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Guido Barendson, ex Tg5 e Tg2: “Berlusconi mi telefonò dopo una rassegna notturna. Mentana formidabile, ma non lo seguo”

Lo storico mezzobusto di Tg5 e Tg2 si racconta a Fanpage.it: “Mi informo soprattutto su Sky e sulle tv straniere. Mentana è formidabile, ma la sua è un’informazione povera di cronaca estera”. Sul fondatore di Mediaset: “Mi chiese di tagliare i baffi. Gli spiegai che erano la mia firma”.
A cura di Massimo Falcioni
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Cognome importante e volto popolarissimo. Guido Barendson, nipote di Maurizio, è stato per anni uno dei mezzibusti più popolari, con una carriera divisa tra Tg5 e Tg2. “Mio zio portò il calcio in televisione”, racconta orgoglioso a Fanpage.it. “Cresciuto in una famiglia borghese napoletana, era un intellettuale che assieme a Francesco Rosi, Raffaele La Capria e Giuseppe Patroni Griffi prese parte al ‘Gruppo Chiaia’”.

Napoli, per l’appunto, città del cuore di Guido che, stando alla carta d’identità, risulta tuttavia nato a Milano. “Fu un caso. I miei genitori vivevano a Londra e si fermarono per due anni nel capoluogo lombardo. Il periodo della giovinezza l’ho passato in giro, molto in compagnia di mia nonna partenopea, figura per me molto preziosa, e con lunghi momenti trascorsi a Capri, dove avevamo casa. Insomma, il mio cuore batte nel Golfo”.

Barendson ha probabilmente lontane origini olandesi: “Mio padre fece delle ricerche e scoprì dei legami con dei mercanti di religione ebraica costretti a fuggire nel Mediterraneo. Fecero base proprio a Napoli, città che fino a due secoli fa rivendicava uno dei porti più importanti in assoluto. Poi altri Barendson dovrebbero vivere in Francia, mentre mia madre era scozzese. Diciamo che siamo una famiglia europea ante litteram”.

La passione per il giornalismo arrivò sin dall’adolescenza: “Decisi che avrei fatto questo mestiere a 16-17 anni, con le prime vere collaborazioni che presero il via durante l’università. Mi muovevo tra radio e giornali e nel 1974 con due amici fondai Radio Antenna Musica, che si sentiva solo a Roma. Era l’epoca delle primissime radio libere”.

Di lì a poco sbarcò a “L’Espresso”.

Allora era un settimanale prestigioso e ci rimasi fino a quando seppi che sarebbe nato un nuovo quotidiano: ‘La Repubblica’. Mi presentai in una redazione piccolissima per un colloquio e mi presero. Iniziai a fare pratica e a lavorare senza orari.

Riuscì a laurearsi?

No e mio padre si incazzò molto. Ma quando notò che gli sforzi mi davano soddisfazione e risultati, dovette rinunciare e rassegnarsi.

A “Repubblica” di cosa si occupava?

Seguivo la cronaca. Eravamo una quarantina di ragazzi che cercavano di conquistarsi un’unica sedia. Aspettavamo che qualcuno si alzasse per prendercela. La mia fortuna fu quella di parlare inglese. Ero bilingue e Sandro Viola mi propose di spostarmi alla sezione ‘esteri’. Grazie a questo passaggio fui il più giovane dei praticanti ad essere assunto.

Fece presto strada.

Maturai prima esperienza dentro la redazione, diventando caposervizio. In seguito mi misi a viaggiare. Mi appassionai al racconto delle guerre del Medio Oriente e del nord Africa, che purtroppo non sono mai terminate. Poi coprii l’Europa e gli Stati Uniti, diventando il numero due della redazione di New York.

La prima esperienza televisiva fu quella al Tg5.

Sì. Rimasi per ben sedici anni a ‘Repubblica’ e nel 1991, mentre ero a Gerusalemme, mi arrivò per fax la rassegna stampa quotidiana. Su un trafiletto lessi che Silvio Berlusconi aveva dato l’incarico a Mentana di fondare il telegiornale di Canale 5. Chiamai Enrico e con parecchia rapidità approdai agli ‘esteri’, con la carica di responsabile della cronaca internazionale.

