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Francesca Fialdini: “Da ragazza nascondevo il mio corpo, non mi riconoscevo. Per capire chi sei devi inabissarti”

Parlare di tematiche come i disturbi del comportamento alimentare, strettamente legati alla salute psicologica non è cosa semplice, lo sa Francesca Fialdini che per farlo ha dovuto iniziare un lungo viaggio dentro sé stessa, scavando nelle sue profondità. In questa intervista la conduttrice sottolinea la necessità di affrontare questi temi oltre che quella, più intima, di guardarsi dentro e non solo allo specchio.
A cura di Ilaria Costabile
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Parlare a telefono con Francesca Fialdini significa immergersi, scendere giù, dove c'è la vera essenza delle cose, delle esperienze che si raccontano, come di quelle che si vivono. Da Fame d'amore a Le Ragazze, passando per Da Noi…a Ruota Libera, è diventata il volto in cui riconoscersi quando si ha a che fare con tematiche importanti, delicate, a volte anche dimenticate, ma di cui bisognerebbe parlare a gran voce. La salute, tanto fisica, quanto psicologica è al centro dei suoi racconti, come anche dei suoi obiettivi quotidiani e si percepisce in ogni parola scandita, pensata e sentita di questa intervista, nella quale si affronta la vergogna e il pregiudizio nell'ammettere di avere un disturbo, di qualsiasi natura, si prova a comunicare in maniera inclusiva, innanzitutto verso noi stessi, perché accettarsi sia meno difficile. E infine si parla anche d'amore, da sempre la luce di quello che siamo dentro.

Da Noi a Ruota Libera, Fame d'amore e Le Ragazze, nel racconto sembra che tu abbia trovato la tua dimensione. Quali sono le storie che ami raccontare?

Quelle storte. Dove non c’è per forza un happy ending, dove le aspettative vengono un po’ tradite. Perché le aspettative penso vadano un po’ disattese quando si tratta di rispondere a delle convenzioni che ci vengono insegnate, rispetto a degli stereotipi culturali, questo vale sia nelle relazioni d’amore, come nella realizzazione dei propri desideri se sei donna, o se sei considerato diverso.

Cos'è che ti attira di queste "storie storte"?

Le storie storte mi piacciono perché il protagonista tendenzialmente non può percorrere un cammino lineare, non rispetto a ciò che gli accade fuori, ma a ciò che si porta dentro. Un lavoro di approfondimento, anche psicologico, andare a fondo nelle cose, diventa necessario, importante. Per poterlo fare devi inabissarti, insieme a coloro che decidi di raccontare, così quando torni a galla ti rendi conto di quanto sia bello respirare, quanto sia sottovalutata l'armonia delle cose che hai intorno.

Hai parlato nei tuoi programmi di disturbi del comportamento alimentare, ma tanto i dca quanto quelli relativi alla salute mentale, rientrano ancora in quelle patologie di cui si ha paura di parlare apertamente. Credi che ci sia ancora del pregiudizio o è la paura di mostrarsi?

Ci sono tutte e due le cose. Andando in giro per le scuole con il libro (Nella tana del coniglio ndr.) ho capito che l’attenzione da parte dei ragazzi è altissima, hanno bisogno di sentir parlare di questi temi. Molti hanno confessato di avere un disturbo del comportamento alimentare o di aver attraversato un periodo buio, in cui non erano stati capiti. Parlare davanti alla propria scuola non è facile, ti rende ancora più vulnerabile agli occhi degli altri. Questo ci fa capire, però, che hanno bisogno di essere ascoltati, se non lo fanno in un contesto protetto, non trovano la forza di venirne fuori. I ragazzi si sentono giudicati, ma gli adulti hanno ancora tanta vergogna a chiedere aiuto, magari rivolgendosi a dei professionisti che si occupano della mente, c’è vergogna nel portare i figli dallo psicologo o dallo psicanalista, c’è la vergogna nel dire di avere un figlio malato di anoressia o bulimia.

Come si può scardinare questa vergogna?

Intanto con la conoscenza, parlandone tanto e nel modo giusto, riflettendo sul nostro modo di esprimerci, perché è da lì che parte il percorso di accettazione dell'altro e di noi stessi. Quando vediamo un corpo estremamente magro, anoressico, che si priva di tutto, da un lato siamo pronti a giudicarlo ma dall'altro ci affascina. Dovremmo chiederci, cosa stiamo giudicando? La sofferenza in corso. Per le donne fino a qualche anno fa, prima che il Covid portasse a galla tutto questo sommerso di disagio psicologico, l’equazione magrezza uguale modella era quasi automatica. Giornalisticamente e mediaticamente, il tema era sempre stato un po’ relegato al mondo della moda e del costume, come se non ci fosse altro da scavare lì sotto, come se non riguardasse altri ambiti.

