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Chicco Sfondrini: “Saranno Famosi poteva chiudere dopo tre mesi, Maria lo salvò. Lasciai Amici per mettermi in gioco”

Lo storico autore del talent di Canale 5 si racconta a Fanpage.it: “Conobbi la De Filippi a Matricole e mi ricontattò anni dopo. La vittoria di Carta a Sanremo fu la svolta. Dopo aver lasciato non mi riconoscevo più”. L’esperienza a Ballando: “Milly e Maria si combattono, ma si rispettano”. Poi gli anni a Meteore: “Quella volta che raggiungemmo Craxi in Tunisia…”.
A cura di Massimo Falcioni
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Non appare più in tv, ma la tv in realtà non l’ha mai abbandonata. Chicco Sfondrini è semplicemente tornato al ruolo che ricopriva prima che Maria De Filippi gli chiedesse di mostrarsi in video, diventando uno dei volti più rappresentativi di “Saranno Famosi” prima e “Amici” poi. “Abbandonare i riflettori non fu semplice – racconta a Fanpage.it – mi accorsi che mi ero trasformato in un’altra persona e impiegai qualche anno per ritrovare me stesso”.

Classe 1964, milanese, Chicco – all’anagrafe Riccardo – conseguì la laurea in Lettere all’Università Cattolica. “L’indirizzo era quello di Storia del Teatro e da lì iniziai, rendendomi conto in seguito che quel mondo era troppo difficile. Si guadagnava poco e non mi consentiva di fare altro. Quindi mi tuffai sulla televisione e cominciai a mandare curriculum in giro, su suggerimento di un mio amico”.

La prima esperienza fu a “La grande sfida”, show condotto da Gerry Scotti. “Ero in redazione e aiutavo gli autori. Capii che mi piaceva scrivere e avanzare delle idee. La disciplina imparata a teatro mi tornò utile, soprattutto in diretta. Trovai una bella squadra e Dario Viola mi diede tanta fiducia”.

A quel punto, Gregorio Paolini lo selezionò per il “Sabato Notte Live”, adattamento italiano del celebre “Saturday Night Live”. “C’erano Paolo Bonolis e Luca Laurenti che facevano piccole gag in studio e lanciavano questi filmati provenienti dagli Usa. Io mi occupavo della traduzione degli sketch dei vari attori, da Steve Martin a John Belushi, passando per Dan Aykroyd. Per me fu una scuola e sono grato a tutti i dirigenti illuminati dell’epoca che mi consentirono di crescere”.

Ribeccò Gerry Scotti al “Quizzone”. Erano i tempi in cui la televisione in estate rimaneva accesa.

Si sperimentava. Arrivò questo format dal Giappone e ci sembrò fortissimo. Lo adattammo all’Italia e funzionò. Sarebbe potuto andare avanti altri anni, ma furono scelte del management. Quando lavori per una realtà commerciale, ciò che produci serve soprattutto a veicolare pubblicità. Conta quello.

Sbarcò su Italia 1 nel pieno dello splendore della rete.

Ci furono congiunzioni astrali positive. Il canale aveva un direttore capace come Giorgio Gori, una produttrice come Sabrina Gregoretti e autori del calibro di Barbara Cappi, Peppi Nocera, Max Novaresi. Sicuramente ne dimentico qualcuno. Era un bel gruppo, ci volevamo bene.

Mise la firma sia su “Matricole” che su “Meteore”.

Nel primo caso non assistetti alla genesi, perché entrai al secondo anno. Ma fu in quell’occasione che conobbi Maria De Filippi. Venne ospite e mandammo in onda il suo debutto da conduttrice. Fui bravo a recuperare una bella foto di lei al liceo a Pavia. Scambiammo due parole dietro le quinte per pochi secondi, non immaginando che quella persona sarebbe stata una figura fondamentale del mio destino professionale.

Il programma costava relativamente poco.

Fu un’intuizione della Gregoretti. Volle usare il materiale di magazzino, che veniva poco consultato. Avevamo tanta passione e visionavamo ore ed ore di filmati, fino a quando non trovavamo la piccola apparizione di questo o quell’attore.

“Meteore”, al contrario, lo vide nascere.

A mio avviso aveva uno scatto in più. C’erano le esterne e la possibilità di viaggiare. Ripescammo Sandy Marton, Rusty di ‘Rin Tin Tin’, il bambino di ‘Marcellino pane e vino’. Fu una bella avventura.

Nel settembre 1999 raggiungeste Bettino Craxi ad Hammamet. Sarebbe morto pochi mesi dopo.

