Massimo Buscemi: “Il mio viso è impossibile da dimenticare. Quelli che il Calcio? Fazio coraggioso a lanciare Idris”

Un nome che a molti non suscita alcuna reazione, ma poi ti appare il suo volto ed il collegamento è istantaneo, immediato. E’ il destino di chi da sempre definisce il proprio viso “un triangolo scaleno”, per questo “impossibile da dimenticare”. Lui è Massimo Alfredo Giuseppe Maria Buscemi. Baffi inconfondibili, naso importante e lineamenti apparentemente malinconici, è stato uno dei caratteristi più espressivi del cinema italiano degli anni settanta e ottanta, mentre grazie alla sua memoria enciclopedica divenne una delle colonne del “Quelli che il calcio” targato Fabio Fazio. Una cultura “tassonomica e non nozionistica, per la precisione”, come tendeva a ribadire al termine di ogni intervento.
La faccia, dicevamo. “Quando mi proponevo per dei lavori, capitava che mio padre scrivesse nel mio curriculum ‘bella presenza comunicativa’”, racconta a Fanpage. “A quel punto i selezionatori alzavano gli occhi, mi guardavano e rimanevano sorpresi. Venivo visto in una certa maniera, inutile negarlo, però sapevo propormi. Avevo un atteggiamento sempre super, non mi sono mai pianto addosso. Anche se ne avrei avuto i motivi”.
Classe 1947, Buscemi nasce a Laveno-Mombello, paese bagnato dal lago Maggiore: “Sono venuto alla luce il 1° ottobre, alle 16.30, di mercoledì”, puntualizza, quasi a voler rafforzare il proprio tratto distintivo. Poi si fa serio: “Nella mia vita non ho rimorsi, tranne uno, legato alla scuola. Ho la colpa di aver fatto spendere tanti soldi ai miei genitori per gli studi. Dopo essermi riportato cinque materie alla Ragioneria, mi mandarono in un istituto privato. Frequentai fino al quinto anno, ma non tenni gli esami per il diploma. Ai miei ho dato tutto, ma su questo fronte mi sento in colpa. Fu denaro buttato via e, per una famiglia di impiegati, i sacrifici non furono indifferenti”.
In compenso, cominciò a lavorare presto.
Iniziai a 14 anni e non mi fermai più. Ho fatto di tutto: il fattorino, il venditore di deodoranti e di bibbie. Andavo addirittura dalle famiglie che erano state colpite da un lutto a proporre l’ingrandimento della foto del loro caro.
Le cose migliorarono quando approdò alla Sanpellegrino.
Sì. Ero un funzionario e questo mi consentì di girare per tutta l’Italia. Prendevo 537 mila lire al mese. Il mio aspetto può trarre in inganno, ma con la lingua sono sempre stato il top, nonostante il mio titolo di studio si fermi alla terza media. Non a caso, successivamente mi cercò la Sangemini.
E proprio alla Sangemini le cambiò inaspettatamente la vita.
In pausa pranzo andavamo a mangiare sempre nel solito ristorante. Nel tavolo vicino c’erano alcuni signori e li sentivo parlare insistentemente di pubblicità e caroselli. Un bel giorno uno di questi si alzò e si diresse verso di me: ‘Mi perdoni, posso farle una proposta?’. ‘Mi dica pure’. ‘Farebbe l’attore in un ‘Carosello’ della Galbani?’. Così avvenne il mio ingresso nel mondo dello spettacolo. Io non ho mai chiesto niente.
Oltre al “Carosello” assieme a Johnny Dorelli arrivò anche il cinema.
Mossi i primi passi in qualche film erotico, poi arrivarono i lavori con Adriano Celentano e Renato Pozzetto: ‘Asso’, ‘Il bisbetico domato’, ‘Un povero ricco’. Grazie alla mia faccia venivo subito riconosciuto e ciò fu fondamentale. Mi ha permesso di arrivare dove altri, non avendo una caratterizzazione, non sono riusciti. Forse il mio unico demerito è essere stato superficiale in alcuni frangenti.
Ossia?
In tanti film, pur ricoprendo ruoli importanti, non comparivo nei titoli di testa. Non vedevi scritto il mio nome, prova a farci caso. Purtroppo all’epoca non si badava troppo a queste cose.
Tra le innumerevoli passioni, non va dimenticata la musica.
Ho suonato per tanti anni la batteria e l’emozione più grande della mia vita è stata quando potei comprarmene una. Nel 1967 partecipai al Cantagiro con i Rogers, poi fu la volta de Gli Umili. Mi sono esibito a lungo nei vari dancing di Milano ed è là che una sera conobbi colei che sarebbe divenuta mia moglie.
In pochi sanno che dal 1983 al 1986 fu il segretario di Teo Teocoli.
Fu un triennio molto formativo. Oggi tutti si definiscono manager, io no: ero il segretario. Punto. Non avevo bisogno della carica per essere me stesso. Non ho mai avuto la necessità di apparire.