Il retaggio di una cultura che badava alla superficie, più che alla profondità.

C'era una pubblicità negli Anni Novanta "se non mangia vuole fare la modella", in certi ambienti si diceva "è un’isterica, ma chi si crede di essere, è un’esaurita le fanno male i nervi". Adesso abbiamo preso consapevolezza di cosa fosse quel corpo troppo magro e abbiamo imparato a sospendere il giudizio. Non accade lo stesso con un corpo obeso, lì è ancora facile giudicare. La prima cosa cui pensiamo, lo ha detto anche Big Mama a Sanremo, è che la persona sia pigra, senza forza di volontà. Scardinando questi luoghi comuni, che affossano la dignità della persona e la condannano ad uno stigma eterno, impariamo a riappropriarci del linguaggio. Il disagio psichico relativo al cibo e al corpo nei disturbi alimentari, sopravvive di paradossi che ci inchiodano al nostro modo di parlare.

A proposito di linguaggio, nel libro parli dell'importanza di usare i termini giusti, perché definiscono la percezione di noi stessi nel mondo. Ora che hai acquisito questa consapevolezza, è cambiato anche il modo in cui hai iniziato a parlarti?

In questi anni ho imparato tante cose, ho approfondito l’aspetto delle parole legato ad alcuni disturbi e mi ha conquistata. Applicarlo alla mia persona, però, è una conquista quotidiana. L’autostima che passa dalla consapevolezza di sé, passa dai pensieri che abbiamo su di noi, ma anche dalle parole che usiamo per descriverci. Questa è una cosa nuova per me. Mi vedevo poco, mi mettevo dietro le cose che dovevo fare. Sto imparando a mettermici accanto.

Le storie che hai portato in tv, sono spesso di adolescenti. Ti è capitato di riconoscere nelle loro difficoltà, lo spaesamento, la confusione che hai attraversato nella tua adolescenza?

Ho vissuto da adolescente la confusione rispetto al mio corpo, quando è letteralmente esploso. Fino alla seconda ginnasio ero quasi una bimba fisicamente, poi all’improvviso sono diventata una donna. Dal nulla mi è arrivata una quarta di seno e non sapevo cosa farmene, era un corpo estraneo. Mi sono trasformata, mi facevano sempre male le scarpe, alla fine ho iniziato a mettere quelle di mia madre che non avevano cuciture. Era terribile quel periodo, non sapevi come vestirti, chi eri, ti guardavi allo specchio e dicevi “piacere, buongiorno, lei chi è”.

E hai fatto fatica ad accettarti, ad accogliere quei cambiamenti?

Era difficile riconoscersi, soprattutto sapendo che a scuola con quel corpo lì, ci sarei dovuta andare, con lo sguardo giudicante dei miei compagni. Andava di moda giudicare, era lo sport preferito dei ragazzi, perché così funzionava, perché si rideva di queste cose, per fortuna senza mai arrivare al bullismo. Ho dovuto fare i conti con un corpo che è diventato un altro, frugavo nell'armadio di mio padre, indossavo le cose più larghe che trovavo, quel seno così grosso non sapevo dove metterlo, lo nascondevo, o almeno mi sembrava. Mettevo anche i suoi jeans, mi andavano grandi, li cucivo con un elastico. Per fortuna erano gli Anni 80-90 e quindi andare in giro vestita oversize faceva parte del costume dell’epoca.

L'istinto era quello di ragionare per sottrazione. Meno mostro, meno mi vedranno. 

È tutta questione di percezione. Non mettevo nulla di femminile, mi vergognavo, non sapevo come gestirla questa femminilità arrivata tutta d'un tratto. In classe eravamo quasi tutte ragazze, ero in un liceo classico, un ambiente competitivo e ricordo che le mie compagne ci tenevano ad essere femmine. Le guardavo con ammirazione, io non riuscivo a mettere le gonne, a truccarmi, il rimmel l'avrò messo una volta nella mia vita, mi sentivo stupida. Ho iniziato a truccarmi, davvero, una volta arrivata in televisione e avevo 24 anni.

Parlavamo di storie, dell'importanza di raccontarle, ma anche di ascoltare. Da dove nasce la tua predisposizione all'ascolto?

Ho sempre voluto fare questo mestiere e inevitabilmente ti devi inabissare nelle storie degli altri. Inizialmente, con i programmi di informazione che ho fatto, avevo dei tempi ristretti, non potevo approfondire, quando il mio lavoro si è declinato in un'altra maniera, anche con interviste più lunghe, ho avuto la possibilità di scendere giù. Sono così, non so se sia un bene o un male. Un amico mi disse che l'umanità è fatta di tre tipi di persone: piombini, lenze e sugheri. Io sono un piombino, non mi accontento delle risposte che trovo in superficie.