La preparazione di quell’intervista fu un’epopea. Alla direzione di Italia 1 era arrivato Roberto Giovalli, che per ridere ci disse: ‘Se aveste le palle, andreste a trovare Craxi. Se non è una meteora lui…’. Raccogliemmo la sfida e mi misi in contatto con il figlio Bobo, che mi diede il numero. I primi istanti della telefonata furono agghiaccianti.

Perché?

Esordii spiegandogli che avremmo voluto chiacchierare con lui, ma che non si trattava di una trasmissione politica, bensì di un varietà. Tuttavia, quando seppe che il titolo del programma era ‘Meteore’ si bloccò: ‘Temo che lei abbia sbagliato persona’. Gli spiegai che il termine non voleva essere dispregiativo e dopo un po’ si ammorbidì. Andammo in Tunisia e ad intervistarlo fu proprio Sandy Marton. Al netto di qualunque valutazione politica, mi trovai di fronte uno statista, una persona che rivendicava Sigonella, l’autonomia dell’Italia rispetto alla Nato. Era di una intelligenza e di una velocità incredibili. Stava combattendo per la sua rispettabilità e non si dava pace per essere stato etichettato come quello che se ne era approfittato.

C’è un momento che, più di altri, le rimase impresso.

Gli domandammo cosa gli mancasse e ci rispose che aveva nostalgia delle città italiane. Ci confidò che le aveva visitate e percorse da politico, sempre fugacemente. Sognava di visitare un museo, di passeggiare per Firenze o Palermo. Poi, finita l’intervista, fece un bagno in mare. Non volle tagliare nulla, fu molto corretto.

“Il brutto anatroccolo” è stato un altro titolo cult.

Non fui al centro del progetto, ma mi divertii a seguire quello che mi dicevano i colleghi. Mischiammo le carte, creammo dei meccanismi goliardici, complice anche la presenza di Amanda Lear, che con Marco Balestri formò una coppia spettacolare. Spesso ci imbattemmo in situazioni surreali.

Del tipo?

Non sempre il make over riusciva in pieno e le persone lamentavano di essere diventate più brutte di quando erano arrivate. Allora c’era la libertà di sbagliare e potevi permetterti degli errori perché c’erano più soldi. Oggi se ti va male una puntata ti chiudono subito. Essendoci poche risorse, nessuno ha la pazienza di aspettare.

Arriviamo a “Saranno Famosi”.

Un giorno mi chiamò la Gregoretti, che nel frattempo era passata a lavorare con la De Filippi, e mi propose di conoscere Maria. Voleva mettere in piedi una scuola e pensò di coinvolgermi. Quando gli domandai per quale motivo avesse cercato me, mi spiegò che quella volta a ‘Matricole’ aveva apprezzato il fatto che non avessi sgomitato per mettermi in mostra. Evidentemente vedermi concentrato nel mio lavoro la colpì positivamente.

La prima puntata andò in onda il 17 settembre 2001, sei giorni dopo l’attacco alle Torri Gemelle.

Quel martedì era il nostro primo giorno di prove e rimandammo tutto. Daniele Bossari mi chiamò in camerino e alla tv vidi la scena delle torri in fiamme. Fu uno choc. Ma una volta superato il trauma, ci mettemmo a lavorare come matti. Maria voleva costruire una scuola credibile, nessuno lo aveva mai fatto prima in Italia.

I primi mesi però furono terribili e a dicembre sfioraste la chiusura.

Il nostro errore fu quello di non badare alla tipologia di racconto. Fallimmo dal punto di vista narrativo. Il primo periodo fu un disastro e Mediaset ce lo disse chiaramente: ‘Non andate oltre il Natale’. La De Filippi si dimostrò una grande imprenditrice: rilanciò chiedendo all’azienda fiducia, mettendo in campo se stessa.

Entrando in scena la De Filippi, Bossari fu messo da parte.

Ci tengo a questa precisazione: non scaricammo Daniele. Ma cambiando il programma ed entrando Maria, mutò pure l’impostazione. C’era bisogno di una figura che desse la possibilità al programma di approdare in prima serata e che facesse vivere le storie dei ragazzi. In questo non c’era e non c’è nessuno più bravo della De Filippi.

Lei come venne coinvolto?

Serviva qualcuno che stesse dentro alla scuola, che raccontasse le dinamiche e che fosse materialmente presente. Diede a me questo compito, anche se io in un primo momento mi tirai indietro. Ero timido e non me la sentivo.

La prima puntata del serale è datata 19 marzo 2002. Una giornata particolare.