Concretamente, il segretario di cosa si occupava?
Era come essere la mamma o il papà dell’artista. In seguito passai con Zuzzurro e Gaspare, con i quali rimasi per trentasette anni.
Nel periodo con Teocoli fu testimone dello screzio con Berlusconi.
Esatto. Diciamo che fui presente nel suo periodo più brutto (sorride, ndr). Teo è una grandissima persona, ma ha un carattere mica da ridere.
Com’era stare al seguito dei comici?
Era come entrare in una camera ardente, mi conceda questo paragone. Appena scesi dal palco cambiavano tutti umore. Ne ho analizzati tanti: probabilmente hanno il timore di essere considerati nella vita reale nella stessa maniera di quando sono al lavoro. Quindi nel privato si trasformano e diventano seri.
Arriviamo a “Quelli che il calcio”. Chi la contattò?
Mi scoprì Paolo Beldì, un tipo strano, fatto alla sua maniera, ma al contempo una bravissima persona. Ho trovato sulla mia strada gente che mi ha voluto bene, come lo stesso Fazio, tra gli uomini migliori che abbia mai conosciuto. Sa metterti a tuo agio e ha capito che in tv è importante il modo in cui ti proponi. Con me è stato sempre educato e gentile. E’ capitato che mi proponesse di andarlo a trovare in tv. ‘Tu telefonami e io vengo’, è stata la mia risposta. Tra noi c’è un rapporto bellissimo.
La interrogavano a sorpresa e lei, per tutta risposta, conosceva qualunque tipo di risultato, statistica o carriera di calciatore.
Sapevo tutto e non c’erano i tablet a supportarmi. Ora purtroppo un po’ di memoria l’ho persa e la cosa mi provoca malinconia. In fin dei conti ho 78 anni. Sai, la mente è strana: hai perfettamente immortalati avvenimenti di cinquant’anni fa e magari ti capita di non ricordare cosa hai mangiato ieri a cena.
Come si allenava?
Per le mie ricerche consultavo le enciclopedie del calcio. Non esisteva alcun trucco, tutto era regolare e non mi informavano prima delle domande che avrei ricevuto. Se mi chiedevano di Rivera, in pochi secondi snocciolavo l’anno e il luogo di nascita, le squadre in cui aveva militato e i gol segnati.
Idris, Suor Paola, Beldì. Negli ultimi tempi se ne sono andate parecchie figure iconiche di quell’avventura.
Idris era una bravissima persona e Fazio, che è di un’intelligenza pazzesca, compì una mossa coraggiosa nel lanciarlo. Suor Paola si dava da fare per i meno abbienti, era una donna meravigliosa. E’ stato davvero triste perderli, ma questa è la vita, purtroppo.

Nel 2001 Fazio mollò “Quelli che…” e lei fece altrettanto. Come mai non rimase nel cast?
Terminai con Fabio perché smisero di chiamarmi. In realtà nemmeno io mi proposi più a loro. Questo è il mio handicap: non so chiedere, è più forte di me.
Risulta iscritto all’Ordine dei Giornalisti.
Confermo. Tutto quello che dicevo a ‘Quelli che il calcio’ equivaleva al lavoro di ricerca di un giornalista. Venne paragonato ad un pezzo giornalistico e mi concessero il diritto di ritirare il tesserino.
Una vita ricchissima e una memoria di ferro. Perché non scriverci un libro?
Non ho ambizione, ho sempre saputo accontentarmi. Tante volte mi incazzo con me stesso. Sono di un’umiltà da far paura. Non ho bisogno di farmi vedere.
La tv è un capitolo chiuso?
Ripeto: non chiedo mai e, fondamentalmente, mi ritengo un timido. Se uno mi vuole, mi cerca. Di sicuro in televisione non ci andrei gratis. Anche se si trattava di ricevere una lira, l’ho sempre pretesa.
Salutiamoci con una massima.
Sono come l’Amaretto di Saronno: tutto ciò che resiste al tempo, diventa tradizione. Sono un uomo all’antica e il numero del mio cellulare è lì a dimostrarlo. Sono uno dei pochi ad avere come prefisso il 337. Per la precisione.