Conosceva già Mentana?

Ci eravamo visti una volta, ma alla base c’era una grande stima reciproca. Era davvero un altro mondo: non ti veniva chiesto che simpatie politiche avessi e non dovevi baciare la pantofola. Se eri capace di dimostrare un certo grado di professionalità, avevi molte chance di entrare e non solo nel giornalismo. Oggi c’è la corsa dei tori, i giovani non hanno la garanzia di un futuro assicurato, né uno stipendio dignitoso.

Le settimane precedenti alla data di lancio furono assai caotiche.

È normale, vale per tutte le start-up. Io ne ho un ricordo bellissimo, sono sempre stato un ‘garibaldino’ e non ho mai avuto timore dei cambiamenti. C’era normale casino, nella prima giornata di messa in onda non partirono una marea di servizi. In rete ci sono filmati di quella prima edizione. A Mentana, che era alla conduzione, sudavano così tanto fronte e naso che gli calavano costantemente gli occhiali.

In compenso all’esordio batteste il Tg1.

C’era grande curiosità. Quando cominci a marciare a ritmo costante si vede poi la differenza tra gli scattisti e i maratoneti. Noi eravamo scattisti, ma diventammo presto competitivi, togliendoci numerose soddisfazioni.

Quando conquistò la conduzione?

Dopo uno o due anni. Fu Clemente Mimun a proporre a Mentana di testarmi. Partii con la rassegna stampa della notte, successivamente imitata da tutti. Fu un po’ una nostra invenzione.

A quei tempi non c’erano i touch screen.

Avevamo persone che andavano a prendere fisicamente i quotidiani. Poi per fortuna le prime pagine cominciarono a mandarcele per fax. Ora le rassegne sono lunghissime ed inutili. Io e mia moglie Benedetta l’altra sera ridevamo. Ci siamo convinti che ormai alcuni giornali vanno in stampa solo per apparire in rassegna e raccogliere un po’ di pubblicità. Altrimenti non si spiega.

Cerchiavate e sottolineavate le notizie rilevanti usando i pennarelli.

A tal proposito, ti svelo un episodio riguardante Berlusconi. Una sera, terminata la rassegna, calò un silenzio improvviso in studio. Mi informarono che al telefono c’era il presidente e che voleva parlare con me. Alzai la cornetta e lui con modi gentili andò al sodo: ‘Signor Barendson, perché questa sera ha utilizzato l’evidenziatore verde?’. Gli risposi con tranquillità: ‘Perché quello giallo non lo avevamo’.

E lui?

Mi comunicò che dal giorno seguente avremmo avuto una ricca fornitura di pennarelli gialli. Era ancora il Berlusconi imprenditore, lontano dalla politica. Controllava tutto.

Non posso non chiederle dei baffi. Chiese anche a lei di tagliarli?

Certo (ride, ndr). Prese l’argomento in maniera spiritosa e gli spiegai che i baffi erano la mia firma. La sua non fu mai una vera pressione. Quella del padrone cattivo era una leggenda. Ad esempio, sapeva bene che non ero di destra, eppure mi assunse. Gli importava che fossi bravo.

Mentana rivelò che la decisione di sfidare il Tg1 delle 20 fu proprio sua.

Cercava le sfide dirette ed è un concetto che si è spesso manifestato nella mia carriera. Quando nacque ‘Repubblica’, dalle parti del ‘Corriere’ ci fu una reazione miope: ‘Che ci frega, tanto quello che non viene pubblicato da noi è come se non esistesse’. Fu un errore strategico clamoroso perché ingaggiammo un testa a testa avvincente. Probabilmente Berlusconi fece questa riflessione, regalando così al Tg5 lunghi periodi di brillantezza. I duelli danno responsabilità a coloro che li vivono. Questa filosofia si è persa: editori e giornali non hanno più soldi. Pensa, quando viaggiavo in Medio Oriente avevo almeno dieci colleghi di quotidiani italiani. Ora neppure ‘Repubblica’ e ‘Corriere’ investono più per mandare un corrispondente sei mesi fuori. Tanti inviati di guerra non godono nemmeno della copertura assicurativa.

