Lino Banfi: “Io e Alvaro Vitali come Totò e Peppino, non eravamo amici”

A 89 anni compiuti da poco, Lino Banfi non conosce la parola riposo. Dal Circeo, dove sta trascorrendo le vacanze estive, il "nonno d'Italia" racconta a Fanpage.it i suoi prossimi progetti: "Ho fatto due cose contemporaneamente, quando usciranno saranno due bombe". Il primo è il film con Pio e Amedeo "Oi vita mia!" dove interpreta un ex professore di filosofia in una casa di riposo alle prese con i primi segnali dell'Alzheimer. Il secondo è il docufilm autobiografico "Lino d'Italia. Storia di un ITALIENO" diretto da Marco Spagnoli, che dovrebbe approdare direttamente su Rai1.
Ma Banfi non si limita ai progetti futuri. Nell'intervista chiarisce una volta per tutte il rapporto con Alvaro Vitali, scomparso a giugno: "Io non ero un suo amico. Lavoravamo insieme, ma non ci siamo più visti". E spiega: "Avevo proposto lui per Medico in famiglia, ma i produttori non l'hanno voluto, che ci posso fare?". Il parallelo coi grandi del passato: "Anche tra Totò e Peppino non c'era un grande rapporto d'amicizia. Anche tra gli stessi Eduardo e Peppino, che erano addirittura fratelli, non c'era un grande rapporto d’amicizia. Nel nostro caso, poi, capitava che stavi per tre anni senza fare un’altra cosa insieme, non è che in quei tre anni ci vedevamo o andavamo a cena".
Come stanno andando le vacanze di Lino Banfi quest'anno?
Alla grande. Mi sento un ragazzo. Sono appena entrato nei 90 anni e mi trovo bene, non voglio più tornare indietro. Stavo vedendo il terreno, dico fammi vedere com'è. Se è vero che a novant’anni si ha paura, allora torno indietro e trovo un’altra soluzione.
E invece?
E invece sono serenissimo. Perché guardo avanti, ho ancora tanto lavoro. Ho fatto due cose contemporaneamente, quando usciranno saranno due bombe.
Possiamo anticipare qualcosa?
Ho fatto un film con Pio e Amedeo, una bella partecipazione in un bel film. Loro sono bravi. Stavano aspettando il momento giusto per dare una botta di serietà alla loro professione, per dimostrare che non sono solo quei dissacranti che sono. Sono bravi attori. E poi c'è la nostra interregionalità.
Lei un po' li tiene a battesimo tutti. Al tempo fu per Checco Zalone, con quel bellissimo ruolo del senatore traffichino in Quo Vado. E adesso? Che ruolo ha per Pio e Amedeo?
Posso accennare poco, perché sennò poi mi rimproverano i ragazzi. Sono uno che sta in una casa di riposo per anziani, un ex professore di filosofia che però non è convinto ancora se è già nell’Alzheimer, se ci è vicino, se sta per arrivare. Non vedo l’ora di vedermi. Abbiamo giocato a fare i commedianti, ma l’argomento è molto serio.
E l'altro progetto?
Ho fatto il docufilm finalmente sulla mia vita che volevo fare. Mi sono sempre detto: “Facciamolo quando sono vivo, che se lo facciamo da morto…”. Marco Spagnoli, un bravissimo regista di documentari, è uno che ha vinto premi, mi ha fatto una proposta. Io gli ho detto di sì, ma devo pure fare di testa mia. Io non amo fare le sceneggiature se non c’è del “banfismo”. Cambio tutto, faccio le battute come dico io. Se poi ritengono che non sono opportune, posso tagliarle. Ma se sono buone, le devono lasciarle. È interesse loro, mica mio.
E le battute del documentario sono state buone?
Sono rimaste tutte. Questo, infatti, non è un docufilm ma è un ‘largometraggio’, così l’ho chiamato. Perché non è né lungometraggio, né cortometraggio. È un largo della mia vita, quindi ‘largometraggio”. C’erano curiosità e soddisfazioni che volevo togliermi, come quella di parlare con mio padre, che non ha fatto in tempo a vedere tutto il mio successo. Così ho interpretato Lino Banfi, mio padre e ho interpretato pure Pasquale Zagaria, tre personaggi che hanno discusso tra loro.
Pasquale Zagaria in quanto se stesso, o il personaggio, il primo personaggio prima che arrivasse Lino Banfi?
No, in quanto me stesso, la mia coscienza. Ora dobbiamo solo vederlo, pare che lo voglia la Rai e potrebbe andare in onda direttamente su Rai1. Si chiamerà “Lino d’Italia. Storia di un ITALIENO”.
Le segue ancora le polemiche tra politica e cinema? S’è fatta una idea sulla questione del ‘tax credit’ e, soprattutto, ai suoi tempi che rapporto c'era tra arte e istituzioni?
No, quando ero giovane non c’era niente. Le sovvenzioni venivano date solo a quelle produzioni d’autore, quelle che poi avrebbero vinto i premi. I nostri film non appartenevano a quella categoria. Erano film che si facevano per arricchire i produttori e per diventare famosi, se uno sapeva essere degno di esserlo. Ecco perché io facevo due tre film dopo l’altro: la professoressa, la dottoressa, l’insegnante. Però io ponevo le mie condizioni.
Quali erano?
Che per ogni film che facevo di questi, poi me ne dovevano fare uno come dicevo io, con Pozzetto, con Celentano, con tutti quelli che ritenevo essere più avanti di me. E me lo facevo mettere per iscritto. Ecco perché mi sono trovato dopo nei posti buoni, perché mi ero preparato il terreno: “Faccio questo, ma dopo voglio fare pure quello”. Non sono mai voluto essere solo quello di “Porca puttena!”.
Lei sa benissimo di essere molto popolare su TikTok, ne parlammo anche nell’ultima intervista. Ora, però, è spuntato un video degli anni ’80, di un’ospitata con Raimondo Vianello da Corrado al Pranzo è servito. In questo video fate la gara a chi ride per primo, come in LOL. Se lo ricorda questo siparietto?
Me lo ricordo benissimo perché io adoravo sia Vianello che Corrado. Eravamo molto amici e loro mi volevano molto bene. E fu una scena vera, non riuscivamo a resistere né io senza ridere né lui. Non mi ricordo, credo che ho vinto io, però.
Sì, perché lei gli fa: “Corrado Mantoni!”. E Vianello scoppia a ridere.
È una scenetta carina. Vorrei rivederla, ma non la mettono mai a Techetecheté. Forse perché è proprietà di Mediaset.

