
In sala è arrivato La voce di Hind Rajab, diretto dalla regista tunisina Kaouther Ben Hania, vincitrice del Leone d'Argento – Gran Premio della Giuria alla Mostra del cinema di Venezia 2025, quinto film più visto al boxoffice del weekend. Un film potente, che si propone di diventare un simbolo di dissenso contro il genocidio in Palestina. È stato selezionato come rappresentante della Tunisia per la categoria miglior film internazionale agli Oscar 2026 e, ad oggi, sembra essere il favorito alla vittoria. Anche il nostro candidato, Francesco Costabile con Familia, lo guarda con ammirazione nella corsa che, semmai fosse, li vedrà concorrere nella stessa categoria: "È un film necessario, figlio dei suoi tempi. Pellicole del genere sono strumenti che ci aiutano a portare nelle scuole temi difficili, come la violenza di genere o le guerre", ha dichiarato.
Costabile ha ragione, è un film necessario, ma forse non solo per quello che si pensa. Non occorre vederlo per stabilire torti e ragioni, per prendere posizione nel conflitto in Medio Oriente, la sua utilità è ben altra. La voce di Hind Rajab si propone di mettere tutti d'accordo sul fatto che l'assenza di umanità di fronte alla richiesta di aiuto di un bambino è il fallimento più grande che avremmo mai potuto immaginare. Essere sordi al richiamo della piccola Hind, di soli sei anni, intrappolata in una macchina crivellata di colpi, con zii e cugine morte sugli altri sedili, e sentirla lamentarsi per oltre quattro ore perché ha paura, "ci sono i carri armati che avanzano", è qualcosa che innesca un'impotenza che logora, difficile da gestire anche una volta usciti dalla sala.
La regista Kaouther Ben Hania fa una scelta ben precisa, quella di far ascoltare senza filtri la telefonata vera di Hind con i volontari della Mezzaluna Rossa palestinese durante una sparatoria a Gaza del 29 Gennaio 2024. La bambina acquisisce un volto solo a un certo punto del film, nella prima parte ciò che porta a lei è solo la voce strozzata e smarrita, incapace di realizzare cosa le stia accadendo intorno. Ha percezione del pericolo, riesce a dare coordinate precise per essere localizzata, ma del resto si spiega poco. L'unica cosa che conta, e che a un certo punto diventa una comprensibile ossessione, è quella di essere tratta in salvo. La sua disperazione diventa la nostra, i suoi continui appelli si traducono in un tormento che diventa un'insopportabile forma di claustrofobia per tutta la durata del film. Sono 89 minuti ma sembrano eterni.
Quando partono i titoli di coda si dovrebbe tirare un sospiro di sollievo e invece è lì che arriva la parte più difficile. Si potrebbe dire che sia stato pensato e realizzato come un film per smuovere le coscienze, soprattutto di chi è ancora arenato nel dibattito intorno ai torti e alle ragioni di Palestina e Israele, ma in realtà questo piano viene del tutto superato. Il fine è chiaro: vedere in questa goccia un mare di storie che accadono ogni giorno e non devono più ripetersi. Vedere l'infanzia sacrificata nel nome delle ideologie dei grandi, immolata ai piedi di un carro armato e sottratta a qualsiasi possibilità di futuro. È un contesto in cui non può vincere nessuno, ci sono solo polvere e sangue, lacrime e macerie.

La corsa contro il tempo, nel tentativo di raggiungere quella stazione di servizio dove Hind sta morendo, si fonde con l'impossibilità di intervento e di inversione di rotta. È un finale già scritto, che non si vuole accettare, una corda doppia che inizia a bloccare gli spettatori ai sedili, obbligandoli solo ad assistere. La voce di Hind Rajab dovrebbe essere ascoltata da tutti perché si impone come una sfida alla divergenza di opinioni sull'inevitabilità di un fatto simile in un clima di guerra. E invece è qualcosa che non dovrebbe mai accadere, un punto così basso che non ha niente a che vedere con le ricostruzioni storiche e le responsabilità sul campo. Una vita che andava protetta da un principio di umanità che ha abdicato alla sua missione e si è girata dall'altra parte. Possa la sua vetrina mondiale agli Oscar garantirgli di arrivare a quanta più gente possibile e, nella migliore delle ipotesi, smontare le reticenze di chi crede si debba ancora autorizzare la parola genocidio.
