racconto, le battute e la progressione degli eventi; l’altro più superficiale e immediato, pieno di colori e di forme, che coincide con i disegni e con l’animazione in 2D.

Ognuno dei tre fratelli ha una sua riconoscibilità e un suo carattere, dato anche dal doppiaggio (un consiglio: se potete, recuperatela in lingua originale). La religione non viene mai presentata come un elemento alieno, o distante, della loro vita. Anzi. Fa parte della loro quotidianità. E non ci sono né approssimazioni né patetismi. In dieci episodi, ci viene mostrato un mondo unico, a tratti familiare, dove ci sono dinamiche che conosciamo estremamente bene: il fratello maggiore che viene preferito dalla madre e che per questo viene protetto da qualunque cosa; la sorella di mezzo che prova a ritagliarsi una sua strada, e il fratello più piccolo che vuole essere una persona differente e adulta. I genitori, Naomi ed Elliott, appartengono chiaramente a un’altra generazione, e anche in questo Long Story Short dimostra tutta la sua forza: non nasconde la verità; non prova a edulcorarla. La mostra esattamente per quella che è. Imperfetta, piena di errori, incertezze e brutture. Ma pure di momenti bellissimi, da conservare e da ricordare insieme.