Senta, non posso non chiederle di Alvaro Vitali. Lei è stato chiarissimo, ha pubblicato un video netto, preciso.
Intanto, dico che se si ha Fede, bisogna sempre pregare per le persone che non ci sono più. Dopodiché, io non ero un suo amico. Lavoravamo insieme, ma non ci siamo più visti. Lui prese la sua strada e io la mia. Come si fanno a dire certe cose, che io magari non l’ho aiutato. L’ho detto pure più volte che io dissi alla produzione di Un medico in famiglia: “Guardate che per questo ruolo andrebbe bene Alvaro Vitali”.
E cosa rispose la produzione?
“Ma dai, chi prendiamo? Noi facciamo Medico in famiglia, ti prego, tu non dici neanche una parolaccia”. Io non facevo il produttore, quindi non potevo dare tutto questo aiuto, non avevo tutta questa possibilità d’intervento.

E sull’appuntamento con Edwige Fenech?
Lui diceva: “È venuta in Italia, è andata da Lino e non mi ha detto niente”. Ma perché la Fenech avrebbe dovuto dire ad Alvaro Vitali che veniva da me, se lo conosceva appena? E non lo potevo fare io perché di mio arbitrio mi mettevo a chiamare altre persone? Se quella voleva venire a salutare solo me, come amico, ci sarebbero state poi delle cose che non collimano.
Forse è una percezione distorta che crea il pubblico. Si dà per scontato che due attori che magari hanno lavorato per dieci, dodici film, abbiano un grande rapporto d’amicizia. E magari non è così.
Ma certo. Anche tra Totò e Peppino non c'era un grande rapporto d'amicizia. Anche tra gli stessi Eduardo e Peppino, che erano addirittura fratelli, non c'era un grande rapporto d’amicizia. Nel nostro caso, poi, capitava che stavi per tre anni senza fare un’altra cosa insieme, non è che in quei tre anni ci vedevamo o andavamo a cena. Ognuno aveva la sua vita, aveva la sua storia e seguiva i sogni che voleva.
Ancora una riflessione e poi la lascio andare. In apertura, ha detto che i novant’anni le piacciono. Mi dice come ci si reinventa giorno dopo giorno? Come si coltiva la sua vitalità e, soprattutto, mi spiega, signor Banfi, che cos’è il banfismo?
Un certo Massimiliano Bianconcini che è un giornalista che si è sempre occupato di enogastronomia, di giornalismo buono, amante dello spettacolo, studioso di un certo tipo di film, ha scritto un trattato sulla vita Banfi che si chiama "Dalla parte di Lino. Vieni avanti cretino, l'evoluzione della specie banfiota". Lui, senza parlare di Lino Banfi, della mia carriera, della mia famiglia, niente di tutto questo, parla dei personaggi che io ho rappresentato in un trattato di cinquecento pagine. Ha spiegato il mio linguaggio, perché secondo lui agivo in quel modo. Alla fine ha aggiunto che io stavo creando una nuova ‘razza’: la ‘razza banfiota’. Anche Papa Francesco l’aveva capito perché mi diceva: "Tu hai inventato un genere, un modo di parlare, per questo la gente ti vuole bene".