La storica redazione del Tg5
La storica redazione del Tg5

Accennava alle spedizioni da inviato. Si è imbattuto in numerosi scenari di guerra.

Per la carta stampata andai tante volte in Libano, oltre che in Tunisia, Algeria, Libia e Marocco. Per non parlare dell’Iran, Paese meraviglioso, e dell’Iraq, in occasione della prima Guerra del Golfo. Per il Tg5, invece, il primo impegno fu in Jugoslavia per documentare il conflitto, a cui si aggiunsero ancora Libano, Israele e Giordania.

Un inviato di guerra ci pensa mai alla morte?

Guai a pensare che certe cose capitino solamente agli altri. Sono convinto che la paura della morte ti salvi. Se non hai il timore di essere ucciso o rapito, è la volta buona che vieni fottuto. Bisogna stare attenti. Tanta gente si vergogna di ammettere di avere paura. Al contrario, la paura è un sentimento nobile. Non credo agli eroi, ai miei occhi quelli sono semplicemente degli incoscienti. Ad ogni modo, spesso è decisivo il caso.

In che senso?

Una volta dovevamo percorrere una strada verso Beirut, ma il nostro autista si ammalò. Lo sostituì il nipote che evidentemente era strafatto. Cominciò a correre come un forsennato e ci trovammo in una zona dove i militari si misero a sparare. Pensai: ‘Ma si può rischiare di morire in una maniera così cretina?’.

Dopo un lustro lasciò il Tg5. Come mai?

Decisi di cambiare lavoro e approdai in un’agenzia romana impegnata nella preparazione del Giubileo del 2000. Ero stanco e volevo cimentarmi nel ruolo di portavoce. Terminato l’Anno Santo arrivai in Rai, dove non ero mai stato prima. Entrai come assistente di Enzo Siciliano, poi divenni direttore delle relazioni esterne.

Al Tg2 la volle Mimun?

Sì. Era diventato direttore e mi chiese di tornare a condurre il telegiornale.

Riscontrò differenze tra il Tg5 e il Tg2?

Personalmente no. La figura del conduttore è strettamente legata alla sua forza. Ci sono soggetti incapaci di dire ‘questa roba è una stronzata e non la leggo in onda’. Io godevo di un’immagine forte, ero rispettato. La credibilità la puoi difendere solo se non ti nascondi.

Davvero un conduttore di tg può rifiutarsi di leggere una notizia in diretta?

Un conduttore serio ed autorevole ha la forza di discutere determinate scelte. Quando lavoravo ai telegiornali c’era una struttura gerarchica piramidale, come negli eserciti. Non so come sia adesso. Le recenti vicende del Tg1 non mi fanno pensare a direttori forti ed autonomi. Nel servizio pubblico la dipendenza della politica si è aggravata rispetto agli anni scorsi.

Nel 2002 mollò il Tg2 per sposare l’avventura di “Linea Verde”.

Sono una persona inquieta e volevo cambiare. Sapevano della mia grande passione per la gastronomia e mi sottoposero questa opportunità. Mi intrigava l’idea di viaggiare per l’Italia. Conoscevo il mondo, ma mi ero reso conto di aver visitato pochissimo il nostro Paese. Fu un’esperienza diversa ed ebbi al mio fianco una giovanissima e bravissima Beatrice Luzzi. ‘Linea Verde’ era ed è ancora una macchina da guerra, con una grande redazione.

La trasmissione la avvicinò ad un pubblico differente.

’Linea Verde’ mi regalò una popolarità diversa, anche se devo riconoscere che quella che ti fornisce un telegiornale non si batte. La popolarità è frutto della ripetitività, quando entri ogni giorno nelle case degli italiani diventi inevitabilmente uno di famiglia.

Dopo una stagione tornò al telegiornale.

Esatto, ma percepivo che il mio incarico si era consumato. Ero smanioso di fare altre cose, sentivo che quello non era più il mio target.

A quel punto cosa accadde?