E sei stata "un piombino" anche per te stessa?

Certo che sì. Vorrei raccontarti una cosa che ricordo come se fosse accaduta ieri.

Certo, racconta pure. 

Preparavo l'esame di stato con Matteo, il mio migliore amico ancora oggi, lui raccoglieva tutte le gioie, i dolori che nell'adolescenza sono amplificati. In quegli anni sei traumatizzato dalla famiglia, dalla società, tendenzialmente siamo dei traumi con le gambe, cerchiamo il nostro posto nel mondo con grande insicurezza e anche delle vie di fuga, speri sempre che all’improvviso si materializzi una porta, così tu la apri, la attraversi e sei in un’altra dimensione. Mi ero fissata su una frase di Manzoni, quella sulla provvida sventura, mi ci rompevo la testa, perché per me non c'era niente di provvidenziale in una sventura, ma oggi so che è vero. Questa cosa mi ha fatto litigare per anni con Manzoni, con Matteo e con la mia profondità, perché dovevo cercare sempre una spiegazione.

Anche le persone che hai incontrato in questi anni di lavoro, di approfondimento, ti hanno aiutato a metterti in connessione con le tue emozioni?

Sì e va bene così. È un processo che deve andare avanti tutta la vita, lasciarsi interrogare dalle storie degli altri, capire che eco hanno nella tua, capire quali storie ti fanno da specchio, per lavorare su se stessi, credo che sia fondamentale. Anche per instaurare delle relazioni con gli altri, in amore, in amicizia, nei rapporti professionali, che siano più leali, più oneste.

In questa edizione de Le Ragazze, alla fine di ogni puntata, ci sarà uno sguardo maschile a rileggere le storie da un'altra prospettiva. Come mai?

Il nostro club al femminile non sarà stravolto, però l'attualità deve sempre entrare in quello che facciamo. Può succedere un fatto eclatante, come un femminicidio, che più di altri sconvolge l’opinione pubblica e porta dopo tanto tempo, giovani e meno giovani a scendere in piazza per manifestare il proprio dissenso. Anche i programmi televisivi devono lasciarsi interrogare, sebbene vengano percepiti alle volte come delle nicchie. Dopo la morte di Giulia Cecchettin si è riacceso il dibattito sul patriarcato, allora abbiamo pensato che fosse giusto in questa edizione integrare le storie femminili, di donne, con uno sguardo maschile, con quattro uomini sensibili a ciò che ci gira intorno, che hanno maturato negli anni delle convinzioni, ma soprattutto che fanno un mestiere, quello di raccontare delle storie da punti di vista differenti e, in più, sono stati ragazzi negli anni caldi dell'emancipazione femminile.

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Sarà un'edizione, a suo modo, corale. 

Sì, ma solo insieme si può camminare. Finché faremo delle battaglie da sole ci accuseranno di essere retoriche, di essere ancora lì a portare avanti la nostra bandiera senza pensare al resto, di essere messe all’angolo quando alziamo la voce, perché alle donne è facile dire stai zitta. Ce l’hai insegnato anche Michela Murgia, ripercorrendo la sua storia nel suo libro. Lo sappiamo, è una banalità, un’ovvietà, che però evidentemente ancora oggi non è stata veramente compresa a fondo: il cambiamento avviene insieme.

A proposito di sguardo maschile, nella tua carriera ci sono stati uomini che ti hanno supportata?

Sì, certo. Ci saranno stati anche uomini, come donne probabilmente, che mi hanno ostacolata o hanno tentato di farlo. Quando ho iniziato, nel 2004, c'erano poche direttrici donne in Rai, oggi ce ne sono di più. Se un direttore voleva valorizzare il tuo lavoro, perché gli eri piaciuta in un contesto, dovevano essere loro i tuoi alleati. È successo per esempio nel passaggio da Uno Mattina in Famiglia a Uno Mattina, era solo un anno che lavoravo con Guardì in quel programma, si era liberato un posto e Leone mi convocò. Dopo Leone c’è stato Orfeo, che mi ha portato a La Vita in Diretta, che io fossi pronta o meno era irrilevante, non si è mai pronti per le novità, ti devi buttare a fare del tuo meglio e subito dopo è arrivata Teresa De Santis, la mia prima direttrice donna.