Sì. Nel pomeriggio c’era stato l’incidente di Alex Baroni, di cui il nostro regista Roberto Cenci era molto amico. Fu un colpo pazzesco. Considera che alle audizioni del primo anno decine di ragazzi si erano presentati con il brano ‘Cambiare’. Poi la sera, rientrato a casa, appresi dell’omicidio di Marco Biagi. Un’altra botta.

Nel gennaio 2003 riceveste la diffida dall’America che vi costrinse a cambiare nome.

Nessuno per un anno e mezzo ci aveva contestato nulla, a tal punto che pensammo che forse potevamo sfruttare quel brand. In fondo, il vero titolo della serie era ‘Fame’. ‘Saranno Famosi’ era soltanto una traduzione. Ma quando ci arrivò la diffida non discutemmo.

Chi optò per la soluzione “Amici”?

Maria. A me sembrò una ipotesi assurda, non c’entrava niente con il talent. Lei però fu netta: ‘Il programma piace a prescindere e non è certo il titolo ad essere fondamentale’.

Si rischiava la confusione, essendo “Amici” un talk giovanile andato in onda fino a pochi anni prima.

Infatti aggiunse ‘di Maria De Filippi’ per distinguerlo dal vecchio progetto. Fu un po’ dura adattarsi, ma adesso se citi ‘Saranno Famosi’ storcono la bocca. I ragazzi di 20-25 anni non sanno cosa sia. Maria ha sempre dato prevalenza alle storie. Ti faccio un esempio riferito a ‘C’è posta per te’: capitava di registrare qualche segmento in estate e puntualmente mi preoccupavo della differenza di carnagione di Maria che gli spettatori avrebbero potuto notare. Lei mi ammoniva: ‘Se la gente si concentra sulla mia abbronzatura invece che sulle storie, significa che le ho raccontate male’. Aveva ragione.

Rimase ad “Amici” per una decina d’anni.

Fino all’annata con la Amoroso e Scanu. Il programma si è preso un posto nell’immaginario culturale che era impensabile alla vigilia. I più ottimisti immaginavano una tenuta per 2-3 edizioni. Maria è stata bravissima a modificare costantemente il prodotto e sono fiero di averla conosciuta. È di un altro pianeta.

Nel 2009 Marco Carta trionfò a Sanremo. Un episodio che determinò una vera svolta.

Hai ragione. Fino a quel momento c’era stato un muro. Il mondo discografico era sospettoso e ci guardava male. Dal 2009 ci fu il ribaltamento totale. Se prima c’era perplessità, ora aspettano di sapere chi vincerà il talent per sapere come si svilupperanno le vendite. Il marchio ‘Amici’ è diventato a sua volta una casa discografica ed è esattamente quello che intendeva la De Filippi quando parlò di credibilità.

Gli scontri tra alunni e professori divennero predominanti.

Davamo voce alla ribellione dei ragazzi per raccontare i singoli caratteri. La società non poteva essere descritta in maniera finta. Quindi si aprì una stagione in cui si puntò tutto su questo aspetto.

L’autorità veniva messa in discussione. Un po’ quello che accade oggi nelle scuole.

Succedeva che si mancasse di rispetto a qualche professore e la cosa mi provocava dispiacere. Altre volte, invece, veniva fuori un racconto umano bello, positivo. Non sono pentito e non rinnego nulla. Abbandonai non perché non mi riconoscessi più nel programma, ma perché non reggevo più certi ritmi. Lo riferii a Maria e lei fu carinissima. C’era inoltre un'altra motivazione.

Quale?

Avevo bisogno di mettermi in gioco, di sbagliare in autonomia. Se sei in squadra col più forte, vinci sempre. In compenso, non sai quanto vali realmente. Lontano dalla De Filippi lo ho capito: ho un valore medio. Certo è che io, unito alla sua bravura, ho dato il meglio di me.

Dopo “Amici” si presentarono alla porta altri talent.

Lavorai a ‘The Voice’ e ad un’edizione di ‘X Factor’, la prima di Mika, vinta da Michele Bravi. Due grandi programmi, ma entrambi non sono riusciti a portare quello che Maria ha fatto con ‘Amici’, ovvero la garanzia ai partecipanti di avere anche un prosieguo. È importante gestire il dopo. Ad ‘Amici’ stanno sul pezzo dodici mesi su dodici, a ‘X Factor’ e ‘The Voice’ no. Attualmente stanno proponendo con successo ‘The Voice Senior’, che però è un’altra roba. Parliamo di signori over 60 che cantano per passione. Non hanno ambizioni. Nel caso di Bravi sono contento che abbia fatto carriera, ma il merito è stato soprattutto suo.