Rientrai al quartier generale di Viale Mazzini e venni parcheggiato alle dirette dipendenze del dg Rai. Si presentò la prospettiva di andare a dirigere RaiSat Gambero Rosso e accettai. Non venni accolto con gioia, forse perché portavo con me il vento della Rai e della trasparenza. Quando mollai, la stessa tv di Stato ruppe con Gambero Rosso e pure Sky smise di includerlo nel suo bouquet.

Fu l’ultimo impegno televisivo?

Sì, cominciai a dedicarmi al mio amore per la critica gastronomica. Scrissi per la guida de ‘L’Espresso’ e per ‘Repubblica’. Ad oggi collaboro, anche se saltuariamente, con il supplemento online ‘Il Gusto’.

Baredson oggi
Baredson oggi

Le mancano i riflettori?

Non sono mai stato uno schiavo del video, a differenza di molti miei colleghi che raggiungevano l’orgasmo quando venivano riconosciuti per strada. Senza contare che ormai ho superato abbondantemente i 70 anni. La mia strada l’ho fatta.

Parecchi suoi colleghi hanno ceduto alle lusinghe di reality e talent. Con lei si sono mai fatti sotto?

No, no, per fortuna nessuno mi ha mai cercato!.

Cosa guarda in tv?

Mia moglie è un’appassionata di film ed effettua una sistematica ricerca. In tal senso, Netflix è un’ottima fonte di svago. Per il resto, mi piace ‘Presa Diretta’, invece non amo particolarmente la linea troppo aggressiva di Ranucci, che però è un fior di professionista.

E i tg?

Mi informo soprattutto su Sky e sulle tv straniere.

Mi aspettavo che citasse Mentana, sinceramente.

Enrico è formidabile, ma lo vedo poco. Ha una autorevolezza tale che può permettersi di mettere in piedi il notiziario da solo. Fa un one man show, tuttavia la sua è un’informazione povera di cronaca estera. Per una informazione globale devi sintonizzarti altrove. È sparito il resto del mondo dai titoli dei telegiornali, a riprova della crisi economica che domina il settore.

A dire il vero, è pieno di servizi su Medioriente e Ucraina.

Solo perché sono in corso dei conflitti. Prima che esplodessero nessuno usciva dal nostro territorio. Questo perché a dirigere tg e giornali ci sono persone che si sono formate alla scuola della politica interna. C’è una scarsa sensibilità per ciò che accade fuori dai nostri confini. Attualmente stiamo vivendo un imbroglio e si sentono ogni giorno una quantità imponente di cazzate. Chiunque apre bocca per dire la sua.

Al netto delle guerre in corso, le cronache dall’estero costano e non interessano il pubblico. Se ci pensa, fino a dieci anni fa ci si collegava con l’Inghilterra solo per parlare della Royal Family.

Hai ragione. Abbiamo corrispondenti della Rai che hanno costruito la loro carriera sulle vicende della Casa Reale. Un’attenzione morbosa che non trovi nemmeno nel Regno Unito.

È un esperto di Medio Oriente e non posso non chiederle del conflitto israelo-palestinese. Non ha anche lei la sensazione di vivere un eterno ‘giorno della marmotta’?

È esattamente così. Una delle ragioni per cui decisi di smettere con la politica estera fu questa. Scrivevo gli stessi articoli che vent’anni prima avevano pubblicato i miei maestri. Si ripetono sempre le stesse cose e le dinamiche non mutano. È tutto molto stucchevole. Ti confesso che avrei voglia di recarmi a Gerusalemme. Ma una volta là, cosa potrei raccontare? Non ti fanno nemmeno avvicinare a certi luoghi…

Centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza a sostegno della causa palestinese.

Le manifestazioni mi sono piaciute molto, ma non credo che fossero in prevalenza legate alla questione palestinese.

Cioè?

Le ho lette come il segno di una profonda insoddisfazione da parte di molti italiani, che guadagnano poco e non arrivano alla fine del mese. Gente che evidentemente non si sente rappresentata da questo governo, né dalla sinistra. Scenario che ha permesso a Landini di assumere un ruolo politico che nessuno avrebbe immaginato. Sono cortei che vogliono sottolineare malessere e rabbia, e non parlo di quei quattro stronzi che sono andati a tirare bombe e ad attaccare le forze dell’ordine.

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