Fonte Instagram
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In un'intervista a Vanity Fair hai parlato delle molestie subite e del fatto che ne fosse a conoscenza la tua terapeuta. L'essere già in terapia credi ti abbia aiutato a non colpevolizzarti, come spesso accade quando si vivono situazioni di questo tipo?

Certo, anche se era così chiara la disparità , non mi sentivo in colpa, ero molto arrabbiata. Questo tipo di rabbia è quella che mi ha fatto alzare un muro, mi dispiace che ancora oggi ci siano titoli sulle molestie, mi rendo conto che è importante metterle al centro di un argomento, però mi dispiace che sia ancora un argomento sensibile, perché purtroppo quasi tutte le donne subiscono delle molestie o delle violenze e non trovano il coraggio di dirlo, o di agire per difendersi. La notizia vera è chi non ha subìto molestia. Ho reagito per difendere la mia persona, non è stata né la prima né l’ultima volta, ce ne sono state altre, e ho risposto sempre allo stesso identico modo.

E come l'hai sviscerata questa rabbia?

L’ho messa nel mio lavoro, l’ho incanalata nelle passioni che ho, nell’approfondire temi che riguardano il mondo femminile, i giovani che sono i grandi dimenticati della politica. L’ho messa anche nella mia prossemica, nel modo di lavorare, nel condurre le interviste, concedo e non concedo, c’è sempre una giusta distanza, che è sempre rispettosa dell’altro, a prescindere da chi sia.

Le donne di cui parli in Le Ragazze, sono donne che hanno lasciato il segno, a loro modo hanno fatto atti rivoluzionari. Quale credi sia l'atto più coraggioso che hai fatto?

Alla fine ha deciso la mia vita, a 18 anni, quando sono andata via da casa. I miei genitori mi hanno sempre dato una libertà incredibile, però quando ho deciso di andare via non è stato facile accettarlo, soprattutto per mia madre. Ho iniziato da sola senza conoscere nessuno, ho preso il primo annuncio di una casa a Pietralata a Roma, cercando di spendere il meno possibile e me lo sono fatto andare bene. Da lì in poi è stato tutto un atto di coraggio, perché sai che vuoi fare questo mestiere, ma non hai la più pallida idea di come fare e come andare avanti. Poi, per me, nella vita scegliere di amare è sempre un grandissimo atto di coraggio, ma lo è anche andarsene nonostante l’amore, quando le cose non vanno.

Abbiamo parlato di guardarsi dentro, di paure, di disagi, a questo punto ti chiedo: cosa significa per te stare bene?

Come diceva sempre la mia psicologa, stare bene è un lavoro, quindi sto lavorando. È una conquista quotidiana, è riuscire a creare un’armonia, integrando tutte le parti di te. Ciò che illumina ciascuno di noi è sentirsi amato, non c’è niente di più forte, di più speciale che sentirsi visti, apprezzati da qualcuno a cui teniamo. Puoi avere tutto il successo del mondo, ma non per questo sentirti amato, perché sai perfettamente che chi ti vede tramite uno schermo, proietta su quello schermo tante cose, che in realtà sono sue. Chi ti conosce davvero ti fa sentire amato, perché ti conosce così come sei.

Anche se, lo dicevamo prima, amare è un atto di coraggio. 

È incredibile a dirsi, ma dobbiamo imparare. Abbiamo parlato d’amore da quando esiste l’uomo sulla terra, i greci speculavano sull’amore, sull’esistenza di dio, su chi siamo, chi non siamo e da allora ci portiamo queste domande, cerchiamo di dare una definizione delle relazioni. L’amore oggi cos’è diventato? A forza di parlarne, di cantarlo nelle canzoni, di ascoltare poesie, di leggere romanzi, nell’Ottocento c’era l’amore romantico, oggi cosa abbiamo fatto dell’amore?

Cosa ne abbiamo fatto?

Credo che l’abbiamo banalizzato, a discapito dell’unica cosa che conta. Tornare a parlare di coraggio, paura, ha a che fare con un grande smarrimento. La solitudine contemporanea è simboleggiata dal telefonino, dall'annullarci in questo scorrimento verticale di immagini che ci entrano nella mente e ci nutrono tanto quanto le parole, il cibo che mangiamo e condizionano anche il nostro modo di sentirci, il nostro umore, l’opinione che abbiamo di noi stessi. Stiamo crescendo generazioni di ragazzi insicuri, bombardati da immagini diverse da loro, perché quel telefonino mentre lo guardano li specchia. Possiamo essere anche perfetti fuori, possiamo ambire ad una forma fisica o a un volto plastificato, diverso da quello che ci è stato dato dalla natura, ma poi dentro chi siamo? L’amore che incontriamo è lo specchio di quello che sentiamo dentro.

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