Accettare la chiamata di “Ballando con le stelle” nel 2017 fu come passare dal Milan all’Inter.

Imparai molto. La Carlucci e la De Filippi si combattono, ma si rispettano. Stanno attente a fare bene il proprio lavoro. Quando stavo da Maria si era concentrati nel marcare Milly e quando stavo da Milly viceversa, seppur con modalità diverse. Rai 1 andava e va in diretta, Canale 5 ha spesso il programma registrato. A ‘Ballando’ era una continua lotta nel comprendere come aveva ragionato l’avversario.

Chiamaste addirittura come ospite Morgan, che la settimana prima aveva polemicamente mollato “Amici”.

Maria mi telefonò la notte stessa per dirmi che avremmo potuto evitare i lanci del tipo ‘Stasera Morgan dirà tutta la verità’. Da persona intelligente e del mestiere capì che il nostro mezzo per la sfida era quello. Al netto di questo, sono fiero della partecipazione di Marco al programma. Tenne delle belle lezioni, ne ricordo soprattutto una magistrale sul valzer. Comunque, non ho vissuto quel passaggio come un tradimento.

Da allora “Ballando” è ulteriormente cambiato.

Vero. C’erano meno cose, ma era ugualmente lunghissimo. Al di là di qualche innesto, Milly fa della reiterazione di alcuni codici il segreto del successo della trasmissione. Vedi la scenografia, che è immutata da vent’anni.

Non posso non chiederle di “Adrian”.

Mi aggregai nella seconda edizione, quando Mediaset convinse Celentano a riproporlo modificato, dopo l’insuccesso della prima uscita. Adriano si era convinto che il cartone animato fosse il futuro. Fortunatamente riuscimmo a farlo esibire. È uno dei ricordi più belli che mi porto dietro, per me è un mostro sacro. È stato come collaborare con Elvis. Ha inventato un genere e nel tempo ha conservato una enorme creatività.

Lui puntava sul cartoon, ma il pubblico chiedeva le canzoni dal vivo.

Fu complicato, lo confesso. Certe volte non capivo dove volesse arrivare e faticavo a contraddirlo. Probabilmente avrei dovuto essere più coraggioso. Fui felice di ritrovare Maria, che venne ospite una sera.

Non è stato semplice nemmeno affiancare Mara Venier a “Domenica In”.

Lavorare di domenica è già di per sé massacrante e collaborare con lei è difficile. Aveva già in mente cosa fare, dava per scontato alcune questioni. Senza contare che alla quinta volta che intervisti la Goggi è impossibile trovare robe inedite. È una sfida che ti logora e lei era esigente. Ma pure qui parliamo di una eccellente professionista che conosce magnificamente il mezzo. Non puoi cambiarla. Noi autori a volte dominiamo il gioco, altre volte dobbiamo seguire i conduttori.

Il presente si chiama “Allegro ma non troppo”.

Sono contento di curare questo programma pensato da Luca Barbareschi. Si possono fare due chiacchiere con determinati personaggi su tematiche che non siano necessariamente le loro biografie. Sono stufo di quelle figure che vengono invitate a discutere dei cavoli loro. ‘Allegro ma non troppo’ si distingue, Barbareschi va oltre e non ha peli sulla lingua. Chi viene può parlare venti minuti di concetti profondi. Ormai non siamo più abituati ad ascoltare persone intelligenti che ti raccontano cosa pensano della vita. Mi auguro che duri a lungo.

Torniamo a bomba: “Abbandonare i riflettori non fu semplice e mi accorsi che mi ero trasformato in un’altra persona”. Cioè?

Quando lasciai ‘Amici’ e smisi di andare in video, sentii di non riconoscermi più. A furia di complimenti e sorrisi, quando rientrai dietro le quinte continuai ad agire proprio in funzione di quei sorrisi e di quei complimenti. Nulla di più sbagliato. Cercavo puntualmente l’approvazione degli altri e ricominciare a fare bene il proprio lavoro senza che vi fosse l’applauso di contorno fu impegnativo. Ci è voluto tempo per ritrovare un equilibrio. Analizzando il tutto a freddo sento di essere diventato più bravo perché ora capisco cosa vive chi è davanti alla telecamera. L’autore scrive un testo e se quel testo è sbagliato rimane un piccolo errore autoriale. Per il conduttore non è così: quell’errore resta un marchio sul suo volto.

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